Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Il ragazzo del mandorlo in fiore” di Daniela Grandinetti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

I suoi vent’anni erano trascorsi in quel giardino, scritti sui jeans logori e rammendati che indossava tutti i giorni ormai da cinque anni. La tela aveva i segni delle macchie lasciate dalle piante, dai fiori, dalla torba e dai concimi, c’avevano disegnato sopra una mappa dei piaceri che avevano segnato il suo tempo. Fin da bambino Raul aveva giocato così tante volte  a impastare quella terra che ormai ne era parte e per niente al mondo se ne sarebbe allontanato.
Quando il sole cominciava a scendere e i colori e gli odori erano più intensi, Raul amava oziare in qualche angolo del piccolo paradiso che aveva creato con le sue mani, un po’ come Dio ma in scala ridotta. Le tante anime che abitavano quel luogo diventavano una sola con la sua. Lì si sentiva al sicuro più che in qualsiasi altro luogo.
Gli piaceva star lì di giorno a lavorare e di notte ad aspettare la brezza leggera che muove le foglie, quando la luce pallida della luna illuminava i suoi cactus nel lembo del giardino abitato da piante grasse che di giorno sembravano sculture malformate, turgide e spinose, ma che nella notte svelavano tutto l’incanto dei loro  fiori,  le regine della notte, candidi come i raggi lunari. Certe notti restava sveglio solo per contemplare quei fiori.
Raul lì era cresciuto, aveva imparato tutto quello che c’era da imparare. Ci sono piante che di giorno aspettano pazienti le stelle per aprire i petali e regalare la loro fragranza, altre che invece amano la baldoria del sole e si ravvivano con la luce. Lui le aveva studiate, scelte e disposte con cura meticolosa..
Quel pomeriggio del 15 di aprile Raul si era addormentato sotto il mandorlo. Il suo risveglio fu violento e di soprassalto. La voce di sua madre che lo chiamava gli diede un sussulto che lo riportò bruscamente alla realtà. Aprì gli occhi e a malapena riusciva a capacitarsi di dove fosse, come accade quando cadiamo in un sonno profondo. Avvertiva soltanto un’assenza, ma era una sensazione buona. Ricordò allora che stava sognando: di nuovo nel sogno c’era quella donna che correva senza mai voltarsi.
“Quante sfumature ha l’attesa?” Si chiese ritrovando coscienza. Si mise a sedere e il tripudio delle fioriture primaverili gli sembrò la giusta risposta.
In casa quel giorno lo stavano aspettando sua madre e Don Leo, ma lui non aveva voglia di parlare con loro; sapeva già che Don Leo non era lì per caso. Avrebbe temporeggiato ancora un po’ prima di affrontarli. Doveva essere ben sveglio.
Era stata sua madre a invitare Don Leo. Don Leo era, come si dice, l’ultima spiaggia, visto che non c’era verso di convincerlo a partire.
“Al diavolo anche lui!”  Lui non ci sarebbe andato a studiare in America.
Quando risentì per la seconda volta la voce materna che insisteva a chiamarlo si decise ad alzarsi. Non aveva scuse, era impossibile non sentirla. Quella era una cosa che andava fatta e non c’era verso di nascondersi. Sperava soltanto che il tentativo di sua madre fosse anche l’ultimo. Magari dopo l’ennesimo fallimento si sarebbe messa il cuore in pace.
Li trovò in salotto composti e immobili come statue. La prima cosa che Raul notò furono le mani bianche del sacerdote appoggiate con eleganza sulle gambe. Aveva sempre diffidato di mani così candide. Cosa ne sanno della vita?
Andò a sedersi nella poltrona nel mezzo ai due, ben sapendo che sua madre lo stava guardando con disapprovazione, detestava che lui rimanesse con gli abiti sporchi da lavoro per casa in assenza di estranei, figuriamoci in presenza di Don Leo.
“Questi stracci – gli aveva detto la sera prima – è tutta colpa di questi stracci. Se ti vestissi come un cristiano diventeresti un cristiano come tutti”. La parola cristiano, per sua madre, aveva una doppia valenza.
Gli venne in mente che forse avrebbe dovuto scusarsi per averli fatti aspettare e presentarsi per giunta in quel modo, ma Don Leo comunque non gliene diede il tempo.
“Allora figliolo, stavo appunto parlando con tua madre, dice che non vuoi partire  – tagliò corto il sacerdote  – non pensi che ti si stia offrendo una grande opportunità?”
“Lo so Don Leo, ma è una scelta che spetta solo a me.” Rispose Raul altrettanto sbrigativo.
“Certo Raul, ma ricorda che tu sei il frutto di un  miracolo del signore. Tuo padre ripone in te grandi speranze.”
Quante volte ancora avrebbe dovuto sentire quella storia del miracolo? L’aveva forse chiesto lui?
“Ascolta figliolo – riprese Don Leo, questa volta con tono più suadente –  voglio farti una semplice domanda: puoi forse dire di essere stato felice qui negli ultimi anni?”
Raul chiuse gli occhi – lei sa cos’è la felicità Don Leo? Aprile è la stagione degli iris, delle fresie, dei glicini. Sta per cominciare la festa, lì c’è la felicità. Lei sa per caso se può esisterne un’altra? Aprì gli occhi. Il volto severo di Don Leo era ancora in attesa di una risposta.
“Credo di sì Don Leo”.  Sua madre allungò il collo e lo guardò di traverso, quasi a implorare di essere più rispettoso.
Finocchio. Frocio. Ricchione. Era vero, durante la sua adolescenza aveva collezionati tutti gli epiteti possibili. Gli adolescenti sono animali feroci che si muovono in branco e attaccano, diventano facilmente carnefici bisognosi di un martire. Lui ne era stato vittima prediletta molte volte.
Peccato  però che lui non fosse frocio, anche se era quello che pensavano tutti. Amare i fiori e le piante era considerata cosa da femmina e avevano finito per credere che doveva avere qualcosa di storto. Del resto meglio pensarlo frocio che pazzo. Lui era figlio del notaio Manetti, avrebbe potuto assumere dieci giardinieri, se proprio ci teneva ad avere il giardino più bello, che bisogno aveva di stare tutto il tempo a potare e innestare, a tagliare e piantare? Era per questo che volevano allontanarlo dal suo giardino. L’unico figlio del notaio Manetti, di discendenza nobile,  non avrebbe potuto fare il giardiniere.
“Credi di poter basare il tuo futuro su quel giardino? – la voce di Don Leo lo riportò alla realtà. Raul aveva percepito in quella voce una nota di irritazione – rifletti Raul, devi tutta la tua gratitudine a genitori che ti hanno accolto e allevato e per i quali sei diventato il loro bene più grande.”
Raul ripensò alla donna del sogno, aveva sempre l’impressione che avesse a che fare con  qualcosa che non riusciva a raggiungere; a quanto desiderasse  vederne il volto. Erano anni che si addormentava covando quella speranza.
Tutti sapevano che quelli non erano i suoi genitori. Sua madre, quella vera, l’aveva partorito in quel giardino, da sola. Una notte era arrivata da chissà dove e aveva schiuso le gambe senza neanche un gemito, nessuno aveva sentito niente. Proprio nel punto in cui era cresciuto il mandorlo, aveva fatto sgorgare la sua acqua e il suo sangue. Poi aveva abbandonato il suo fiore davanti all’uscio di quella ricca casa, inghiottita da chissà quale povertà o vergogna.
Era stato il più feroce del branco a rivelargli la verità quando aveva undici anni. Da allora aveva preso a fare quel sogno, quella donna correva senza voltarsi indietro e Raul si era messo in testa di aspettarla. Era cresciuto aspettandola e l’avrebbe aspettata perché, lui ne era certo, prima o poi si sarebbe fermata e finalmente avrebbe visto il suo volto. Era un pensiero che aveva preso forma nella sua testa molto tempo prima. Non aveva fisionomia concreta, era piuttosto un’intuizione. Non l’aveva mai rivelato a nessuno.
Sua madre tossì. Un colpo di tosse lieve e discreto, un segnale per richiamare la sua attenzione. Disse anche qualcosa, ma Raul non ascoltava. Si alzò con lo sguardo fisso in un punto oltre la finestra aperta sul giardino. Lui non era in debito con la famiglia che lo aveva accolto, si era sempre comportato nel modo giusto, non aveva mai dato grattacapi, non era mai stato come i suoi coetanei.
Si fermò con le mani nelle tasche dei jeans. Alle sue spalle sua madre e Don Leo lo guardavano avvolti da un silenzio carico d’ansia. La sua immaginazione era stata sempre confusa, ma qualcosa in quel momento cambiò. Un cambiamento impercettibile, una scintilla, incomprensibile a chi non avesse avuto una sensibilità molto acuta, cosa che, di certo, né Don Leo né sua madre possedevano.
Non posso andare, avrebbe voluto dire.
So che non ha senso, avrebbe voluto dire.
Mi spiace, avrebbe voluto dire.
Invece non disse niente di tutto questo, come se avesse lasciato la voce in un luogo lontano.
“C’è un mandorlo in giardino che ha bisogno di me – disse senza voltarsi –  finché fiorirà io starò qui. E se la cosa non vi piace, allora dovrete scacciarmi con la forza.”
Le parole erano scivolate dalle sue labbra come su un tappeto di velluto. Si sentiva bene. Fissava le gemme del mandorlo gonfie d’aprile. Erano piene, vive, sul punto di aprirsi.
Pensò che di lì a poco ne avrebbe visto i fiori. E c’era allegria in questo pensiero.

 

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5 commenti »

  1. Sei davvero molto, molto brava. Mi rivolgo con il tu perché siamo, come dire, colleghi, avendo anch’io pubblicato un racconto per il concorso.
    Hai uno stile accattivante e originale, come originali sono le storie che racconti. Complimenti e auguri di cuore

  2. Grazie Ottavio, ti leggerò, mi piace l’idea di scambiarsi opinioni e commenti sulla scrittura, grazie ancora

  3. Bellissima la tua scrittura descrittiva!

  4. Scrittura elegante, ricercata, mai banale, capace di trascinare il lettore in un mondo fatto di colori vivaci e profumi intensi… Suggestioni oniriche come rifugio da una realtà maligna che opprime e deprime… Bello davvero. Complimenti. Approfitto per invitati alla lettura del mio ” La Torretta di Guardia”. Sarei davvero curioso di conoscere il tuo parere.

  5. Ciao Daniela, ci narri la storia di un ragazzo adottato a cui piace lavorare in giardino, Lì c’è il mandorlo presso il quale Raul era stato partorito; il mandorlo gli ricorda la madre vera che vorrebbe trovare. Pensieri intimi ben rappresentati e trama interessante per la vicenda. In bocca al lupo, Daniela.
    Emanuele

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