Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Vita in Campagna” di Tommaso Fagotto

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

Per un poco andai a vivere in campagna. Mi serviva una pausa, la città a lungo andare ti rovina. Evadere, a distanza d’anni, mantenne la mia lucidità quasi intatta.

Mi trasferii in una piccola casa, disfata. L’affitto, non costava proprio. Cominciai coll’adagiare una coperta a terra, preparando il mio giaciglio alla meglio. Poi andai in città a procurarmi delle candele e dei fiammiferi, i fiammiferi li pagai 40 centesimi, le candele 2 euro e 50. In città tutto sommato avevo una bella casa (vivevo dai miei), con due bagni e nemmeno una stanza in cui sentirsi veramente a casa. In città se c’era il sole accendevo la luce, se pioveva accendevo la luce, accendevo la luce anche mentre cagavo. Nella campagna se c’era luce fuori, c’era luce dentro, e la notte il buio era l’oscurità più fitta di tutta la mia vita.

Piano piano mi abituai. Una volta al mese facevo scorta di tonno in scatola e Camel Blu. E tutto m’andava bene. Cominciavo però a soffrir di solitudine, spesso parlavo a me stesso chiedendomi e rispondendomi. Non scrivevo se non qualcosa sul muro coll’indelebile nero. Più volte il rumore dei piccioni che s’appollaiavano eppoi svolazzavano mi spaventò al punto da farmi pensare “vaffanculo, torno in città”.

Un giorno abbastanza presto sentii dei rumori dalla porta d’entrata. Ma no che non può essere la gente, non c’è nessuno nel raggio di 30 chilometri da qui, cazzo, e chi è adesso? M’alzai di scatto e presi il primo pezzo d’asta (probabilmente una trave caduta dal tetto) e mi diressi alla porta, pronto a colpire il malintenzionato di turno, naturalmente evitando di tramortirlo, ma almeno facendogli cambiare idea.

La porta scricchiolò.

S’aprì… s’aprì… s’aprì… s’aprì… quasi del tutto… Sagoma nera. Figura di donna.

– no, fermo – disse, ansimando.

Tutto quell’ansimare me lo stava facendo venir duro.

– Chi sei? – chiesi

– no, tu chi sei – chiese lei

– tommaso – dissi. E domandai poi: – che ci fai qui? –

– è casa mia. – rispose lei

– beh, ormai ci abito io –

– mi fa piacere. posso entrare? –

– sì certo –

entrò.

La finestra inondò di luce i suoi capelli paglierini, e un profumo come di shampoo mi entrò su pel naso fino alla testa e al cervello e lo sigillai come un ricordo. Lei era indelebile. Assomigliava a qualcuno che avevo visto alla televisione, aveva gli occhi leggermente arrossati e lacrimava un po’. Me ne stetti lì a guardare le sue labbra sussurrare parole che non capivo. Ero scemo, lì, col cazzo bello che duro, a guardarle il culo strusciare per le pareti, mentre faceva all’amore con la casa che abitavo da un pezzo.

– È tanto che non vengo qui. – disse. Ruppe il silenzio. – Ci vivevo da piccola sai? – continuò.

– ah. Bello. –

– sì. Tu che ci fai qui? –

– vengo a staccare dalla città. –

– a me pare di averti già visto. –

– anche a me. –

– bene. – disse lei.

– bene. – dissi io. – Hai fame? –

– sì. – rispose.

– vado in città a prendere del tonno ok? sarò qui in mezz’ora.-

– fai presto. – Mi piacque il modo in cui lo disse.

Me ne andai in città. Comprai un pacchetto morbido di Camel Blu, birra, fiammiferi, quattro scatolette di tonno e due di fagioli, e tre candele. E avevo finito i soldi.

Andai alla piscina comunale, e mi lavai nelle docce facendo finta d’essere un abbonato al nuoto. Rubai una boccetta di docciaschiuma Pino Silvestre, che mi svuotai addosso. Uscito, profumavo di uomo.

Mezz’ora dopo ero di nuovo a casa.

Lei era lì, accaldata, bella, seduta. Mi sedetti fianco a lei. Non riuscivo a guardarla negli occhi, che lo sguardo mi cadeva in mezzo alle gambe a guardare il segno delle sue mutandine. Provai compassione per lei, era molto giovane, molto sola, al punto da trovarsi a parlare col fallito, con me.

– Quanti anni hai? – le chiesi allora.

– diciotto. –

– bene, hai l’età per bere la birra. – gliene porsi una. Aprimmo e bevemmo da bottiglie di vetro. Eravamo sempre più vicini, seduti a gambe incrociate a parlare delle rispettive vite, sempre più vicini, ci avvicinammo tanto che le nostre ginocchia si toccarono. Eppoi lei appoggiò la testa alla mia spalla, e io la mia testa alla sua testa, e si stava più bene che mai.

– io mi chiamo Irene. –

– io tommaso. –

e ci addormentammo, e per tetto avevamo un cielo di stelle. Svegliati ci baciammo e ci abbracciammo e ci annusammo e lei annusò me e probabilmente si mise anche a ridere del mio eccessivo odore di pino silvestre, mentre io ero troppo occupato a sentire le sue tette strusciare su me. E non so perchè mi venne da piangere, e glielo dissi, le dissi – senti, mi va di piangere. –

– ok. – mi rispose. Eravamo ancora abbracciati, e piansi un po’ in silenzio per non correre il rischio che in città mi sentissero, a 35 chilometri da qui, e mi stupii nell’accorgermi di alcuni singhiozzi di lei che stava piangendo ancor più di me.

Quindi, il bue che dice cornuto all’asino, mi misi a consolarla. Mi spiegò che non stava bene, che era molto triste.

– Chi non lo è? – chiesi io allora.

Lei annuì di risposta. Era bella. Mi distesi al giaciglio, e si distese anche lei. Ci baciammo le labbra, entrambe carnose, bellissime, brillanti.

Poi, facemmo l’amore.

Glielo misi dentro con dolcezza e mi si avvolse tutto attorno, dentro di lei. Non mi estromise mai, neanche quando venni. Venimmo assieme. Usavo il preservativo anche se il figlio di me e Irene sarebbe potuto essere nientemale.

Ti voglio bene. – mi disse

mi misi quasi a piangere di nuovo.

Che bella, la campagna. I grilli cantavano, la sera era mite, mi rimaneva una birra e nulla poteva andare meglio di così.

– Irene – sussurai. Ma lei era già bella dormiente. Le accarezzai le guance. Le diedi un bacetto. Accesi una Camel Blu, aprii la birra e mi distesi a guardare le stelle.

E ringraziai Dio per la prima volta in vita mia, ed ero vivo, grazie all’unica cosa che mi faceva morire:

le donne.

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