Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Il tesoro degli Ashanti” di Francesca Giommi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

Si dice che l’origine e il nome stesso di Kumasi risalgano all’epoca del grande guerriero Osei Tutu, che riuscì a riunire sotto il suo potere in un unico popolo i clan provenienti dalla savana sub-sahariana stanziatisi già dal dodicesimo secolo sulle colline e sulle alture sparse dell’Africa occidentale, nel cuore dell’odierno Ghana, dando così vita al glorioso Regno degli Ashanti. Quando Osei Tutu volle dare al suo regno una capitale, chiamò a sé il venerato stregone Okomfo Anokye, che dall’alto della sua saggezza e veneranda età fece piantare due alberi di kum a qualche miglio di distanza l’uno dall’altro in due radure pianeggianti egualmente favorevoli, e dove la pianta germogliò e crebbe più rigogliosamente la città fu edificata (kum asi significa appunto “sotto l’albero di kum”). Da allora il suo impero si ingrandì, estendendosi dal Ghana centrale fino agli attuali Togo e Costa d’Avorio e divenne uno dei più potenti d’Africa, distinguendosi valorosamente nei secoli a seguire in strenue e sanguinose battaglie contro gli invasori europei a difesa della propria indipendenza e sovranità.

Quello che però i suoi corsi di letteratura e cultura africana alla SOAS di Londra e la sua inseparabile Rough Guide non le avevano insegnato, Isabel lo apprese presto da sé in una sorta di corso accelerato, e la prima lezione la ebbe non appena mise piede alla stazione degli autobus della leggendaria città di Kumasi, dopo un lungo, soffocante ed estenuante viaggio iniziato parecchie ore prima all’alba ad Accra, con tante fantasie in testa, la maglietta ancora stirata e la lunga treccia di capelli castani ancora lucida e ben ordinata. La sua avventura a onor del vero era partita tre giorni addietro, quando in un pomeriggio di fine luglio, Isabel aveva lasciato l’aeroporto di Bologna zaino in spalla e visto fresco fresco sul passaporto per coronare il suo sogno – dopo tanti studi e una tesi di laurea sulla letteratura africana postcoloniale di lingua inglese – di poter finalmente metter piede in terra d’Africa.

L’impatto con quel misterioso continente era stato straniante ma amichevole: all’aeroporto erano andati a prenderla dei parenti acquisiti di quel suo professore londinese pallido pallido che a forza di insegnare “istituzioni dell’Africa equatoriale” si era sposato con una bellissima ghanese nera come l’ebano, e che le avevano in un certo modo “attutito il colpo” accogliendola in casa loro per i primi due giorni del suo viaggio, trattandola come la regina Cleopatra e dandole le prime necessarie raccomandazioni per una giovane ragazza bianca, bella e determinata, chissà poi perché, ad attraversare da sola il paese invece di andare a fare le vacanze a Santorini con le sue amiche altrettanto giovani, bianche e belle.

Tra le raccomandazioni che Isabel non aveva ascoltato, c’era stata quella di non salire sui tro-tro, pulmini popolari e così economici che i pezzi di lamiera che ne componevano la fantasiosa carrozzeria erano spesso tenuti insieme da corde, nastri adesivi o dai passeggeri stessi, stipati gli uni sugli altri – nessuno di quei mezzi di locomozione si sposta fino a che l’ultimo centimetro cubo non è stato occupato – in una mescolanza unica di colori, suoni e odori. I tro-tro potevano andare bene per gli spostamenti brevi o per la gente del posto, le avevano raccomandato quei parenti neri del professore bianco, ma per lunghe distanze meglio affidarsi agli autobus nazionali o ai treni che prendono gli uomini d’affari e tutti gli occidentali, più costosi ma più rapidi e sicuri soprattutto per una straniera come lei, sola, donna e persino bianca, che avrebbe fatto meglio ad andare ad abbronzarsi in Grecia. Lei invece, neanche a dirlo, aveva pensato che quei mezzi così pittoreschi sarebbero stati il suo primo contatto vero e diretto con i “locali”, e di certo aveva avuto quel che cercava nelle lunghe ore trascorse seduta su una panca di legno senza appigli a cui reggersi, ma da cui non avrebbe potuto in alcun modo cadere nemmeno alle buche più profonde della strada o alle svolte più brusche del conducente per mancanza di spazio tutt’attorno, stretta vigorosamente com’era da una giovane donna con sulle ginocchia due bellissime bambine piene di mosche e treccine da un lato e un’anziana signora senza denti e la sua belante capra in grembo dall’altro.

Alla stazione di Kumasi Isabel faticò a ri-distendere le giunture doloranti e appena scesa dal tro-tro respirò a pieni polmoni quell’aria un po’ polverosa di un pomeriggio afoso e senza sole – anche questo le avevano detto, che di quel periodo si andava verso la stagione delle piogge e il cielo sarebbe stato spesso coperto e quasi opprimente, ma lei stentava a crederlo e comunque di certo la sua pelle diafana ne avrebbe tratto riparo e giovamento. Non ebbe nemmeno il tempo di inspirare a fondo che già le si era radunato tutt’attorno un capannello ilare e chiassoso di marmocchi e ragazzini che le davano festosamente il benvenuto al suono, già divenuto in quei giorni a lei familiare, di obroni a kwaaba (benvenuta ragazza bianca), e che tra risa e schiamazzi si rimbalzavano l’un l’altro il bagaglio che più in fretta di lei avevano recuperato dal pulmino. Fu allora che intervenne Cosby, di appena una spanna più alto dei compagni ma di certo più assennato e abituato ad avere a che fare con stranieri, e soprattutto con indifese pallide straniere, che con qualche incomprensibile richiamo, sibilante fischio e scappellotto ben piazzato mise in fuga quell’improvvisato comitato d’accoglienza e restituì lo zaino ad Isabel, il tutto senza proferire parola e senza che lei dimostrasse in alcun modo di esserne la proprietaria, ma d’altronde di chi altri poteva essere quello zaino ferrino di un lilla e rosa fiammante legato sul tetto di un tro-tro nel cuore del Ghana?

Da allora Cosby divenne la sua ombra e la sua guida, il suo cicerone e protettore al tempo stesso, in effetti senza che lei glielo avesse chiesto, ma da quel primo approccio non ci fu più modo di toglierselo di torno e per la verità a lei non dispiacque avere un intermediario locale che parlava anche un po’ di inglese e si dimostrava così carino e cavaliere con lei, e che a mali estremi avrebbe anche potuto farle da guardia del corpo. Cosby la accompagnò in una prima passeggiata esplorativa di Kumasi, tra le sue vie in parte asfaltate ma in gran parte ancora di terra rossa battuta e i resti di architettura coloniale disseminati tra le capanne di fango e lamiera. Ma più della calura e della varietà urbanistica, Isabel rimase colpita da quel brulicare di persone così frenetico e vitale, da quella città così caotica e gremita di gente che correva come formiche impazzite. La sua Rough Guide diceva in effetti che sparsi sulle colline c’erano più di un milione di abitanti, ma a giudicare dalla densità umana delle vie che stava percorrendo scortata dal suo nuovo e ormai inseparabile amico, pareva che quel giorno fossero scesi tutti a valle ad aspettare il suo arrivo.

Prima tappa obbligata del suo tour nel regno degli Ashanti fu il National Cultural Centre, dove Isabel ammirò la ricostruzione di un villaggio tradizionale e le numerose manifatture racchiuse in teche un po’ impolverate: abiti, gioielli, pezzi di mobilio e strumenti musicali, sculture in legno, bambole della fertilità e i cosiddetti kuduo, vasi in rame o bronzo istoriati di varie forme e dimensioni, con figure e incisioni in altorilievo. Sin dall’antichità quel popolo si era specializzato nella lavorazione dei metalli – oro e bronzo soprattutto – con la tecnica della fusione a cera perduta, producendo magnifiche creazioni decorate con i temi ricorrenti del disco solare e della stella a più punte. Gli oggetti che più di tutti destarono la sua ammirazione furono quelli che in effetti anche la sua guida contraddistingueva con ben tre stellette: lo sgabello con elaborate incisioni su cui Nana Ntim Gyakari, capo dei Denkyira sconfitto da Osei Tutu, sedeva quando fu catturato dagli Ashanti in un’imboscata nel 1699, oggi divenuto simbolo di liberazione e potere, e la sacca di pelle di Okomfo Anokye, che contiene tutt’oggi un inestimabile quanto sconosciuto tesoro, perché secondo la tradizione l’aprirla porterebbe alla rovina dell’intero popolo.

Ma il vero tesoro degli Ashanti Isabel lo trovò fuori dal museo e dove meno si sarebbe aspettata di trovarlo. Dopo quella prima visita didattica e di stampo così accademico e occidentale, Cosby la prese per mano e accelerando il passo la condusse in un altro luogo a lui ben più noto e familiare, il mercato centrale della città, un’enorme distesa di merce d’ogni sorta, da frutta e verdura a pezzi di ricambio di auto, da spezie multicolori a lingue e teste di scimmia, da vestiti e scarpe di marchi europei contraffatti fino all’artigianato tradizionale e agli abiti di prezioso e raffinato tessuto Kente, così sontuoso e sgargiante da essere anche molto costoso se fabbricato con la seta. “Quello di Kumasi è il mercato più grande dell’intero Ghana e uno dei più grandi d’Africa” diceva la Rough Guide che Isabel consultava sempre più a fatica mentre la sua guida in carne ed ossa la strattonava tra banchi e ambulanti disposti in maniera casuale e sovraffollata, costringendola ad un certo punto a chiudere quel grosso tomo e riporlo nello zaino, e ad affidarsi d’ora in poi unicamente ai suoi sensi. E davvero tutti i suoi sensi, nessuno escluso, rimasero travolti ed estasiati da quell’immersione tutta d’un fiato in quel mercato nel cuore dell’Africa, tra un popolo millenario e fiero, i cui sorrisi, saluti e schiamazzi rappresentavano la merce più preziosa e il tesoro più impagabile, e che la fece in un baleno sentire accolta e “a casa” al suono cantilenato e ovunque gioiosamente ripetuto di obroni a kwaaba.

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5 commenti »

  1. Ciao Francesca, sei andata in Ghana lasciando perdere una vacanza a Santorini. Ci dai i tuoi sguardi di questo viaggio, esploratrice italiana in un mondo lontano dal nostro, caratterizzato dalla spinta alla vita, dalla fierezza di un popolo e dal saluto obroni a kwaaba (benvenuta ragazza bianca). Tutto questo chiede il nostro rispetto.
    Emanuele

  2. Il viaggio è innanzitutto scoperta e quello in cui ci hai guidato è stato una piacevolissima scoperta… Non so se tu sia stata davvero in Africa né se hai studiato letteratura e storia africana a Londra (se non è così tanto di cappello perché ho creduto a ogni singola parola) ma poco importa in fondo. Salgari non si è mai mosso da Verona eppure ci ha raccontato la Malesia e il Sud-est asiatico come non ha fatto nessun esploratore… Grazie ragazza bianca! Sarei curioso di sapere che ne pensi del mio “La Torretta di Guardia”

  3. Mal d’Africa. Mi sono venuti in mente certi racconti di Hemingway, ma lui racconta un’Africa più cupa, più scura. La tua, invece, è piena di odori, di contrasti, di gente. Qualcuno, stupidamente, potrebbe aspettarsi qualcosa di forte, tipo un tentativo di approccio di Cosby oppure una rapina. E invece questa storia è solo una bellissima dichiarazione d’amore. E, alla fine, il tesoro la protagonista non lo trova al museo o in qualche scavo archeologico, ma fra la gente, nel mercato. Finale degnissimo di una bella storia. Complimenti.

  4. Bellissima pagina da un diario di viaggio! Il lettore si immerge in una cultura lontana e millenaria riga dopo riga, grazie alla curiosità di Isabel, che preferisce viaggiare scomoda pur di avere un contatto autentico con il popolo che la ospita. Da come descrivi il paese direi che sei stata davvero a Kumasi. Leggere il tuo racconto mi ha fatto venire ancora più voglia di visitare l’Africa, un continente che amo, nonostante non ci sia mai stato. Complimenti

  5. Profumo e colori di un pezzetto d’Africa, una vivida pagina di diario in cui pare entrare per dare un’occhiata. Meglio ancora se continuasse con altre pagine!

    Arianna

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