Premio Racconti per Corti 2015 “Incontri di notte” di Sabrina Fortini
Categoria: Premio Racconti per Corti 2015Mise giù le gambe dal letto e disinnescò la sveglia prima che il suo fragore scuotesse dal sonno, suo marito e la bambina che dormiva nel lettino a fianco. Lo faceva sempre quando aveva il turno di mattina. La sirena della fabbrica suonava l’ingresso alle 6, lei si alzava alle 4, la fabbrica era in periferia e a quell’ora non c’erano ancora tram, suo marito l’aveva spronata tante volte ad andare in bicicletta ma lei, insisteva che non ci sapeva andare, e si faceva tutta la strada a piedi. Camminare non le dispiaceva, a quell’ora in giro c’era solo gente come lei, lavoratori mattinieri, tutta gente onesta, i ladri e le puttane erano già rientrati, troppa gente in strada per i primi e troppo poca e con pochi soldi per le altre.
Uscì da casa, annodandosi il foulard in testa, controllò di aver preso la mela da aggiungere al pranzo, la ribollita della sera prima, che avrebbe riscaldato nel piccolo portavivande di acciaio e si avviò verso i viali che correvano intorno a tutta la città diramandosi poi verso la periferia. Le piaceva immaginare che ad ogni tratto di strada qualcuno la accompagnasse, di solito Samuele il suo amico fraterno del paese, l’aspettava in Piazza Beccaria, appena superava il semaforo ecco che se lo trovava alle spalle. Oggi stava tardando a dire il vero, cosa mai aveva da fare, ormai era morto da tempo. Non aveva mai capito di cosa. Che fosse tornato al loro paese, nel Lazio?
-Che bella pezzola che ti sei messa in testa Saetta, sembra quella che portavi quando avevi il tifo, ti ricordi?
-Ma che cosa vai a rinvangare, il tifo! No che non mi ricordavo e non c’era bisogno che ci pensassi tu. Non sapevo neanche che tu fossi lì, avevo la febbre.
-E dai, te lo ricordi che bei capelli rossi che avevi prima? Proprio come me, sembravamo proprio fratelli. Ma chissà perché ti son ricresciuti castani poi.
-Non lo so e non mi interessa, comunque vedi che la mia bambina ha i capelli scuri come il babbo e come me e quindi si vede che quelli rossi erano uno sbaglio. Mi sarà mica venuto il tifo per rimediare all’errore? Ma tu piuttosto, quando sono guarita eri già morto, ma di cosa, si può sapere una buona volta.
Attese la risposta per qualche secondo prima che il silenzio le dicesse che Samuele era tornato dov’era prima. Era quasi arrivata in piazzale Donatello, lì dietro al Cimitero degli Inglesi avrebbe trovato Pinocchio, ne era sicura, e infatti ecco i passetti di legno che ciottolavano sull’asfalto.
-Me l’hai portata la mela?
-L’ho portata certo ma me la mangio io, io vado a lavorare mica come te. Che ne hai fatto tu della mela che ti aveva dato Geppetto eh! L’hai fatta mangiare a quel gran farabutto della Volpe e non sei nemmeno andato a scuola. Proprio come mio marito che invece di mettere i soldi da parte per comprare casa, li presta a quei buoni a nulla dei suoi amici che poi non glieli rendono mai.
-Mamma mia come sei brutta stamattina, non gli dirai queste cose alla tua bambina quando gli parli di me.
-Certo che gliele dico, le dico che bisogna studiare e voler bene ai genitori, e che non bisogna mai fidarsi degli amici che vogliono solo approfittarsi della tua bontà.
-Ma dai è solo una bambina, dovrà pur divertirsi un po’ no?! Con gli amici si fanno tanti giochi.
-Divertirsi? Certo, come hai fatto tu con Lucignolo! Bella fine che ti ha fatto fare,
hai ben visto come ti sei ritrovato per averlo seguito, c’è mancato poco che ci lasciassi la pelle anzi il legno.
-Insomma, non c’è proprio verso di convincerti a rilassarti un po’! I’ mi’ babbino era più fiducioso di te! Eh si che gliene ho fatte di tutti i colori, ma com’era contento quando mi vedeva.
– Non sarai certo tu a insegnarmi a vivere, cosa credi, io voglio solo il bene della mia bambina, se la tengo sempre vicina a me è per proteggerla. Guarda te che gente hai incontrato!
La donna pensò che quel giorno avrebbe fatto una sorpresa alla sua bambina. Tornando a casa avrebbe catturato un passerotto con le mani, come faceva con Samuele da piccoli e lo avrebbe nascosto nel cestino della merenda della piccina. Lo avrebbero portato a casa a svolazzare libero finchè non avrebbe infilato la prima finestra aperta. Già pregustava la gioia che avrebbe visto scintillare negli occhi della bimba.
Si accorse di essere arrivata in piazza della Libertà, prima della guerra si chiamava piazza Torino, l’avevano chiamata così dopo la liberazione. Sapeva che lì, appoggiato sotto l’arco di Trionfo nel centro del giardino, l’aspettava Valentino sempre con la sigaretta accesa in bocca e le mani in tasca con quell’aria da tenebroso. Valentino era il nome che aveva scelto quando si era dato alla macchia con i partigiani, aveva 18 anni e gli piacevano il tango e le belle ragazze, come a Rodolfo Valentino e quando gli era arrivata la cartolina non ci aveva pensato due volte, aveva preso uno zaino e di notte era andato verso Monte Morello, sapeva che i partigiani l’avrebbero intercettato, se doveva morire lo voleva fare dalla parte giusta. Quando quelli della Banda Carità lo presero, pensavano che con un paio di schiaffi gli avrebbero fatto dire anche il nome della su mamma e a un certo punto lo pensò anche lui, poi vide la finestra aperta e le chiome dei cipressi gli dissero l’altezza, non ebbe esitazioni.
Le stava andando incontro con una mano alzata e una sulla pancia, a simulare un passo di danza.
– Allora bella sposina, che te lo fai un giro di tango prima di entrare in quella fabbrica a respirare polvere.
– Ovvia Valentino tu lo sai che non son bona, l’è i’ mi’ Franco i’ ballerino in casa,
vu siete andati tante volte a ballare insieme.
– Vien via, un ti schermire troppo, tu sei troppo seria bambina, bisogna divertirsi nella vita, un t’è bastato la guerra che s’è passato! Se fossi vivo io, altro che pensieri e problemi, saprei io come divertimmi.
Girò su se stesso in una piroetta e sparì nel buio, lei intanto era arrivata in piazza Dalmazia, doveva solo attraversare il ponticino sul fiumiciattolo che costeggiava la grande filanda, dove l’aspettava il grande macchinario, moderno arcolaio, che trasformava enormi balle di lana in centinaia di rocchetti di lana colorata. Lei era brava nel suo lavoro, la più brava, era solo per quello che il padrone non l’aveva ancora mandata via, con tutte le lotte e gli scioperi che aveva fatto per poter lavorare con dignità. Dall’ingresso degli operai vide uscire una donna, con un foulard in testa come il suo, camminava a testa bassa, assorta nei suoi pensieri e quasi le venne addosso, che strano anche il cappotto era come il suo, e sì che se l’era fatto confezionare dalla cugina di suo marito che era una brava sarta, con certa stoffa di lana rimasta invenduta alla fabbrica e che il padrone aveva offerto alle operaie a prezzo di realizzo, aveva perfino il colletto di velluto come il suo. Però non era proprio uguale, sembrava un po’ sdrucito, consumato insomma. Per qualche minuto restarono a guardarsi, accidenti come le somigliava, se non fosse stato per quei fili grigi nei capelli e quelle profonde rughe sulla fronte…si passò la mano sul viso come a cercarne traccia. L’altra sorrise.
– Si Saetta, mi hai riconosciuto, sono proprio io, sei proprio tu. Guardami bene Saetta, lo sai che giorno è oggi per me? L’ultimo giorno di lavoro. Il padrone ci ha messo tutte a casa. Dopo 10 anni di lavoro ha deciso che chiude. Che apre una concessionaria di macchine, dice che ora i soldi si fanno con quelle, che tutti vogliono comprarsi la macchina. Molte di noi hanno fatto domanda all’ospedale, sembra che cerchino infermieri ma io lo sai, non c’ho lo stomaco per farlo, piuttosto tornerò a fare la domestica, la pensione però me la posso scordare. Ah Saetta, tu potessi cambiare questo momento!
La voce sguaiata del capo fabbrica l’apostrofò alle spalle:
– Allora che fai lì impalata? Unn’è mica sciopero oggi! Guarda di darti una mossa, tra un po’ suona la sirena del cambio turno e tu dev’essere bell’e pronta con la gabbanella addosso.
La donna ebbe un flash, rivide l’annuncio che diceva “cercasi governante e giardiniere anche con figli disposta a seguire famiglia in Inghilterra, offresi alloggio e salario dignitoso, rivolgersi alla farmacia Inglese”. Girò sui tacchi e tornò a casa. Aveva da fare le valigie e convincere i’ su’ Franco che per imparare l’inglese bastava sentire le canzoni, o un’ cantava sempre lui!
Un bel racconto. Questi “incontri” sono il senso della vita. Ciascuno indugia sui propri ricordi per trovare le ragioni o le motivazioni di vivere, di andare avanti. Questo non impedisce alla protagonista del racconto la decisione e l’azione per superare le difficoltà, Saetta deve essere un sopranome, lasci la donna senza nome perché deve essere la rappresentante del donne?
Mi piace l’uso delle parole “toscane” Grazie per il ricordo della fabbrica. Sarà un mondo superato, morto ma è compito della letteratura tenere in vita il passato.
Emanuele