Premio Racconti nella Rete 2015 “Il tramonto di Nida” di Gianni Contarino
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Era rossa l’ombra di una duna sulla spiaggia mentre guardavo il sole scendere sul mare grigio di Nida. Rossa, come il colore del costume di Egle e delle sue unghie. Rossa, come la faccia che avevo avuto la sera prima in quel bar, dove fra schiaffi e parole di marmo avevamo consumato la nostra millesima lite.
Le avevo contate tutte; era proprio la millesima e proposi allora di berci su una di quelle birre che si vendono lì ai marinai di passaggio e ai turisti che si fermano qualche giorno, il tempo di cercare di capire cosa ci facciano le dune su una penisola che si affaccia sul Mar Baltico.
Rossa era la copertina del taccuino che tenevo in mano, mentre guardavo dove il mare baciava il cielo e cercavo le parole, seduto accanto a lei, sdraiata sulla pancia con i piedi dondolanti e il naso all’insù, a seguire il volo di un gabbiano.
C’erano poche persone e tutte silenziose. Solo un bambino ogni tanto si avvicinava a me, guardava il taccuino, sorrideva e con gli occhi mi diceva che lo voleva, poi con la mano, infine con un urlo da far impallidire un avvoltoio.
Egle mi guardava mentre la sfida era in corso e non diceva nulla, mi guardava e sorrideva e io, stordito dalle sue labbra, finivo per essere derubato del taccuino e costretto a correre dietro a quel nano biondo.
Non era tanto per il taccuino, quanto per le due pagine che avevo scritto il giorno prima, piene di ma e di se, come se fossero il diario di un filosofo, come se quel giorno, prima di litigare, il treno dei miei pensieri si fosse fermato su una nuvola a guardare il mondo da un’altra prospettiva.
Poi il litigio, gli occhi di ghiaccio di lei e il vetro per terra dopo il terzo boccale scagliatomi addosso, il rosso del mio sangue sulla mano e su uno zigomo.
Il barista non aveva fiatato, aveva atteso che lei si calmasse, poi si era avvicinato a me con del cotone e dell’alcool e infine aveva preso una scopa e fatto tornare il bar al momento prima della nostra lite.
Ma non era più quel momento, quelle pagine gliele avevo ormai lette e nulla poteva più essere uguale.
Se penso al perché di tutto quel casino, mi scordo pure questo tramonto, che guardo oggi, come ieri, vicino a questa duna, ma lontano da lei, lontano dai suoi piedi ormai composti e dal suo naso che adesso punta al mare dall’oblò di un aereo.
Lo ammetto, sono uno specialista del farsi del male, sono la cosa più bella che potrebbe capitare a un analista alle prime armi, che volesse farsi le ossa su un caso di disinvolto e perseverante masochismo.
Ho scritto quelle due pagine dopo aver mangiato del pesce affumicato e aver bevuto una Svyturis tutta d’un fiato, da buon italiano all’estero, che deve dimostrare, deve fare l’ambasciatore dell’idiozia tricolore.
Ho scritto con cura e dovizia un piccolo fiume di parole, solo all’apparenza dettate da un turbine di pensieri, ma in realtà soppesate e centellinate come ingredienti scelti da un farmacista d’altri tempi.
Lo scopo era chiaro, lo sapevo io e lo sapevano le pagine, che si arrendevano all’attacco della punta bruna della mia stilografica e lasciavano che quei pensieri, figli di una sosta su una nuvola, scatenassero una pioggia di verità difficili da vendere come invenzioni di uno scrittore.
Fu così che iniziai la prima pagina con un semplice “Sono giorni che vado da solo, fra le case e le siepi, fra i mattoni e le sculture di legno, vado e ricordo, scavo e ritrovo, fatti e parole di giorni andati via sotto una gonna scura”.
Non era male come incipit, mi piacque così tanto che lo lessi subito a Egle. Non fu proprio un’ottima idea.
Scrissi ancora altre frasi come quella e tutte si concludevano con un riferimento all’abbigliamento femminile.
Fu quando lessi a Egle il terzo capoverso della seconda pagina che le mani di lei divennero pale di mulino e colpirono me, Don Quichote del Baltico, con la violenza e l’impietosa eternità del moto uniforme circolare di un mulino.
La frase incriminata fu: “Dolce è il sapore di labbra che ti sorridono mentre guardi le rughe delle tue mani che stringono le sue e ti soffermi sulla luce dell’anello di lei, che le regalasti quando ancora eri suo”.
Partì l’invettiva sulle mie ex di Vilnius, conosciute durante il mio periodo di insegnamento all’università.
Fu di più, fu una vera e propria incursione armata fra i miei ricordi più dolci, di quando ancora non la conoscevo e passavo le estati viaggiando fra Utena, Vysaginas, Saulei e Ukmerge, andando a trovare capelli castani, sorrisi morbidi e braccia pronte a stringermi come un tesoro al petto.
Egle soffriva di gelosia retroattiva e io maceravo ancora i miei pensieri in un bagno di rimpianti per averle raccontato quei miei pellegrinaggi estivi, stringendo fra le labbra un filo d’erba, un giorno, sdraiato sulla spiaggia di Nida.
Quelle pagine sembravano una confessione consegnata a un tribunale, l’atto d’accusa che inchiodava i miei ricordi al presente, come se negli ultimi mesi io non avessi fatto altro che continuare quei viaggi, fregandomene delle labbra di Egle, dei suoi occhi color smeraldo e delle sue parole, preziose come un te caldo dopo una passeggiata sulla neve.
E’ l’ora del tramonto, quello senza di lei. Sono passate solo ventiquattro ore dall’altro, quando ancora non si era parlato di valigie e di passaporto. C’è ancora quel bambino, ma oggi non mi si avvicina, sente che non ho voglia di corrergli dietro; sente che vorrei correre a fermare quell’aereo che fra tre ore atterrerà a Milano Malpensa e riporterà Egle nel suo night di periferia, dove centinaia di clienti, guardando le sue cosce, continueranno a usarla come cassonetto delle proprie immondizie sessuali.
C’è ancora qualche minuto, prima che il sole mi saluti e il buio mi accompagni al mio solito bar; c’è il tempo per una preghiera al mare, perché mi aiuti a ricordare perché ho scritto quelle pagine, perché non ripeta più un errore del genere.
Ho fame, raccolgo l’asciugamano e il taccuino, che oggi non ho aperto. Afferro i miei sandali e raggiungo i cespugli alle spalle della spiaggia, fra cartelli che dicono che oggi l’acqua è fredda e foto di altri tramonti.
Mangerò il mio pesce affumicato, guarderò il faro sventrare la notte e berrò la mia Svyturis, fino a sventrare i ricordi; manderò baci al cielo e aspetterò che finisca questa estate.
In fondo, se quelle parole le ho scritte, è perché dovevo e se le ho lette a lei è perché volevo. Lei le ha ascoltate e ha pensato quello che volevo pensasse, ha fatto quello che il barista non voleva facesse.
Guardo nello specchio del bagno del bar il mio zigomo e la mia mano. Rosso è ancora il loro colore.
Ciao Gianni, mi piace il tuo racconto; mi rappresenti la lite (millesima) con la donna e la vita sentimentale del narratore che ci cattura. Passaggi splendidi, ispirato “il confronto” con il bambino per il taccuino e “…c’è il tempo per una preghiera al mare, perché mi aiuti a ricordare …” Affascinato dalla bellezza dei luoghi, l’uomo scrive e fa confidenze alla sua donna scatenandone la gelosia per gli amori vissuti in precedenza da lui. Il rapporto turbolento con la donna sembra rispecchiare il carattere del protagonista che non sa rinunciare alla presenza della donna e sembra sottomesso. Ma sarà vero amore, il suo o è il ricordo di qualcosa di bello che staziona amcora nella mente e nell’animo?
Emanuele