Racconti nella Rete 2009 “I ragazzi non piangono” di Gian Paolo Di Pierro
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Because boys don’t cry, e le labbra fanno na-na-na-na-na.
Canto ma tengo ben stretta la voce dentro la gola, che non voglio mica svegliare il vecchio di fianco a me.
Sto dritto con la schiena, come se la sedia mi entrasse su per il culo e mi costringesse a starmene rigido con gli occhi a mezza tendina, la bocca intermittente e la gola ormai secca che saluta con l’esofago la signora davanti a me.
Il ginocchio mi fa male.
La tipa di fronte-una-sedia-a-sinistra mi guarda, la becco proprio mentre uno dei miei muti slanci canori mi fa oscillare le orecchie a destra e a sinistra. Dritto negli occhi. Forse la spavento, o forse tengo l’i-pod così alto che tutti si stanno ascoltando i miei Cure. Poco male in fondo, almeno si svegliano dai Ricchi e Poveri, Renzo Arbore con tutta l’orchestra, Toto Cutugno e la sua Lasciatemi cantare di cinquanta anni fa. Altro che lasciarlo cantare. Fosse per me brucerei tutte le inutili bobine ancora latitanti nelle radio locali che la trasmettono neanche fosse il vecchio oracolo del mare.
Giro di colpo la testa, stavolta verso il muro di destra. Mi cade un auricolare.
La musica all’istante si fa a metà, lasciando che nel padiglione libero entrino le parole invecchiate delle due sedute ad angolo a un metro da me.
Solite parole da sala d’attesa. La voce di entrambe è troppo alta tanto che penso che anche gli altri pazienti vorrebbero un paio di cuffie per non ascoltare. Spettegolano, come sempre da vent’anni a questa parte.
Vent’anni di fila dentro quella quadrata e trasparente camera dipinta di bianco e loro – le pettegole della sala d’attesa – sono inevitabilmente lì a sparlare di tutti con tono squillante, raccontandosi fatti e visi che, si capisce bene, conoscono già entrambe.
Continuano a urlare finché tutti si girano a sentire.
Come dire che Berlusconi è un ladro e fa le leggi solo per sé: mica non te lo aspetti che la metà dei non-interessati al discorso ti faccia un Ehhhhhhhh! di conferma, mentre un quarto insorge in segno di protesta. L’altro quarto invece sta zitto o perché donna casalinga retriva, saldamente ancorata all’ultima certezza del post bellicismo di inizio ventesimo secolo, ossia la sicurezza di comandare almeno in casa – e beate loro, che una certezza almeno ce l’hanno; o perché vuol vedere come va a finire il discorso; o magari perché proprio come me ha già sentito quella discussione all’ultimo raffreddore preso, ma non si capacita di come quel vecchio di settanta anni stia ancora lì al governo dopo le ennesime elezioni.
<<La commara di Franca, quella sposata con il tipo di Milano. Quelli c’hanno una casa in mezzo alla villa che solo dio sa quanto vale.>>
<<E dove?>>
<<Naaa’, proprio in mezzo alla villa. C’hanno l’attico sopra al Caffè Cov’ che ogni anno si vedono l’incontro tranquillamente dalla poltrona.>>
<<Ma in mezz prup’t allor?>>
Respiro.
Non fa per tutti questa vita. Tengo l’auricolare caduto con due dita, ma non resisto.
<<La signora forse intende dire in centro, sul palazzo che si affaccia sulla piazza centrale.>>
Mi metto un’altra volta su “mute” e tappo il cervello con la musica.
Mi guardano tutti ora. Per fortuna la porta si apre.
Il paziente esce e tocca a me.
Entro nell’ambulatorio che i Cure ancora mi stordiscono. La dottoressa mi sorride.
<<Ciao>>
<<Ciao>>
<<Come va?>>
<<Come? Non saprei dire. Per ora sto cercando di capire dove>>
<<Mi dispiace>>
<<E di cosa?>>
<<Sono una stronza, lo so>>
<<Io non mi dispererei per te, in fondo ti va sempre bene>>
<<Sei sempre così aspro>>
<<Non sempre, solo da un po’ di tempo>>
<<Colpa mia?>>
<<Non propriamente. Ci sta che una storia possa finire. È tutto il resto che mi ha sconvolto le idee>>
<<Resto, cosa?>>
<<Il fatto che mi hai sbattuto fuori di casa…>>
<<Non ti ho sbattuto fuori, sei tu che sei voluto andare via>>
<<Che t’aspettavi che facessi? Comunque non è un problema. Dicevo, è il resto che mi ha cambiato un po’. Scoprire che esiste ancora la mia vita, riesumare i miei progetti. Cercare un nuovo lavoro, cambiare città. Ricominciare da zero. Scommetto che tu una cosa del genere non l’hai mai fatta.>>
<<Forse>>
<<Lo vedi (troppo abituata alla pappa-pronta-plasmon, ma non è un dramma). Per il resto come stai?>>
<<Io bene, sei tu che non mi hai risposto>>
<<Fa nulla>>
Salto il gradino con una minima contrazione del polpaccio, vago da un marciapiede all’altro senza guardare in volto nessuno, dritto per la mia via, tengo ancora i Cure nelle orecchie ed evito così di pensare.
Non mi va di ricordare ancora.
Avrei potuto rispondere in altri modi. Ho rigirato nella mia testa così tante volte il film di quel discorso con lei da vivere qualunque possibile parola, eppure voltarmi di spalle e smetterla di fiatare è stata certo la cosa migliore che avessi potuto fare.
Attraverso l’incrocio mentre l’omino colorato sul semaforo lampeggia freneticamente di giallo. Mi imbuco in una scorciatoia che dovrebbe sdoganarmi proprio sotto casa. Sento l’asfalto caldo sotto le suole. Trasuda frammenti di verità che vengono fuori come punti neri di catrame dai pori del manto stradale. Mi raschiano la pelle.
Sono solo.
Ho gli occhi quasi lesi da un’ombra interna, sbatto le ciglia e il sole disegna una corona di fili intorno all’iride. Resto senza vista per un attimo, abbasso la testa verso i piedi per aprire le pupille, un mezzo uomo sbuca da un portone. Gli urto la spalla.
L’auricolare destro cade ancora.
<<Mi dispiace. Amore ci sei?>>Dice lui.
Parla al telefono, si volta e va via. Sono torvo.
Amore mio?
Belle parole. Le avrò dette una tonnellata di volte, e ripensandoci sono sicuro che lei stessa mi ha chiamato amore persino due secondi prima che le chiedessi cosa avesse, prima che mi dicesse Niente, e prima che aggiungesse E’ uno strano periodo sai, non so cosa stia succedendo.
Come a dire che ormai era tutto bello e finito.
Continuo a camminare aiutando il cervello con la musica a ricacciare quei ricordi.
Intorno non c’è nulla.
Sono uscito di casa prima ancora che la ventennale sveglia suonasse, forse non ha suonato neanche o così mi è sembrato dato che non c’è stato nessun inferno canoro in tutta la stanza con annessa tachicardia. Probabile che, oltre me, il fuso orario abbia sconvolto anche il mio Samsung.
Niente di preoccupante.
Mi sono infilato nella doccia alle sette e un quarto, dieci minuti per capire da che lato facciano uscire l’acqua calda gli americani, poi cinque minuti sotto l’acqua fredda visto che di riscaldarsi non ha avuto la minima intenzione, e via dalla plastica trasparente che serve a evitare di annaffiare il pavimento.
Meno di mezz’ora e sono fuori dall’ostello, mentre gli altri nove si rigirano nelle lenzuola finto-cotone.
Una giornata di merda direi, da bravo mediterraneo.
Più che New York pare di avere davanti Gothan City con tutti i Batman e i Joker della situazione, nessuno parla italiano, nessuno sa spiegare in un inglese accettabile come mai il wi-fi non funzioni. Esco.
Cielo grigio, di uno scuro che sembra di stare ancora con il Boing ad alta quota, o magari di fianco a un incendio appena spento. E invece nulla di tutto questo.
È sola la classica umida e incolore mattinata newyorkese. Fortuna che la gente non è smorta come il cielo.
Al primo market rimedio un adattatore per le mie inutili prese europee, il vecchietto dietro il banco sorride, mi passa una cartina della città e mi dice have a good day.
Ho due scelte.
Camminare lungo la 64esima e scendere alla prima metro, o affrontare Central Park e vedere come si mette la situazione.
Scelgo la seconda.
Sabato mattina, ed è più popolato della migliore discoteca del paese. E non perché la discoteca non funzioni.
Ho sempre le mie cuffie alle orecchie anche se sarebbe meglio stare attento per capire dove mi trovo. Mi sento bene, a un passo dal lago e completamente circondato da centinaia di persone che corrono o vanno in bici. Tutto sembra surreale, tanto che l’angoscia che mi sono portato dietro dal bel-paese quasi non esiste più.
Sorrido.
Guardo in faccia tutti e sorrido.
Ci sono anche turisti, in guida organizzata. Lo si capisce dal gruppo compatto intorno alla statua di chissà-chi con il cicerone di turno a raccontarne la storia. Mi guardano. Qualche ragazza mi guarda e io dimentico tutto il passato.
Rispondo agli sguardi, ammicco, rubo sorrisi.
Continuo solo sul viale, tenendomi al lato per evitare che qualche bici troppo veloce mi passi sulla testa con le ruote. Mi sento forte, bello, pieno di vita.
Ritmicamente mi sistemo le cuffie e passo la mano tra i capelli tanto per darmi un’aria più interessante per quelle che continuano a fissarmi, finalmente mi sento allegro.
Uno scoiattolo addirittura mi passa davanti restando immobile, è la prima volta che ne vedo uno. Tiro fuori la macchina fotografica e gli faccio uno scatto, quello si spaventa e scappa ma ormai la sua lunga coda pelosa e piatta non mi serve più. Rimetto la custodia nella mia borsa.
Cado.
Sento dietro di me una forte spinta che mi butta in avanti tirandomi il braccio. Rimango con la mano afferrata alla cinghia. Non capisco come mai, ma sono quasi di fianco per terra. La borsa è davanti a me, la vedo, oltre alla mia anche un’altra mano bianca e grossa le rimane avvinghiata. Cerco di alzarmi in piedi, quello dà uno strattone e io finisco di faccia nella pozzanghera. Tento di rimanere su, metto il piede destro in avanti ma la gamba non regge. Sento il ginocchio cedere.
Scricchiola, come aghi di ferro nella carne.
Le dita si fanno molli, la borsa è libera, l’uomo scappa e la mia faccia si tuffa nel putrido.
Primo giorno in America, prima passeggiata solitaria e i miei documenti, i miei soldi, la mia carta di credito, il mio portatile, quasi tutta la parte più importante della mia vita scompare alla curva tra le mani di un bastardo sconosciuto.
Fa male.
Ancora una volta il ginocchio fa male.
Non riesco a tirarmi su. Alla prima contrazione del quadricipite gli aghi si moltiplicano diventando chiodo duro e ferruginoso.
Mi assale la disperazione, solo che stavolta non ha volto, né nome, ma solo dolore fisico e angoscia pregressa.
Piango. Finalmente piango.
Resto a mollo nella pozzanghera.
Una manciata di secondi e sento una mano sulla schiena. Non mi volto neanche.
<<How are you? You stay well?>>
Non le rispondo, che dopo gli ultimi giorni e tutto quanto mi è successo quella mi sembra davvero la domanda più impropria che potessi ricevere. Peggio di un Come stai? al funerale di un caro amico.
TSCHHH-TSCHHH.
È il rumore di una radio. Farfuglia qualcosa. C’è caos, un insieme confuso di voci e rumori.
<<How are you? You can move yourself?>>
<<Il ginocchio, mi fa male il ginocchio.>>
<<What? Where are you from?>>
<<Italy Italy.>>
<<Ok ok, be quiet.>>
Prende la radio appesa alla cinta. Chiede soccorso. Io continuo a piangere, non riesco a fermarmi.
Ora non è più questione di dolore. Dentro la mia testa sto realizzando lo scippo e tutte le conseguenze.
La radio ricomincia a impazzire. Qualcuno ride, poi ancora caos e tante voci.
La ragazza mi guarda, mi accarezza i capelli e cerca di tenermi su.
Ancora pochi istanti e vedo da lontano degli agenti in divisa avvicinarsi.
Lei è una di loro, ma in borghese.
Mi guarda ancora.
<<C’mon. Stop crying. What are you doing?! Boys don’t cry, you know.>>
Io la guardo, con tutte le lacrime sulla bocca scoppio a ridere. Ha ragione lei, hanno ragione i Cure. I ragazzi non piangono.
Mi sembra tutto così stupido. Ora rido come un deficiente.
Intanto i poliziotti si avvicinano, uno tiene in mano qualcosa. È la mia borsa. Continuo a ridere, finalmente qualcosa va per il verso giusto. Cerco di alzarmi ma il ginocchio è ancora tutto rotto.
<<No, no. Stay down>>
Sento lei che si preoccupa, gli agenti mi danno la borsa, mi chiedono se manca qualcosa ma io non riesco neanche a controllare per bene, che già mi sembra assurdo riaverla dopo pochi minuti.
E a quel punto scoppio ancora a piangere ma di gioia.
<<C’mon, stop it. Boys don’t cry.>>
Mi abbraccia la ragazza tenendomi ancora la testa con la mano.
Bello, bello, bello.
E’ un periodo che piango molto per 5 lutti importanti negli ultimi due anni.
All’inizio il racconto era un po’ pesante, ma cavolo che accelerazione la fine, bello, il dolore è arrivato al culmine, bravo, quando sei scoppiato a piangere e poi ho riso anch’io quando ti hanno riportato la borsa scippata e la ragazza (la poliziotta) QUASI SI VEDEVA LA MANO TESA VERSO DI TE CHE TI ACCAREZZA: “BOY, DON’T CRY” Non piangere ragazzo!
Io aspetto il sereno dopo due anni di lutto e tu me lo hai dipinto con questo bel racconto.
A me piace la poesia e mi viene in mente una poesia inedita di Ungaretti:
Per non rammaricarsi d´esser nati
Questa carne molestata
ha pure
quando meno aspetta
i fremiti dell´alba
E mi brilla dolce
la vita
come un prato
al rinvenuto bacio
della ruggiada
Ci sarebbe da dire Why can’t I be You ? Anche se forse “la testa sulla porta” non appare così “vicina a a me” oppure è solo perche alle “10.15 di sabato sera” non’cè niente da fare. Non rimame forse che farsi cullare da una “ninna nanna”, sperando che l’uomo ragno non si avvcini troppo, in una “notte come questa”. Le “mie preghiere per la pioggia” resteranno inascoltate e sebbene sia “venerdì e io sia innamorato”, la mia ragazza “Charlotte qualche volta” mi lascia solo, “perso in una foresta”, dove potrei riuscire a vedere “3 ragazzi immaginari” giocare nel “giardino degli impiccati”. Non sarebbe certo “proprio come il paradiso”, anzi mi sembrererbbe di “perdere il treno di qualcun altro” inseguito dai “gatti dell’amore”, sarebbe “la passeggiata” giusta, anche senza il caterpillar. Mi fermerei “in piedi sulla spiaggia” con la sensazione di chi sta “uccidendo un arabo”, ma mi risveglierei mesmerizzato dal sangue , al suono dolcissimo di una “canzone di Kioto”. Il racconto l’ho letto in fretta ma il solo fatto che sia citata l’opera del il mitico Robert ne fa un capolavoro.
Era da un bel po’ di tempo che volevo leggere il tuo racconto, per il titolo e i Cure. Boys don’t cry è una canzone che amo molto.
All’interno del tuo scritto si inserisce davvero bene: quello che c’era prima, quello che c’è dopo, i ragazzi non piangono, o meglio continuano a ridere nascondendo le lacrime nei loro occhi. Bella anche la descrizione delle pettegole davanti all’ambulatorio: spesso anch’io ho dovuto tappare il cervello con la musica.
Se ti va, puoi leggere il mio racconto.
Azzurra