Premio Racconti nella Rete 2015 “23” di Navid Carucci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015“Pazzo”, l’avevano chiamato. I più gentili, originale o bizzarro. Ma intendevano pazzo. Qualcuno – pochi, tristemente pochi – parlava di genio.
Tutto per le case, naturalmente. La definivano un’ossessione, un’ostentazione priva di gusto. Si era perfino scomodato il termine kitsch, autentica condanna dell’alta società. Molte teste importanti avevano compiuto l’oscillazione verticale simile al calare del martello di un giudice. Pochi gesti di tale semplicità producono effetti rovinosi quanto l’annuire dei potenti. La sentenza era emessa.
Eppure, che aveva fatto? Si era costruito qualche casa – tante, d’accordo, ma meno di gran parte dei suoi conoscenti – e le aveva volute… come dire, particolari. Riconoscibili. Sue, ecco, le aveva volute sue. E sue significava, per uno che viaggiava spesso come lui, non doversi confrontare ogni mattina con un ambiente diverso, cercare al buio la strada del soggiorno, ricordarsi dove si trovano i bicchieri, dove il bourbon, e dove il seltz. È difficile memorizzare ogni pianta, cento stanze, mille armadi. Ogni bagno diverso, uno con la doccia troppo calda, l’altro troppo fredda, un ripostiglio ha l’interruttore delle luci in alto, nascosto da una mensola, un altro invece in terra, a pulsantiera. Le conosceva, le ville dei suoi amici: non ci si ritrovavano mai, solo la servitù sembrava a proprio agio. Lui non voleva far quella fine, era troppo vecchio; e lo ripugnava l’idea di dipendere da un servitore in casa propria. Così aveva scovato quell’idea, l’uovo di Colombo. Per sentirsi a casa – sempre a casa propria – bastava esportarla. Niente di più semplice. Nelle località in cui più spesso lo conducevano gli affari o il piacere, si era fatto costruire una replica esatta del suo villino, con il giardino tondo e la fontana, le tre stanze per gli ospiti, il saloncino con la televisione, e la bella cucina in muratura. La cucina in cui era cresciuto, dove ogni cosa aveva il suo posto e sapeva muoversi con la grazia di un ballerino. Quella era casa sua. Ovunque, casa sua. Che colpa aveva, se come tanti altri imprenditori intratteneva rapporti con mezzo mondo? Erano forse troppe, 23 case uguali? Niente affatto, rispondeva indignato. Anzi, erano meno invasive di tanti mostri edilizi di certi suoi “amici”. Non era il tipo da sprechi, da lusso, da camerieri in livrea. Le sue poche stanzette e il giardino con l’arco di rose gli bastavano per essere felice. Ogni angolo gli ricordava sua madre, poi sua moglie. Era come vivere fuori dal tempo. E per uno che di tempo ne aveva sempre troppo poco, poteva sembrare un miracolo. Che tristezza, pensava, tutti quei risvegli in albergo, stanze simili ma sempre diverse, aliene, ostili. Oppure in case prive di anima, prive di vita. Lui, ovunque si svegliasse, era a casa propria, circondato dalle forme e dagli odori familiari. E poi c’era Alcor. A pensarci bene, forse era proprio Alcor il pomo della discordia, l’oggetto della disapprovazione collettiva. E perché mai? Non bastavano quattro mura a fare una casa: vi contribuivano presenze, ricordi, affetti. E per lui, dalla scomparsa di sua moglie, esisteva solo Alcor. Che c’era di strano, se lo desiderava sempre accanto? Avrebbe potuto portarlo in viaggio, certo, ma il poverino soffriva l’aereo. E poi, sballottare tanto un cane non è segno di affetto, semmai di crudeltà. E lui non era crudele, bizzarro forse, ma crudele proprio non gli si poteva dire. Alcor era un chihuahua, di taglia poco più grande della sua razza, fulvo, con la coda dritta e gli occhi un po’ assonnati. Lui lo amava con tutto il cuore. Li amava tutti, con tutto il cuore. Avevano le loro piccole differenze, certo, ce n’era qualcuno più pigro, qualcuno girava cercandosi la coda, qualcuno più aggressivo mordeva gli ospiti inattesi. Ma in sostanza erano sempre Alcor, il carattere di un cane si plasma sul padrone, e lui li amava e li vezzeggiava tutti allo stesso modo. Alcor – tutti e 23 gli Alcor – lo ricambiavano con l’assortimento di moine che la natura canina metteva a loro disposizione. Purtroppo, qualcuno lo vedeva meno di altri – a Kinshasa non capitava con la stessa frequenza che a Londra – ma cercava tuttavia di essere un padre presente. Perché li considerava dei figli, non animali domestici. La sua povera moglie era sterile; nell’ultimo anno di vita non aveva avuto che quel cagnolino su cui riversare il suo affetto, il suo bisogno di vita, di futuro. Forse era stata colpa sua: avrebbe potuto donarle il proprio, di futuro. Ma ormai era troppo tardi. Ciò che le doveva adesso era fedeltà, fedeltà e memoria. Alcor era parte di quel patto, e le chiacchiere della gente – la gente che non capiva – non gli avrebbero fatto cambiare idea.
Oggi era a Santiago. Veniva sempre con piacere in Sud America, bel clima, gente allegra, era un po’ che mancava. Ultimamente gli affari lo conducevano soprattutto a New York: i drammatici avvenimenti di quelle parti richiedevano una presenza più assidua che in passato. C’erano decisioni da prendere, un quadro spezzato da ricostruire. Ma ora si godeva il panorama delle Ande dalla finestra del salone, e non pensava alle tragedie della sua vita. La telefonata che attendeva non sarebbe arrivata ancora per qualche ora, aveva tutto il tempo di starsene affacciato. Alcor grattava alla porta, lo lasciò fare per qualche secondo, prima di decidersi a chiamarlo. L’Alcor di Santiago era un po’ petulante, con quell’aria patetica dei mendicanti di strada. Non gli stava molto simpatico, ma faticava ad ammetterlo a se stesso. Lo accolse con freddezza, appena una grattata distratta sulla testa. Quando lui cercò di saltargli in grembo, lo allontanò con un gesto di stizza. Il cane andò ad acciambellarsi in un angolo della sua cesta, la sua cesta uguale in tutto il mondo, di legno di vimini col cuscino blu a fiori rossi, ormai liso e consunto per il troppo uso. Ma a lui piaceva così.
Santiago si profilava nella valle ai suoi piedi, una striscia di cemento avvolta nello smog. Non era poi così bella. Le colline, le colline e le Ande, erano magiche. Dietro quei monti erano sorte e scomparse civiltà che forse avevano incontrato gli alieni. Anche a lui sarebbe piaciuto scoprire altri mondi, conoscere esseri di nuove galassie, di nuovo spirito. Gli “amici” lo avrebbero preso in giro, avrebbero detto che andava pure su Marte a costruirsi una casa, e a portarci il suo cane; gli stava antipatico a tutti, Alcor, dicevano che era piccolo e fastidioso, e adesso avrebbero detto pure che era marziano. Facessero pure, che potevano saperne loro del suo cuore, del suo anelito verso altri orizzonti? Aveva sempre viaggiato, non poteva farne a meno. Il suo unico rammarico era non essere nato in altre epoche, in quella dei vichinghi, o di Vasco de Gama, Tasman, Colombo… sarebbe stato un grande esploratore, un temerario, uno che alle tempeste avrebbe riso in faccia e tirato dritto. Ah, quante terre avrebbe scoperto! Se solo gli alieni avessero deciso di tornare da quelle parti… allungò lo sguardo all’orizzonte per scorgere la sagoma oblunga di un disco volante, ma la caligine gli offuscava la vista. Santiago non gli pareva più così attraente. Ora ricordava perché non ci venisse spesso. E poi, quel cane era una piaga, sempre a lagnarsi, a chiedere cibo. Anche adesso si era alzato dalla cesta e tornava alla carica.
« E basta! » gli urlò, facendogli abbassare le orecchie. Il gesto di sottomissione lo mandò in furia ancora di più. « Descucha! Adelante, descucha! » E sottolineò il comando con una pedata, più una spinta che un calcio vero e proprio, ma Alcor sembrò soffrirne nell’orgoglio.
Quando arrivava quella dannata telefonata? Non ne poteva già più di Santiago. Sull’orologio da polso aveva l’ora italiana. Se si sbrigava, ce la faceva per cena, e domattina si sarebbe risvegliato a Roma, o a Firenze. Quella sì che era aria, vita, respiro. Si sedette sul divano, masticando pensieri.
Il giorno dopo era a Roma, la cupola di S. Pietro svettava imponente dalla finestra. Quante volte aveva visto affacciarsi il Papa quasi – gli sembrava – a portata di mano! Eppure il Papa non lo aveva mai incontrato. Non era capitata l’occasione, certo. Ma era un cruccio che non riusciva a togliersi, e ormai aveva deciso di coronare prima o poi quel desiderio. E non un Papa qualsiasi, voleva questo, Giovanni Paolo II, così forte e sventurato, sopravvissuto a un colpo di pistola per divenire un fragile e tremante involucro di potenze celesti. Forse un suo gesto lo avrebbe risvegliato a Dio e all’uomo; da quando era morta sua moglie, non credeva più nell’uno o nell’altro. Aveva ridotto i suoi contatti al minimo. Di tanto in tanto, dei valletti incaricati del pranzo o delle medicine venivano ad accudirlo, ma erano presenze sporadiche nella sua vita; Alcor era fra i pochi esseri viventi con i quali dividesse un rapporto meno che occasionale. La gente non gli piaceva. Era meschina, corrotta, insensibile. Preferiva condurre i suoi affari per telefono. Ogni casa custodiva un fascicolo con gli investimenti del luogo, il suo elenco di contatti, e un’agenda di impegni e di scadenze. Così, con l’efficienza che lo aveva sempre contraddistinto, riduceva al minimo le relazioni personali. Gli andava bene così. Ma il Papa, il Papa lo avrebbe conosciuto volentieri. Non era mica come gli altri. Lui aveva fissato il dolore negli occhi. Per questo lo rispettava. Gli si leggeva in faccia che era un vecchio amico del dolore. Questo li rendeva in qualche modo fratelli.
Mosca. Cosa ci era venuto a fare? Scrutando la Piazza Rossa e le mura del Cremlino, non gli riusciva di ricordare. Energia elettrica, forse? O petrolio, o gas metano? Non trovava il fascicolo in casa. Era intollerabile. Qualcuno doveva essere entrato in sua assenza, doveva aver manomesso l’abitazione. Alcor, mio Dio, forse hanno fatto del male ad Alcor. Dov’è, dov’è?
« Alcor, Alcor! Idi suda, Alcor! »
Il cagnolino assonnato si scosse da una sedia, stirò per bene le zampe, e senza alcuna fretta si mise a sedere fissandolo. Non mostrava alcuna intenzione di scendere.
« Meno male, stai bene! Ero così preoccupato! Tutto a posto? Perché mi guardi a quel modo? Ah già, che idiota, ti sto parlando in italiano! Vso karasciò? Mi dispiace di non parlare bene ruskij, lo sai. Ma tu mi capisci lo stesso, vero? »
Ma che ci sono venuto a fare, a Mosca? La vecchiaia comincia a diventare un problema. Beh, se qualcuno mi sta aspettando, si farà vivo senz’altro. Che bella piazza, però. Lì è dove è atterrato quell’idiota col deltaplano. O era un aereo da turismo? Non ricordo più, è passato tanto tempo. Ma lo spettacolo me lo ricordo. Non ho mai visto l’Armata Rossa così agitata, non so se più per il ridicolo o per l’indignazione.
Spero che i miei affari qui non mi trattengano troppo. Domani devo essere a New York. Certo, se sapessi di quali affari si tratta, sarebbe d’aiuto. Ma stasera parto comunque per New York. I russi sono gente indolente, non si è mai visto un affare che non possa aspettare.
L’aria era rarefatta, appesa alle nuvole chiare. Una giornata di fili radiosi e bambini festanti, ideale per passeggiare, stringersi insieme e rinnovare la fiducia nel futuro. Perfino lui se ne sentiva contagiato.
L’ottimismo non passava. Si sentiva tanto bene che si era concesso una piccola vacanza. La sua casa preferita, quella di San Francisco, con vista sulla baia, lo aveva accolto per riposare. Meglio San Francisco di Honolulu, non aveva voglia di vedere il mare, le palme, la gente sulla spiaggia. L’austero panorama di quell’acqua gelida, dalle correnti implacabili che battevano fin sulla base rocciosa di Alcatraz, un rudere spettrale ma di grande carisma, proprio come lui, lo faceva sentire tutt’uno con il mondo. E il Golden Gate, con le sue immense arcate sospese, rosse come la passione, oscillanti come il coraggio, non era forse lì per lui, per acuire le sue riflessioni, per placare la sua ambascia? San Francisco era una bomboniera che schiudeva ogni volta un dolce diverso. E poi c’era Alcor, il suo Alcor prediletto, ancor più dell’originale (ma qual era poi l’originale? Quello di Firenze? No, no, l’avevano preso prima. Eppure, per qualche tempo si erano trasferiti a San Francisco, il clima del Nord California, per quanto umido, sembrava far bene alla salute di sua moglie; forse era proprio questo l’Alcor originale, anzi ne era certo, ci avrebbe messo la mano sul fuoco). La bestiola se ne dormiva nel cesto come se nulla fosse, ignara della dolce malinconia che la sua sola presenza gli metteva addosso.
« Alcor, sweetie, come here to your dad.»
Al suono del suo nome il cane tese le orecchie, senza sollevare il muso né aprire gli occhi. Lui andò ad accarezzarlo sul ventre, facendolo distendere a pancia in alto, non senza una certa aria di forzata condiscendenza. Certe volte era dura, essere un cane.
San Francisco con le sue case basse e colorate, di stampo vittoriano, e i suoi saliscendi solcati dal tram aperto e sempre affollato, era il suo rifugio, forse l’unico luogo in cui non lo seguissero gli affari. E non era stato facile tenerli lontani. Ma ora si godeva il meritato riposo, e lasciava che il vento fresco dell’oceano gli passasse sul viso. Qualche ora di questo vento, del canto dei gabbiani, del lontano verso dei leoni marini sul molo 39, era quello che ci voleva. Ad ogni minuto sentiva ritemprarsi le forze, ricaricarsi per altre giornate di affannoso lavoro. Certe volte era dura, essere un magnate della finanza.
Alcor riposava beato fra le sue gambe. Non gli dispiaceva il suo cesto, ma quelle rare volte che gli permetteva di salire sul letto o sul divano, e accoccolarsi dopo un paio di giri su se stesso per sondare la morbidezza del giaciglio, emetteva un tale sospiro di placida beatitudine che lo ripagava di tutte le scocciature e dei peli che spandeva. Ogni tanto faceva la pipì in casa. Non tutti, certo. Di solito quello di Praga e quello di Dubai. Anche quello di Gerusalemme, gli sembrava di ricordare, il che era particolarmente sgradevole, data la splendida cornice dell’esterno. Però il suo calore, il suo affetto, valevano pure qualche seccatura. Lo carezzò contropelo e gli grattò il dorso delle orecchie. Lui scosse la testa. Era meraviglioso starsene lì a poltrire qualche minuto, mentre fuori dalla finestra il cielo di Parigi aveva quel tono plumbeo e insieme vivace che doveva aver nutrito la malinconia di Napoleone, e ispirato la luce di Monet. Parigi era il suo cuore gonfio e desideroso d’amore. Ogni volta che ci tornava, al ricordo delle stagioni trascorse con sua moglie, lo coglieva una solitudine dolceamara, popolata di tenerezze che lo facevano sorridere pur nel dolore dell’assenza. Parigi era così, risvegliava gioia e sofferenza; erano le sue due anime, lo sarebbero sempre state.
I delicati tralicci della Tour Eiffel coprivano nella distanza l’elegante sagoma del Louvre. Era da un pezzo che non visitava il museo. Gli sarebbe tanto piaciuto essere un pittore. O almeno uno scrittore. Da piccolo aveva talento, gliel’avevano riconosciuto in molti. Poi cos’era successo? A un certo punto, le priorità si erano capovolte. Forse era giunto il momento di capovolgerle ancora. Non era mica troppo tardi. Se comprava dei colori, una tela, e si applicava tutti i giorni… ma no, non aveva tempo, più avanti, forse più avanti. Avrebbe dipinto Alcor. Sembrava abbastanza semplice, con quel corpo regolare e il musetto appena squadrato. Ma non oggi. Oggi voleva scrivere. Parigi gli ispirava qualcosa, forse una poesia. Gli affari potevano aspettare. Non trovò carta e penna, e finì per dimenticare di cosa volesse scrivere. E se fosse stato importante? Se fosse stato vitale, un sogno a occhi aperti, uno squarcio di verità illuminante che ora aveva perduto per sempre? È mai possibile dimenticare qualcosa di così prezioso? Era infuriato con se stesso, e cercava in ogni modo di ripescare il pensiero. Era sicuro che la sua esistenza, il suo futuro dipendessero da quell’intuizione improvvisa, così insostenibile che la sua mente l’aveva rimossa, cancellata, rimessa al sicuro. Se non l’avesse ritrovata… poi gli sovvenne. Era un’idea sulle nuvole, sulle forme che assumevano, sulla soffice e mutevole sostanza alla quale avrebbe voluto assomigliare. Niente di così determinante, però un bel pensiero, piacevole da assaporare. Un domani le avrebbe dipinte. Era stanco di fare affari, pensare al lavoro, accumulare denaro, favori, potere. Non era tagliato per quella vita, si sentiva ingabbiato. Guardava Parigi, e avrebbe voluto essere un clochard. Beati loro, felici e vagabondi. Doveva pur esserci un modo per liberarsi di quel fardello. Era stanco. Se fosse stato un pittore, ora si sarebbe trovato sulla rive gauche, magari con una graziosa francesina al fianco, a pregare un gabbiano di rimanere immobile.
Sentiva l’odore della Senna nelle narici, era già lì, alla deriva. Ma non poteva. La responsabilità. Il dovere. Gli impegni. Se avesse potuto, avrebbe gettato tutto al vento. Per farne cosa? Nuovi incontri, nuove possibilità. Ma poi era questo il bello della vita, il fatto che offriva sempre delle sorprese. Strano pensiero, per uno che viveva in una casa identica in ogni parte del mondo, e da anni ormai non frequentava il consorzio umano. Ma a lui non dispiacevano le contraddizioni. Anche dentro la sua casa, perfino nel suo intimo universo popolato di chihuahua tutti uguali, c’era spazio per l’imprevisto, per l’inatteso. Altrimenti non avrebbe sopportato di vivere. Per esempio, oggi non doveva trovarsi a Parigi. Doveva andare a New York. La borsa aveva subito un tracollo, e lui doveva vegliare sui propri investimenti. E invece si era risvegliato qui. Ogni tanto capitava; la sera era spesso troppo stanco per rendersi bene conto delle cose. Probabilmente aveva dato le istruzioni sbagliate al valletto, o al pilota. Di solito dormiva prima, durante e dopo il viaggio. Prendeva delle pillole. Se c’era un disguido, se ne accorgeva solo al mattino. Comunque ecco qui, un imprevisto bell’e buono, forse qualche milione di dollari andati in fumo, però era felice lo stesso. Il suo petit chien accoccolato sulle ginocchia, un soffio di poesia nel cuore, che altro poteva chiedere? Domani, domani avrebbe ripreso a lavorare. Ma oggi… non era soltanto se stesso, era se stesso a Parigi. E chiunque ci sia stato, poteva capire il suo stato d’animo. Se solo avesse saputo dipingere! Ma presto avrebbe ripreso, era stanco del lavoro. Attendeva un’ispirazione, un segno, qualcosa che lo instradasse nel nuovo cammino. Sapeva che da qualche parte là fuori era in attesa il suo destino, il suo grande destino, ben più fecondo e sublime di quella carriera e quei quattro denari che aveva raccolto fino ad allora. Un Destino con la maiuscola, il destino di un artista, di un condottiero. Non aveva fretta, purché si sbrigasse. Non è che la vita durasse in eterno; e buona parte della sua era già trascorsa.
Domani, domani a New York, poi si vedrà. Se mi gira nel verso giusto, mollo tutto e mi metto a dipingere. Magari mi risposo pure. È troppo tempo che tengo il lutto, che mi nego alle donne. Un uomo con la mia influenza e il mio bell’aspetto può aspirare a stuoli di fanciulle. Mica ci devo fare niente. Però mi potrebbero stare vicine, aiutarmi nelle cose di tutti i giorni. Magari una moglie per casa, che mi tenga Alcor quando non ci sono. Ma no, questo è troppo, non le trovo mica 23 mogli uguali, poi dovrei ricordarmi i nomi di tutte, e cosa fanno, gli anniversari, e cosa ci siamo detti l’ultima volta, una donna non se ne sta mica zitta al suo posto. No no, meglio di no, è troppo complicato. Meglio così. Però mi piacerebbe un bel seno di ragazza. Vabbé, domani. Domani ci penso.
Un risveglio piuttosto strano, domani. Fuori dalla finestra, nitida contro il cielo ancora un poco ombroso, si stagliava la stessa Tour Eiffel. Eppure era certo di essere partito, di essersi trasferito a New York. Aveva degli affari urgenti, era stato chiarissimo col suo valletto. Addirittura, quest’oggi doveva incontrare il Presidente degli Stati Uniti! C’erano questioni di sicurezza internazionale da discutere, i suoi contatti in Africa e in Medio Oriente lo avevano avvisato di certe trame di cui doveva mettere a parte il governo americano. Cos’era successo? Cosa poteva mai essere successo? Mille possibili spiegazioni – dal guasto tecnico al complotto – turbinavano alla rinfusa nella sua mente annebbiata, ma la memoria non l’aiutava. Alcor, indubbiamente l’Alcor francese, visto che al comando “Arret-toi!!” aveva smesso di guaire, sembrava disinteressarsi del mistero. Passarono dei minuti, cinque, dieci, lenti minuti di agonia. Colto da un senso di panico allo stomaco, come un vuoto, una nausea che si andava espandendo per tutto il corpo, si avvicinò alla finestra. Qualcosa nel fondo della sua mente tremava. Era successo l’irreparabile. Prima o poi doveva accadere, se lo aspettava da tempo. Era diventato prigioniero. Aprì la finestra, e sporse una mano all’esterno, fino a toccare la parete di cartone. La nausea peggiorò. Appoggiando le spalle al vetro, rivolse gli occhi lucidi verso Alcor, un’espressione amara sulle labbra. Il cane lo fissò a sua volta per qualche secondo, poi passandosi la lingua sul muso ritornò a dormire, avvolgendo la testa fra le zampe. Erano appena le nove. Domani, domani…
« … pronto? »
« Aldo? »
« Chi parla? »
« Sono Nunzio.»
« Ah, ciao bello. Dimmi tutto.»
« Il paziente della 23, non toccava a te oggi cambiargli il panorama? »
« Beh, sì… ma non li hai visti i telegiornali? C’era lo sciopero generale, me lo potevo mica perdere. Vedessi che cortei. Glielo cambio domani lo sfondo, lo mando a Vienna col sorcio spelato e via, vedrai che non se ne accorge nemmeno.»
« No, hai ragione, non se ne accorgerà.»
« Ma perché? È successo qualcosa? »
« … si è impiccato. Verso le dieci, col guinzaglio del chihuahua.»
« … ah.»
« … »
« … io glielo cambio lo stesso, lo sfondo. Non vorrei che s’impiccasse pure il sorcio.»
Se volevi stupirmi ci sei riuscito… Finale realmente sorprendente e assolutamente inatteso. La follia del protagonista è ben resa… Complimenti!Ti aspetto alla mia “La Torretta di Guardia”
Grazie… in effetti, il finale più o meno spiazzante accomuna tutti e tre i racconti che ho inviato, ed è una cosa curiosa perché del tutto casuale (rispetto ad altri che ho scritto).
Andrò senz’altro a leggere il tuo racconto.