Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Festa” di Carlo Brugnone

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

C’era una luce diversa nei suoi occhi, un’altra angolazione nello sguardo. Le sue parole avevano un suono nuovo, anche i suoi silenzi erano nuovi. Si muoveva in un modo insolito, e insoliti erano anche i suoi tempi di reazione: adesso erano più rapidi, più solleciti, quasi tesi ad anticipare il desiderio dell’interlocutore. Inedito era anche il suo atteggiarsi: a volte frenato, a volte il suo contrario. Sembrava non fosse rimasto nulla del suo modo di porsi spontaneo, e spontaneamente autentico, senza infingimenti, a volte anche secco, ruvido, scorbutico, in ogni caso sempre privo di affettazione, scevro da fronzoli, senza quel crisma d’ufficialità che forse richiedeva la situazione in cui adesso si trovava, le persone che aveva intorno: che probabilmente era stata costretta a invitare, e che forse non vedeva l’ora che si togliessero di torno. Forse.

Non riuscivo a spiegarmi il perché di quella situazione, il perché di quella mutazione, ancor meno se non era subita ma voluta. E nemmeno riuscivo a spiegarmi perché in quella situazione aveva trascinato anche me, perché aveva voluto che anch’io fossi presente lì ad assistere a quella performance di cui avrei volentieri fatto a meno.

Non rimasi a lungo, me ne tornai a casa presto. Salutai frettolosamente tutti, strinsi la mano solo a quelli che mi erano vicini, a tutti gli altri feci un cenno collettivo di saluto con un’alzata di mano al cielo. Salutai anche lei in modo frettoloso: da dietro le poggiai una mano sulla spalla e le dissi che me ne andavo. Lei non disse niente, si voltò solo per un istante, giusto il tempo di farmi cenno di sì con la testa. Con quella stessa testa che in quel momento aveva l’aria di pensare a tutto fuor che a me e al fatto che me ne stavo andando.

Erano le dieci di una sera di dicembre, mancavano pochi giorni a Natale. Faceva freddo, un freddo penetrante, umido, uno di quei freddi che, se non fosse per l’azione dissuaditrice dell’inquinamento cittadino, avrebbe la sua manifestazione materica in una fitta coltre di nebbia, che invece non c’era. La nebbia, se si voleva, la si poteva trovare: bastava andare appena fuori la zona più densamente abitata, allontanarsi quanto basta dal centro cittadino e inoltrarsi nelle periferie, specialmente quelle a sud della metropoli. E allora poteva accadere che, senza preavviso, se ne venisse avvolti, come da un enorme sudario sortito dal nulla. La nebbia vera, invece, quella che non faceva distinzione tra città e campagna era tutta dentro la mia testa. Stava lì, bella densa e compatta, a occuparne l’intero volume.

Decisi di farmela a piedi: troppo freddo per pensare di stare alla fermata ad aspettare un tram. E poi non riuscivo a star fermo, ero troppo nervoso: avevo bisogno di muovermi, di scaricare in un modo o nell’altro la tensione accumulata durante quell’assurda serata. Camminavo di buon passo e, nel frattempo, cercavo di ricordare chi c’era e chi no. Dei colleghi d’ufficio, erano presenti solo alcuni – le uniche persone con cui avevo scambiato qualche parola – poi c’erano tante altre facce a me sconosciute. Facce diverse dalla mia, facce con espressioni preconfezionate, facce impegnate a imitare un modello al quale, a tutti i costi, volevano somigliare. Giunsi a casa stanco per il lungo camminare, bevvi un bicchiere d’acqua e mi misi a letto. Mi addormentai all’istante.

Il giorno dopo la rividi in ufficio, come tutte le mattine, alla solita ora, seduta alla sua scrivania. Sembrava tutto come sempre, tranne per come era acconciata e abbigliata. Aveva indosso un tailleur grigio, camicia di seta, scarpe col tacco, lei che era sempre in jeans, camicetta e un maglioncino a girocollo. Aveva i capelli che le cadevano lisci sulle spalle, invece che mossi e arruffati, spesso raccolti in una coda. Anche il viso era truccato in modo insolito e più deciso: le guance, soprattutto, sembravano arroventate da un fondotinta che conferiva al suo volto una inedita aggressività, mentre il bianco delle cornee risaltava grazie al contorno carico di mascara. Stava bene, non c’era niente da dire: era bella, sembrava un’attrice. Quando i nostri sguardi si incrociarono, mi salutò con un mezzo sorriso, forse appena imbarazzato. Per il resto, quasi non mi calcolò per tutta la mattinata.

Qualcosa era successa o stava per succedere. Giunta l’ora di pranzo, di fatto se ne uscì senza dire una parola. Seppi solo successivamente che era andata a pranzare con il dirigente di un’agenzia di pubbliche relazioni, a quanto pare uno di quegli sconosciuti che erano presenti a casa sua la sera prima. La stessa cosa accadde il giorno dopo e quello dopo ancora. Andò avanti così all’incirca per una settimana.

Per parecchi giorni, dunque, quasi non ci parlammo, a parte pochi fugaci saluti scambiati nel corridoio e qualche comunicazione inerente strettamente il lavoro. Non avevamo più occasioni per farlo: lei sembrava avere la testa sempre altrove e a me l’orgoglio impediva di fare anche il minimo sforzo per cercarle.

Di lei sapevo che voleva cambiare lavoro. Me l’aveva detto più volte. Non le interessava ciò che faceva. E neanche a me, per la verità, interessava. Ma diciamo che io, ormai, avevo l’età per potermene fare una ragione. Lei no, lei aveva voglia di cambiare: era ancora giovane, era in gamba e intelligente. Ed era giusto così. Che fosse questo il motivo del suo cambiamento, i pranzi consumati con quel tipo dell’agenzia non potevano che autorizzarmi a pensarlo. Solamente, mai da lei mi sarei aspettato il ricorso a siffatte modalità per conseguire il suo pur legittimo obiettivo. Di questo ero sorpreso, stupito, e profondamente deluso.

 

Avevo ormai abbandonato ogni speranza di recuperare il vecchio legame di stima, amicizia e complicità che, per parecchi anni, ci aveva uniti sul posto di lavoro, quando una sera capitò che, per un caso, entrambi facemmo tardi al lavoro e, sempre per un caso, uscimmo insieme dall’ufficio.

– Ho il cancro – furono queste le tre parole che pronunciò quella sera, mentre insieme ci avviavamo ai tornelli per timbrare l’uscita.

Era trascorsa circa una settimana dalla famosa serata a casa sua. Fu lei ad avvicinarmi, mentre ci avviavamo verso le timbratrici. Pronunciò queste tre parole senza guardarmi, continuando a camminare svelta verso la portineria, mentre contemporaneamente frugava nella borsa alla ricerca del tesserino.

– Che cosa? – reagii, probabilmente a voce alta senza rendermene conto.

Lei non aggiunse altro. Solo si voltò verso di me e mi guardò dritto negli occhi, come a suggello di ciò che aveva appena detto. Nel frattempo, continuava a camminare svelta verso l’uscita. Io non riuscii a dire più nulla, a emettere un suono che fosse uno. Mi sentivo come se avessi preso una botta in testa. Il mio corpo si muoveva indipendentemente dalla mia volontà, raggiunse i tornelli. Non so come ma, in un modo o nell’altro, una mano di quel corpo dovette cavare dalla tasca il tesserino, passarlo sulla timbratrice. Quello stesso corpo varcò poi le porte scorrevoli, uscì nella notte buia e, da quel momento, prese a camminarle a fianco o solo un po’ dietro, come se la seguisse. Insieme prendemmo la metropolitana, lei non aggiunse altro a quelle tre parole che aveva pronunciato, né io ero ancora in grado di articolarne alcuna. Quasi senza accorgermene, scesi alla sua stessa fermata di metropolitana e la seguii fino a casa, né più e né meno come avrebbe fatto un cane. Non riuscivo a staccarmene e non me ne rendevo conto.

Ci fermammo davanti al portone del suo condominio. O meglio lei si fermò, e quindi anch’io. Forse voleva dirmi qualcosa, magari solo ringraziarmi per averla accompagnata e invitarmi quindi a prendere gentilmente la via di casa mia; mentre a me, tutto a un tratto, erano venute in mente un sacco di domande da farle, se pur frenato dalla paura di essere indiscreto. Qualcosa, in quel momento, ci distrasse: qualcosa che si muoveva e che indusse entrambi ad alzare lo sguardo verso il balcone del primo piano, lo stesso balcone dove tante volte l’avevo vista affacciata con i gomiti appoggiati alla balaustra, una sigaretta accesa tra le dita di una mano, il cellulare nell’altra. Notammo due ombre che si muovevano in silenzio, protette dall’oscurità di una strada poco illuminata. Le vedemmo arrampicarsi sul parapetto, prima una, poi l’altra, insieme saltare nel vuoto, atterrare sulle aiuole del giardinetto del piano terra, senza che ne provenisse alcun rumore. Poi li vedemmo scappare via correndo, con in mano delle borse nere come la notte scura che li inghiottiva. Pareva che volassero come due creature soprannaturali. Tutto accadde in pochi istanti, quanto bastò loro per dileguarsi e sparire dietro l’angolo dell’isolato, mentre lei e io restammo impietriti davanti al portone, a osservare quella scena incapaci di reagire, di correre loro dietro, di chiedere aiuto, di urlare al ladro!, di emettere un suono.

Dopo l’iniziale sbandamento, quel fatto agì su di me come una salutare doccia fredda, sortì l’effetto di svegliarmi, di scuotermi dallo stato confusionale in cui ero precipitato. Mi presi di coraggio, le cinsi un braccio con il mio e la invitai a seguirmi verso il portone. Attraverso il contatto del mio braccio con il suo costato, avvertii in lei un lieve tremore. Lei manteneva fermo lo sguardo: era molto pallida, ma evitava di guardarmi. Giunti presso il portone, con movimenti lenti e nervosi al tempo stesso, prese a rovistare nella borsa in cerca delle chiavi. Ebbi l’impressione che le stesse venendo da piangere, ma che si stesse sforzando di non farlo. Alla fine resistette, riuscì a mantenersi calma, a non lasciarsi andare. Estrasse dalla borsa un mazzo di chiavi, aprì il portone e, per prima, entrò nell’androne facendo strada. Io la seguii, lasciando che il portone si chiudesse alle nostre spalle con uno scatto. Ci avviammo su per le scale, lei davanti, io appena dietro. Raggiunto il pianerottolo, ci accorgemmo che la porta dell’appartamento era intatta: ci scambiammo un’occhiata d’intesa a reciproca conferma della constatazione. Dal portachiavi che aveva in mano, ne scelse una con la quale aprì la porta. Entrò, accese la luce e tutto sembrava apparentemente in ordine. Entrammo in cucina, attraversammo il soggiorno, entrammo nella stanza da letto. Demmo un’occhiata generale e tutto sembrava al suo posto, a parte l’imposta del balcone che era aperta. Poi lei rientrò nella stanza da letto, mentre io mi diressi verso il balcone. Mi soffermai ad esaminare l’infisso, notai i segni dello scasso: gli intrusi avevano fatto leva all’altezza della serratura con un piede di porco o qualcosa del genere. Accostai l’imposta e feci per raggiungerla nella stanza da letto con l’intenzione di esporle il risultato delle mie rilevazioni. Mi fermai sulla soglia. La vidi con in mano due portagioie, due scatole rivestite di madreperla, completamente vuote. I ladri erano andati a colpo sicuro, come se sapessero esattamente dove colpire. Lei mi mostrò le due scatole desolatamente vuote con un mezzo sorriso, tra il malinconico e il quasi divertito. Le sorrisi anch’io sollevato dalla sua reazione.

Riposte le scatole sul ripiano che fungeva da toeletta, mi prese inopinatamente per mano e mi condusse nel soggiorno. Giunta sulla soglia, abbandonò la presa e andò verso la porta finestra del balcone per riaprirla, come se sentisse il bisogno di arieggiare un locale rimasto chiuso per troppo tempo. Poi si diresse verso l’angolo opposto della stanza, dove a terra era poggiato un piccolo albero di natale spoglio, con intorno tre scatole di cartone.

Si inginocchiò ai piedi dell’albero e mi fece segno di raggiungerla. Mi sedetti a terra accanto a lei, le scatole in mezzo a separarci.

– Aiutami, per favore – mi disse.

Dai contenitori, cominciò a tirare fuori le palle colorate e gli altri addobbi di natale. Iniziò dalle prime, a sistemarle una ad una sui rami dell’albero. Anch’io mi misi a fare altrettanto, osservando attentamente come lei faceva.

– Alterna i colori – mi suggerì, mentre con estrema calma e concentrazione lavorava attorno alle fronde del finto vegetale.

– Ecco così – mi incoraggiò, mentre io cercavo di imitarla nella disposizione.

Poi passammo ai pupazzetti e a tutta una serie di ninnoli. Adesso cominciavo ad appassionarmi anch’io. Agivo di mia iniziativa, senza guardare per forza ciò che lei stava facendo.

– Ecco bravo, continua così – mi incitò. – Continua così, senza lasciare spazi vuoti. Non deve restare nemmeno uno spazio vuoto, mi raccomando. Nemmeno uno.

 

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2 commenti »

  1. Intenso, diretto. si legge d’un fiato. non resta nemmeno uno spazio vuoto!

  2. Quanto è difficile essere noi stessi o meglio quanto ci è difficile fare ciò che sentiamo importante per noi stessi e per gli altri. Quello che non proviene dalla bocca esce dal cuore. Il triste destino di una donna avvicina un uomo, suo collega; è l’immagine dell’incomunicabilità che alza una barriera tra i due, è un ostacolo che cade davanti alla comprensione della sofferenza. Bel cammino per farci prendere coscienza del dramma.
    Ciao Carlo.
    Emanuele

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