Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Goldraake!” di Navid Carucci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

Da bambino, ero convinto che un giorno o l’altro Goldrake sarebbe atterrato in città. O se non lui, un altro personaggio dei cartoni animati, non per forza un robot. Certi miei amici sostenevano che Goldrake avrebbe difficilmente lasciato il Giappone, per via della fattoria. Era più probabile che scendessero robot spaziali come il Trider G7 (che poi – affermavano i più saccenti – avrebbe alloggiato nel parco giochi della città) o il Daitarn 3, o altri. Per le bambine sembrava più facile. I loro cartoni erano pieni di eroine giramondo come Sandybell, Lalabel, Lulù, e tutte quelle altre smorfiosette dai nomi musicali. I giornalini a fumetti che leggevamo – riproduzioni pirata degli eroi giapponesi – avevano una rubrica della posta in cui i lettori potevano dialogare con i loro beniamini. E lì era tutto un promettere visite, telefonate, apparizioni a sorpresa alle feste di compleanno. Poi non si presentava nessuno, ma era ovvio: se avessero abbandonato le loro postazioni per andare a ogni festa cui erano invitati, la Terra non avrebbe avuto scampo.

Una notte credetti che l’attesa fosse finalmente finita: stavamo percorrendo un’autostrada (io ero seduto davanti insieme a papà, mentre la mamma dormiva sul sedile posteriore), si vedevano solo il cono dei fari e il cielo nero, spruzzato di stelle sbiadite. A un certo punto, proprio davanti a noi, poco sopra l’orizzonte, vidi passare un enorme, inconfondibile agglomerato di luci. Le due posteriori, vicine e parallele, segnavano l’estremità delle gambe; due anteriori, più allargate e sempre parallele, le braccia aperte (oppure le ali del disco), e una anteriore la testa del robot. Presi a balzare entusiasta sul sedile, urlando che finalmente un robot era venuto a trovarci. Mia madre si affacciò sonnolenta. Avevo dodici anni; non ho mai dimenticato l’espressione delusa con cui mio padre si è voltato a guardarmi, sibilando: “È un aereo, imbecille. Qui vicino c’è un aeroporto.” Era sicuramente vero. Che fosse un aereo, cioè, non che io fossi un imbecille. Forse ho iniziato a crescere da quel giorno.

Non so se sia stato un bene.

 

Trasale al violento trillo di un telefono. Per una volta non risponde. È solo nel piccolo ufficio, la porta chiusa, mentre tutt’intorno è il solito putiferio ovattato di squilli e di urla, magari solo un po’ più concitati. Lui se ne sta affondato nella comoda poltrona di pelle, pile di carte sparpagliate sulla scrivania, il monitor di un computer girato dall’altra parte, dove dovrebbe aggiornarsi sulle quotazioni di Wall Street. Invece allunga lo sguardo fuori dalla finestra e si domanda da dove vengano i ricordi. Ne sente diversi che premono ai margini della sua coscienza, cercando di sfondare. Quel mattino è arrivato con mezz’ora di ritardo. Se l’è presa comoda alla caffetteria italiana, con quella sagoma di Carlo, il barista. Avrebbe potuto perderci un’altra oretta a discutere di sport, magari andarsi a sedere su una panchina in riva al fiume. Sarebbe stato senz’altro meglio. Invece si è precipitato in ufficio, tirato dal guinzaglio che, a un certo punto, si è messo volontariamente al collo. Orari, obblighi, scadenze. Una vita di impegni come scatole cinesi, con l’unica possibilità di passare dall’una all’altra. Da bambino, in una giornata come quella, se ne sarebbe stato ozioso a guardare le nuvole: come in fondo sta facendo, rileva con sediziosa soddisfazione. Si chiede quante persone stiano giocando o guardando un cartone animato in quel momento. Cosa darebbe per essere uno di loro. Ma basta, troppi pensieri. Un bambino non ragionerebbe a quel modo: aprirebbe solo la porta e uscirebbe a esplorare, come nei fumetti e nei romanzi che amava, Verne su tutti. Gli abissi marini sul Nautilus, le steppe russe, un proiettile verso la luna… tutto gli sembrava magico, ovunque c’era un tesoro. A che punto gli sono sfuggiti?

I suoi genitori lo accusavano di passare troppo tempo davanti ai cartoni animati. Erano diseducativi, sostenevano: irreali, violenti. Bella sciocchezza, riflette amaro. E poi, a lui piacevano lo stesso: passava ore a elaborare avventure in cui s’incrociavano i suoi eroi preferiti, e a disegnarle. Le sue storie migliori facevano spesso il giro della scuola. Inoltre, il fatto di leggere anche dei libri gli forniva non solo materiale per le sue fantasie, ma una difesa inoppugnabile contro i genitori. Altri suoi amici non erano così fortunati. Pierpaolo era costretto a trasferirsi a casa sua per guardare i cartoni che preferiva. Da lui comandava la sorella maggiore, e il pomeriggio si popolava degli occhi sgranati e i boccoli biondi di Candy Candy o chi per lei. A casa di Lallo, invece, la tv era centellinata. La regola era “solo uno al giorno”: a Lallo sembrava non pesare, però poi rubava i giornalini di nascosto e negava di esser stato lui. Lo sapevano tutti; e a dire il vero, qualche volta aveva rubato lui stesso un fumetto agli amici, scaricando la colpa su Lallo.

Ricorda tutto con estremo nitore, rievocando dettagli perduti da anni. Torna a domandarsi da dove nasca la memoria, e soprattutto perché. Perché proprio adesso risalgano a galla quei ricordi d’infanzia, in fondo poco significativi, come se fossero momenti essenziali. Si sarebbe aspettato di rievocare altro, la morte di suo padre, o la partenza dall’Italia, o il fidanzamento con Luisa; perfino il compleanno dei trent’anni, con quell’enorme coniglio di paglia che aveva preso fuoco! Ma niente di tutto questo. Ciò che gli torna alla mente, sopra ogni altra cosa, è la sensazione graffiante della sabbia, e l’odore acido del sudore.

 

Sabbia e sudore. Una combinazione micidiale. Ti si attaccava alle gambe, alla schiena, al culo, non te la staccavi più. Era una sabbia tenace, quella. Nera e a grani grossi, piena di pietruzze, bastoncelli e cristalli. Quando non avevo nulla da fare, mi mettevo a setacciarla in cerca di minuscole e iridescenti fusioni di vetro. Ma quando eravamo in guerra, la sabbia era ostile. Prima di tutto, era bollente. Il nero si scaldava come una padella, e non si raffreddava che a sera. Nel frattempo, ti ustionava i piedi. Per questo portavamo le ciabatte o le scarpe da ginnastica, ma a volte capitava che le perdevi, o che qualcuno te le rubava. Allora erano guai. Certi strilli che ancora me li ricordo, e piedi spellati per una settimana. Per non parlare del catrame, o quel che era, che affiorava ogni tanto mezzo sciolto e ti si incollava alle scarpe. Ma anche senza, la sabbia si aggrappava ai peli delle gambe e delle braccia, ti entrava negli occhi, e se provavi a toglierla a mani nude, non facevi che spalmarla. Ci voleva l’acqua, o rapidi colpi di asciugamano. E intanto significava ritirarsi dallo scontro, o peggio ancora, esporsi. Era impensabile, per cui ti tenevi la sabbia dappertutto, e se ce l’avevi negli occhi peggio per te. Che stronza di sabbia, davvero. A volte ci si incontrava in un campo: lì tutto diventava più pulito e cattivo. Però il terreno era piatto, non c’erano colline dietro cui nascondersi, né la possibilità di costruire trincee o tendere agguati. E poi era pieno di topi, bisce e altri animali. Per cui, sabbia o non sabbia, le battaglie si svolgevano per lo più in spiaggia. In un tratto isolato, ovviamente, dopo tutti gli stabilimenti, dove non arrivava nemmeno la strada. Ogni tanto qualcuno capitava per una passeggiata, ma quando ci vedeva tornava subito indietro. Il territorio era perfetto: un lembo di sabbia scura fino al mare, disseminato di sassi, rami, perfino scarpe portate dalla corrente. E subito dietro, una serie di collinette e dune di sabbia, e poi campi e canneti dove la sera venivano i cavalli. C’era un sacco di merda in giro, e anche questo ci piaceva. Non c’era umiliazione maggiore che trascinare uno di loro in una cagata fresca. Non succedeva spesso; una volta l’hanno fatto anche a me. Ho vomitato.

Avevamo tutti fra gli undici e i tredici anni. Eravamo una decina, a volte di più. Due bande rivali. Per che cosa combattevamo? Non per il territorio, del resto non era nostro, e a quell’età non avevamo molto su cui potessimo accampare diritti. Nemmeno per le ragazze (era troppo presto) e neanche per l’onore (quando mai?). Combattevamo per la supremazia. Mi diverte ripensare a quei giorni come ai Guerrieri della notte, ma non era proprio così. Eravamo bambini, e la supremazia per cui lottavamo era quella dei rispettivi universi di cartone. Di solito, i robot di Go Nagai – Goldrake, Mazinga, Jeeg Robot – contro quelli spaziali, Baldios, Gaiking, Gundam. Gli scontri migliori erano quelli in cui si associavano anche le ragazze, che interpretavano i robot femmina: sembravano più veri, completi. Ricordo Alessia, che era una stanga, e picchiava più forte di un sacco di ragazzi; poi faceva ginnastica artistica, e se ne usciva con certe ruote e ribaltate che aggiungevano un tocco di coreografia irripetibile: peccato che non venisse così spesso.

Forse avevano ragione i miei genitori, che quei cartoni ci spingevano alla violenza. Non saprei. Anche a distanza di anni, mi sembra che ce ne fosse di più nei loro sguardi e frasi quotidiani che in tutti i nostri scontri nell’arco di tre estati (due per la verità, più una in tono minore, quando qualcuno era già passato alle superiori e non veniva più). Per noi era solo un gioco, il gioco più divertente del mondo. Certo, ogni tanto qualcuno si faceva male, ma allora smettevamo e lo soccorrevamo tutti insieme (naturalmente, la sua squadra in quel caso accettava la sconfitta). Non esistevano regole fisse, tranne quella di non infrangere la finzione. Eravamo un bel gruppo, disomogeneo e forse neppure troppo legati, però un bel gruppo.

C’era Cino, lo zoppo, che a dieci anni aveva battuto una punizione ai giardinetti, e invece di prendere il pallone aveva colpito in pieno uno spruzzatore di metallo. Io ero presente. Al tempo rimasi affascinato in maniera morbosa dall’osso che spuntava candido dalla ferita insanguinata. Fu quasi una delusione, dopo che si tolse il gesso, vedere che era rimasta solo una cicatrice. Glielo dissi, e ci azzuffammo: anche sciancato, mi diede un sacco di botte. In effetti non zoppicava molto, solo quando si affaticava.

Poi c’era Franco, che in realtà si chiamava Vittorio, ma tutti lo chiamavamo Franco perché stava sempre con Cino, e poi perché tutti e due si vantavano di essere fascisti (ma a quell’età, chi non lo faceva?). Erano gli unici due che stavano sempre insieme, anche se cambiavamo squadre: in genere capitava quando passavamo dai cartoni animati giapponesi ai fumetti di supereroi, e non era detto che le nostre preferenze coincidessero. Per esempio, Cino e Franco erano di solito Il Grande Mazinga e Mazinga Z, e combattevano dalla mia stessa parte. Invece, quando si passava ai supereroi, io stavo con gli X-Men, che invece a Cino gli stavano sulle scatole, e allora passava ai Vendicatori, e naturalmente era Thor, il dio del tuono, che nella sua identità segreta era un dottore storpio. Si era anche fabbricato un martello di cartapesta che poi riempiva con varia roba; il ripieno migliore erano le uova. Franco, insomma Vittorio, aveva gli occhiali, e non mi ricordo che supereroe facesse.

Lallo non veniva spesso alle battaglie, ma quando lo faceva era Danguard, l’unico robot che guardasse in tv. Per noi andava bene, perché non lo voleva nessun altro, ed era anche divertente immaginare che Danguard fosse in giro nello spazio (alla ricerca del padre) e di tanto in tanto tornasse sulla Terra per unirsi agli scontri. E infatti stava qualche volta con noi, qualche volta con loro. E si vedeva che in casa lo reprimevano un po’, perché in quelle occasioni picchiava come un fabbro, e dovevamo fermarlo con tutte le forze.

Chi altro c’era? Luca, un tipo un po’ strano, secco e con i capelli sempre ingelatinati, mi metteva i brividi. Di solito stava con loro, e cambiava spesso robot; quando passava con noi negli X-Men faceva Lombrico, che era molto appropriato perché sembrava viscido e lunatico. Non parlavamo quasi mai. Mi sa che è finito in una clinica o qualcosa del genere. Luca, Dio, lo avevo completamente rimosso.

Invece Alessio era un grande. Certo, un po’ lo odiavo perché mi aveva fregato la parte di Wolverine negli X-Men, però devo ammettere che se la meritava. Era più basso, robusto e duro di me, e tanto bastava. A conti fatti, era il più forte di tutti, anche perché faceva arti marziali. E poi era velocissimo: nelle battaglie di robot faceva Gundam, e imitava così bene le sue accelerazioni nello spazio, con il ciuffo riccio che gli si alzava, che a volte capitava che ci beccassimo una botta solo perché rimanevamo fermi a guardarlo. Mi sarebbe piaciuto frequentarlo più a lungo (anche perché conosceva un sacco di ragazze) ma si è trasferito in un’altra città dopo la seconda estate, e ci siamo persi di vista.

Quanti altri… il Piaga, che finiva sempre per farsi male, il Medusa (che si era scelto da solo il soprannome perché si chiamava Aristodemo, e da quando lo conoscevo non aveva mai voluto che nessuno lo chiamasse per nome), Tapiele (l’unico che si fosse comprato o confezionato dei costumi, che gli davano un’aria un po’ ridicola all’inizio delle battaglie, e un po’ patetica alla fine, tutto sporco e lacero, anche perché finiva sempre che tutti si accanivano contro il bersaglio più sgargiante), e altri di cui non ricordo il nome, o di cui ricordo il nome ma non associo le facce.

La dinamica era quasi sempre la stessa. Ci incontravamo alla spiaggia o al campo, ci disponevamo su due file (le squadre erano decise in precedenza, non ci mettevamo a discutere una volta lì: niente doveva spezzare la tensione) e ci fissavamo in cagnesco. Poi i capi (Alessio e Cino) iniziavano le dichiarazioni di guerra, oppure tutti insieme inventavamo dei retroscena per giustificare la lotta, ci accusavamo a vicenda di aver tradito qualcuno o di non aver difeso la Terra, magari creavamo dei malintesi che alla fine si scoprivano opera di nemici, o roba del genere. L’unico limite era la fantasia. A questo punto, si scatenava la battaglia. Ci avventavamo gli uni contro gli altri come in una mischia di football, oppure correvamo all’indietro e ci sparpagliavamo, dipendeva tutto dall’estro del momento o dall’aver elaborato un piano in precedenza. Cino era il migliore nella tattica: escogitava delle trappole ingegnose o delle strategie di accerchiamento (soprattutto contro Alessio, che era il nemico da buttar giù) che funzionavano alla grande: e poi costruiva trincee, portava vassoi già carichi di palle di sabbia, o costruiva armi utilizzando fruste di canna e bastoni. Una volta aveva trovato dei ricci di mare, ma quella volta aveva esagerato, e il Piaga era finito al Pronto Soccorso. Peccato che le nostre lotte non si potessero svolgere d’inverno: la neve ci avrebbe dato un mucchio di nuove possibilità. La posta in palio era banale, ma crudele: il permesso di farsi il bagno alla fine della battaglia. Può sembrare una sciocchezza, ma con tutto il caldo, le botte, il sudore, e soprattutto quella sabbia appiccicosa, gettarsi in mare dopo la zuffa era un sollievo indescrivibile. Quando ci battevamo nel campo inventavamo punizioni alternative, di solito imbarazzanti; ma niente dava soddisfazione quanto sguazzare in acqua mentre l’altra squadra sedeva impotente sulla riva. Non abbiamo mai lottato in mare, forse perché era troppo pericoloso (qualcuno non sapeva nuotare bene, tra cui io stesso), o forse perché non c’erano abbastanza robot acquatici. Solo Jeeg aveva un equipaggiamento subacqueo, e poi io grazie al Delfino Spaziale (se c’era una ragazza a impersonare Venusia, la pilota). Naturalmente, io ero Goldrake: per ottenere questo ambito privilegio, avevo dovuto battermi con un tizio (mi pare si chiamasse David) dalla faccia piena di brufoli. Non credo di averci mai messo tanta determinazione, forse troppa. David, o come si chiamava, non volle più giocare con noi, e sua madre venne a cercarmi al campo. Abbiamo scherzato per tutta l’estate sul fatto che, alla fine, gli avevo spalmato la faccia di pus. Che schifo.

La parte che preferivo, comunque, era quella psicologica; o forse “psicologica” è un termine eccessivo. Diciamo di motivazione, d’incitamento, che poi aveva un effetto di pressione sul nemico: la parte degli slogan, delle grida di battaglia, dei motti di spirito e così via. Devo dire che, in questo, le frasi più efficaci erano quella del Medusa, che faceva Daitarn 3, e lasciava sempre tutti un po’ intimoriti quando alzava una mano al cielo e urlava “Con l’aiuto del sole, vincerò!” (una volta era nuvolo e gli demmo un sacco di botte, a riprova del fatto che era tutto un effetto psicologico), e poi, senza falsa modestia, il mio grido di attacco: forse perché l’avevo interiorizzato così bene, o forse perché in fondo ci credevo e mi ci identificavo davvero, quando mi lanciavo urlando “Goldraake!”, oppure “Goldrake, avanti!!” tutto sembrava bloccarsi per un istante, e io mi sentivo carico di un’energia fulminante. Per quei pochi secondi, non ero il ragazzino mediocre che ogni mattina mi rilanciava uno sguardo spento dallo specchio, ma ero davvero chi gridavo di essere, capace di ogni cosa. Forse per questo la nostra squadra di robot era spesso vittoriosa, perché ci battevamo per qualcosa che sentivamo vero, autentico, e lo gridavamo con tutta l’anima.

 

« Ehi, ma che stai facendo lì dentro? Sei impazzito? Muoviti!»

Si volta verso Alessandro, il suo collega italiano, apparso nel vano della porta; si sono conosciuti alle selezioni, per fortuna avevano fatto domanda per settori diversi, così invece che rivali sono diventati amici. Più o meno. Ora lo fissa con aria stralunata, aspettandosi che si alzi e lo segua. Lui fa un cenno tranquillo con la mano.

« No, vai tu. Tanto che cambia?»

Alessandro non ribatte neppure. Sgrana gli occhi come se avesse a che fare con un alieno, e si chiude la porta alle spalle, ributtandosi nel caos del corridoio. Lui rigira la poltrona verso l’esterno. Quanti ricordi, così vicini e irraggiungibili; immutabili. Da piccolo non vedeva l’ora di crescere per acquisire controllo sul mondo e sulla sua vita. Poi, crescendo, si è reso conto che il controllo, come il potere, è un’illusione passeggera. Ricorrente, ma passeggera. E ironicamente, l’unico potere che abbia mai posseduto era proprio allora, il potere privato della fantasia, in cui accadeva tutto ciò che desiderava. Gli torna alla mente una delle emozioni più forti e inebrianti della sua infanzia: un sogno, in cui pilotava il disco di Goldrake fra le basse villette del suo paese di mare. Come in tutti i sogni, non “sognava” di pilotare il robot, lo pilotava veramente. Le sensazioni erano autentiche, almeno per quanto lo riguardava. Il senso schiacciante dell’accelerazione, i comandi di pilotaggio, l’enorme ombra del disco che avvolgeva le strade e le case ben note, e poi le impennate verso l’alto tirando la cloche, e di nuovo in basso spingendola in avanti. Non importa quel che credevano gli adulti, quel che crede oggi egli stesso: da piccolo, per una notte, ha pilotato Goldrake. Chi può negarlo?

Comincia a fare caldo nell’ufficio. E la brezza non basta più a coprire il fumo. Ricorda quando avevano dato fuoco ai covoni nel campo davanti alla casa del generale. Li aveva sorpresi la polizia, e il generale – non che fosse un vero generale, lo chiamavano così perché era un vecchio pomposo e autoritario – li stupì dicendo che era stato lui a chieder loro di farlo, per “sgombrare il giardino”. Si prese anche una multa. E poi si fece ripagare facendo far loro da giardinieri per il resto dell’estate. Ma anche quello faceva parte del gioco. E ora gli sembra un tempo memorabile, l’unico in cui abbia vissuto davvero. Si toglie la giacca e la getta sul pavimento. Un piccolo gesto di disordine: lode all’improvvisazione! Se avesse avuto più coraggio, oggi non si troverebbe qui.

 

Non so gli altri, ma io non lo facevo solo per divertimento. Lo facevo per bisogno. Non bisogno di violenza o adrenalina, anzi, avrei rinunciato volentieri a tutte quelle escoriazioni. Ma bisogno di una realtà più netta, comprensibile, in cui bene e male fossero ben distinti, e ogni azione avesse un senso, uno scopo. Non trovavo niente del genere nel mondo esterno, tutto sembrava così confuso. Durante le nostre battaglie, per qualche momento provavi – provavo – la sensazione di essere un eroe, di avere il potere di intervenire e aggiustare le cose. Era una bella sensazione: potermi battere per quello in cui credevo, senza che niente o nessuno me la inquinasse. La sento ancora sulla pelle.

E poi c’erano le ragazze. Quella era un’altra faccenda. Quando assistevano o partecipavano agli scontri, tutti raddoppiavamo le forze, e io in particolare. Mostrarmi in quella luce mi dava una sicurezza che al di fuori avrei solo sognato. Tant’è vero che, quando mi piaceva qualcuna, la prima cosa che facevo era invitarla alla spiaggia; e se non ci voleva venire, le raccontavo i dettagli fino ad annoiarla. Ma non riuscivo a farne a meno. Anche quello, in fondo, faceva parte della mia realtà comprensibile. Non capivo bene i rapporti fra maschi e femmine. Ora so che li capiscono in pochi, ma al tempo ascoltavo le chiacchiere dei compagni più grandi e mi convincevo di essere l’unico imbranato in un mondo di amatori. Soprattutto a scuola. Se mi avvicinavo a qualcuna, facevo cose idiote per attirare la sua attenzione: le chiedevo i compiti, le regalavo un cioccolatino, facevo vaghe allusioni cui speravo seguisse un cenno inequivocabile. Che naturalmente non arrivava mai, neppure da quelle che poi scoprivo essere più o meno attratte da me. Per non parlare del mondo degli adulti, in cui l’amore sembrava solo motivo di risentimento o di rimpianto, e si colorava del verde del denaro o della bile. Nei cartoni animati, invece, tutto era limpido, sottolineato da lunghi sguardi luccicanti e musiche di sottofondo. Non solo nei cartoni per bambine, anche in quelli di robot. C’era sempre una ragazza segretamente innamorata del protagonista, che a sua volta la ricambiava ma di solito non lo esprimeva, per ragioni (a ripensarci) raramente congrue. In effetti, quei rapporti erano forse più dissociati dei miei, ma allora mi apparivano romantici e rassicuranti. L’amore che preferivo, e su cui fantasticavo più spesso prima di dormire – inventando delle scene che sviluppassero le potenzialità inespresse di quei rapporti, con un languido fioccare di baci e dichiarazioni – era quello fra Kyashan, il ragazzo divenuto androide, e Luna, la sua ex-fidanzata e compagna nella lotta contro gli invasori. Lei era bellissima, con le due code bionde che spuntavano dal casco, e lo sguardo dolce dai grandi occhi verdi. Amava Kyashan in maniera più scoperta delle sue colleghe, e lui aveva per una volta un motivo plausibile per non poterla ricambiare, se non a parole. Questo rendeva la loro storia più vera e più tragica. Non mi capitava spesso di piangere per un cartone animato, ma lo feci nella puntata in cui Luna abbandonò Kyashan, e lui inseguì il suo aereo sul Flender-jet fino a quando lei non si lanciò dal portello fra le sue braccia. Miracoli dei cartoni animati, nessuno venne scaraventato nel vuoto dalla decompressione: ad ogni modo, quella era la mia visione dell’amore, e cercavo la mia Luna con scarsi risultati.

Le battaglie in spiaggia mi davano modo di entrare in confidenza con le ragazze, di parlarci, sfiorarle, lanciare sorrisi. A volte, le prendevo per mano con la scusa di un attacco in coppia, o mi fermavo accanto a loro se inciampavano, e tentavo di soccorrerle come facevano i veri eroi, battendomi col nemico. Mi sentivo forte, audace, e una volta una ragazza – si chiamava Patrizia – mi baciò dietro una duna. Fu un momento tagliato fuori dal tempo, impresso a fuoco nella coscienza. Prima ancora che le nostre labbra si staccassero, ero già innamorato di lei; poi però non volle dar seguito a quel bacio segreto, così scoprii l’amore e l’abbandono nello stesso istante. Vedi che fortuna.

Mi domando se quelle prime infatuazioni, per Luna e per Patrizia, non abbiano condizionato tutto il resto. Quanto ho sognato, e quanto vissuto davvero, nei rapporti seguenti? Non so; mi sono innamorato diverse volte, ma per breve tempo. E dopo l’ultima delusione, ho deciso di lasciare l’Italia. O forse non è stato per quello, forse l’ho sempre voluto. Anche inscatolato in un aereo, era pur sempre un decollo, un levarsi da terra. Ho sempre sognato di volare. A tre anni, saltavo in giardino con tutte le mie forze, cercando di raggiungere gli uccelli sui rami (questo me l’hanno raccontato, io non lo ricordo). A sette, con un mantello rosso ricavato da un accappatoio, e una grande S incollata sul pigiamino azzurro, usavo le molle del materasso come trampolino. A sedici, mano nella mano con Gwen (la mia fidanzata americana, fu l’estate più bella), fissavo il cielo notturno e immaginavo di portarla in alto, fra le stelle, a scivolare sugli anelli di Saturno e mostrarle compiaciuto l’esplosione di una supernova. Desideravo una vita colma di stupore. Era troppo?

 

Vorrebbe poter ridisegnare la sua vita. Letteralmente. Sarebbe stato un ottimo fumettista; non per hobby o per passione, come volevano i suoi genitori, ma come percorso di vita, espressione autentica. Si è sempre ripetuto che, se quella fosse stata la sua vocazione, non l’avrebbe abbandonata così facilmente. Ma forse si è solo usato un’enorme violenza. Ha voltato le spalle a una parte di sé, a quello sguardo che lo teneva inchiodato alla forma delle nuvole, o alle traiettorie di una mosca in un raggio di sole. Ora gli è chiaro perché, fra tante città in cui trasferirsi, abbia scelto proprio New York, e fra tante offerte di lavoro, proprio l’ufficio più alto, con vista sulla baia. E sopra ogni cosa, capisce la malinconia senza nome che lo stringeva ogni volta che allungava gli occhi verso l’orizzonte. Una malinconia che sapeva di radici penzolanti, scelte quotidiane, piccole derive verso la realtà. In un processo di selezione inconsapevole, come la fine di un’estate, ci si sveglia una mattina che si è cresciuti. Ed è troppo tardi.

L’odore del fumo si è fatto insopportabile. Non lo sorprende più aver ritrovato proprio ora quei ricordi d’infanzia; semmai, lo amareggia la loro futilità, il fatto che le grandi comprensioni arrivino sempre quando non c’è rimedio. Ma va bene lo stesso: non si sente pentito, anzi, piuttosto eccitato come un bambino davanti a un giocattolo che credeva smarrito. Lo diverte pensare che, dopo tanti anni spesi a studiare, a lavorare, a realizzare, la parte più importante della sua vita rimangano i sogni infantili, le lotte su una spiaggia, la musica incalzante di un cartone animato. Vorrebbe condividere quella scoperta con il mondo, ma il mondo ha ben altro di cui occuparsi.

Ormai anche le grida si sono diradate, per lasciare spazio alle preghiere, ai pianti, al silenzio. Comincia a sentire il crepitio delle fiamme dietro la porta, e il subdolo strisciare sotto il pavimento. I muri si sono fatti gonfi e incandescenti. È questione di minuti, ormai. Alcuni uffici sono già crollati, ne ha sentito gli schianti. Il grattacielo si contorce, sibila e geme come un serpente afferrato al collo. E il bello è che non sa neppure cosa sia successo. Qualcuno ha parlato di un aereo, un aereo di linea, pieno – suppone – di gente altrettanto incredula ai finestrini. È un’idea talmente assurda che dev’essere vera. Non che abbia molta importanza. Il fiume Hudson continua a portare tranquillo le sue acque diluite verso Ellis Island, dove un tempo sbarcavano i suoi antenati, e verso Liberty Island, con quella torcia innalzata come il Medusa quando urlava “con l’aiuto del sole vincerò!”. Dov’erano quella mattina i suoi eroi? Se c’era un momento in cui avrebbero dovuto intervenire, era quello. Ha fatto il possibile: si è trovato nel mezzo di un’autentica emergenza che avrebbe richiesto l’intervento di un robot, di un supereroe, ma niente. Non si è visto nessuno. Forse erano alla festa di compleanno di qualche bambino. Sorride.

I suoi pensieri sono ormai sconnessi, intossicati, ma si sente integro e leggero come mai prima d’ora. Non vede lo sfacelo intorno a sé, ha ritrovato l’occhio magico, lo sguardo che trasforma la realtà. Nuvole capricciose migrano verso est, mentre molti suoi amici bruciano tra le fiamme delle scale. Non li seguirà. Non fa per lui, carbonizzarsi per avidità di vita.

Gli piace sentire il soffio dalle vetrate infrante, che dirada almeno un poco l’odore acre del fumo. È una voce familiare, rassicurante; lo riempie e lo solleva come i colombi celesti di Magritte. Perfino i muri sembrano trasparenti, carichi di cielo. Il suo occhio trasforma, e si trasforma. Si trasforma in un razzo missile, con circuiti di mille valvole…

Sente la musica pervaderlo come un tempo, ritmata ed esaltante. Ha di nuovo tre anni, e sei, e sedici. Si alza ipnotizzato dalla poltrona. Dietro di lui, la porta dell’ufficio comincia a deformarsi, la maniglia si è già sciolta. Davanti a lui, una brezza fresca, e la vertigine dell’orizzonte. In fondo, nessuna scelta.

Tra le stelle sprinta e va…

Solo un sorriso. E la folle sensazione della cornice di alluminio che oltrepassa le sue spalle.

« Goldraake!!» urla spiegando le braccia. Sente l’antica energia crepitargli intorno, avvolgerlo in un bozzolo di luce. Un salto non è che un salto. Un salto è molto più che un salto. Un salto non sai mai cos’è, finché non hai saltato.

Prima che la sua mente si spenga nel vuoto, trova ancora la forza di allargare il sorriso.

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1 commento »

  1. Cavoli, mi hai spiazzato. Avrei voluto iniziare questo mio commento, durante la prima parte del racconto, con una citazione “colta” di un pezzo dei Pooh: “Che malinconia”. Le battaglie, i supereroi, i fumetti (Collegamento temerario quello tra “Cino e Franco” e i Manga), il primo bacio, la sabbia nera (vengo da un posto da sabbia vulcanica)! Poi… poi la maledetta realtà, quella che non ti aspetti o vorresti che mai entrasse nel tuo universo. Costruito bene, forse un po’ lungo (e un po’ destabilizzante il passaggio dalla prima alla terza persona che, parere del tutto mio, non amo molto) ma chissenefrega. Bravo!

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