Premio Racconti nella Rete 2015 “Cuba” di Navid Carucci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015E tre.
Era la terza volta che scorgeva l’aereo, opaco contro il sole, quella settimana. Ne aveva visti altri, di aerei, alcuni anche da vicino, all’aeroporto dell’Avana. Ma quello era diverso. Lo chiamava l’àguila de hierro, l’aquila di ferro. Era snello, nero, elegante, e volava così alto che quasi non lo vedevi. Il suo passaggio, per tre volte, era di buon auspicio. Tre era il numero fortunato di Emilio.
Riscese al piano dal promontorio dove ogni giorno si arrampicava per scrutare il mare. La nave non si vedeva ancora, ma non doveva scoraggiarsi. L’attendevano al più presto. Come ogni volta, scendendo fra i palmizi, levò una preghiera alla Santa Vergine. Il suo lider maximo non avrebbe approvato, e Dio sapeva se lui non era un buon cubano e socialista, ma in quel momento aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile.
L’estate del ’62 era stata eccezionalmente arida. Poche giornate di pioggia avevano rinfrescato il terreno, e nutrito le piantagioni. I venditori di bibite avevano raddoppiato i guadagni, ma per i piccoli proprietari terrieri (ed Emilio era fra questi) significava la calamità. E poi, Emilio era superstizioso. L’ultima estate così secca la ricordava bene, quella del ’58. Allora non se n’era preoccupato. Coltivava cotone in un latifondo, e il cotone ha bisogno di poca acqua. E comunque, lui e sua moglie erano troppo impegnati a lustrarsi gli occhi con la piccola Maria Sole, di appena un anno, che cominciava a esplorare il mondo e a balbettare le prime gorgoglianti parole. Il sole, negando il maltempo, era sembrato unirsi alla loro gioia. Ma poi l’estate era finita, ed era venuto settembre, settembre con le sue piogge, sempre più violente, fino a un tifone d’ottobre che durò quattro giorni e cinque notti. Metà delle persone che conosceva nelle campagne erano morte o avevano perso qualcuno nelle alluvioni. Sua moglie venne schiacciata da una trave la terza notte, mentre senza avvertirlo era uscita nella burrasca per cercare un’altra coperta per la bambina. Lui dormiva. Si rese conto dell’accaduto solo il giorno dopo, affacciandosi dal rifugio e vedendo la rimessa crollata.
Quella fu l’estate del ’58, un’estate calda e secca proprio come questa. Emilio si stropicciò gli occhi stanchi e rugosi, asciugando lacrime che non c’erano. La pelle scura, segnata, cotta, che Maria Sole amava tanto tendere e tirare, aveva preso un tono giallastro, di cuoio vecchio. Erano notti che non dormiva per vegliare la piccola. L’estate era stata troppo calda, gli insetti avevano invaso l’isola. Tra i Caraibi e il centro America, Cuba era una stazione di passaggio per ogni genere di sciame. Qualcosa doveva aver punto Maria Sole; da quasi una settimana lottava contro una febbre feroce e persistente. Febbre gialla, gli sembrava di aver sentito dal dottore. Ma che ne sapevano i dottori? Emilio le aveva dato da masticare tabacco, come sua madre faceva con lui per accelerare il decorso. Ma il dottore gli aveva dato dell’irresponsabile. Da allora, non sapeva più che fare. Il dottore diceva che non c’erano medicine. Le farmacie in città erano vuote. Un cargo di medicinali era in viaggio dalla Russia, lo aspettavano da un giorno all’altro. Emilio sapeva a malapena contare. Non aveva un calendario. Aveva chiesto a un vicino di tenere il conto, ma non lo vedeva da due giorni. Saliva ogni mattina sul promontorio da cui si scorgeva un ampio braccio di mare, fin quasi alla baia dell’Avana; aguzzava gli occhi buoni (eh, quelli sì che erano una risorsa!), poi tornava pregando alla sua casupola.
Maria Sole gemeva, si voltava, a volte delirava. Non riusciva più ad orinare da sola. Doveva portarla fino alla baracca del bagno a intervalli regolari, oppure se la faceva addosso. La cosa che lo sconvolgeva di più era il contrasto fra la pelle infuocata e il sudore gelido. Quella contraddizione non era naturale, era demoniaca, come se il corpo combattesse se stesso. Pelle calda, acqua calda, questo era sano e comprensibile. La mia bambina, la mia bambina, ripeteva senza pace. Non la mia bambina, è così piccola, deve andare ancora a scuola, è così vispa e intelligente, lei avrà una vita felice, non come il suo papà, ti prego prendi me piuttosto, quest’isola è piena di contadini, magari l’alleverà Ramirez che è una brava persona e non se la passa neanche male, con lui starà bene, presto mi dimenticherà, ti prego se è febbre gialla la mia faccia è già un po’ gialla, la voglio io questa febbre, il suo corpicino è così fragile, sta bollendo, ho paura che si scioglierà e questa nave non arriva, quando doveva arrivare? Il dottore ha detto il 26, ma adesso quanti ne abbiamo? Il sole è già sorto e tramontato più volte, me lo ricordo bene, che giorno era quando l’ha visitata l’ultima volta, ma perché questa barca maledetta non si fa vedere? Domani vado in città e parlo col dottore.
Ma il dottore non era nel suo studio, nessuno sapeva dove fosse. La gente lo guardava con aria strana, patetica. Povero contadino, dovevano pensare. Topi di città, pensava lui. E poi, non erano forse i contadini il motore della rivoluzione, la forza del paese? Che avevano da fissarlo con quell’aria stralunata, quei… avrebbe voluto dire borghesi, ma non conosceva la parola. La sostituì con un’imprecazione, riprendendo sul suo carro la via di casa. Non aveva un’automobile. Ben pochi, nelle campagne e sulle colline, ne avevano una. Arrancò fin quasi al tramonto.
Passò un altro giorno, altre lunghe ore di mare azzurro e piatto, di aria tiepida e poco umida, e nessuna nave all’orizzonte. Gli sembrava che ottobre stesse per finire, da certi segni nella zona, rumori familiari, gente che andava e veniva dalla città. Non aveva pensato di chieder loro la data. Se ne rimproverò tutta la notte. L’alba lo sottrasse a un sonno tardivo e convulso.
Maria Sole peggiorava. Cominciava non riconoscerlo più. Due volte lo aveva chiamato “Pedro”. Non sapeva neppure chi fosse, Pedro. Uno dei garzoni di Ramirez? Un bracciante venuto ad aiutarlo per il raccolto? Il figlio di una qualche famiglia di cui non sapeva nulla? Di tra il dolore e la preoccupazione per le sorti della figlia, si insinuò anche una certa gelosia per quel nome senza volto. Ma era una voce appena udibile, fra i lamenti sempre più flebili e stanchi della sua bambina. Ormai passava quasi tutto il tempo a dormire. Non riusciva a mangiare. Di tanto in tanto, vomitava liquido nero. Emilio non sapeva che fare. Cercava di tenerla sveglia; le raccontava delle storie, le parlava della mamma, le asciugava la fronte con una pezza bagnata e meditava di farle masticare tabacco. Ma lei sputava ogni cosa, era così magra e luccicante che sembrava un pesciolino. Emilio, guardandola e pensando al mare, scoppiò infine a piangere. Quell’isola era una prigione, non poteva portarla da nessuna parte. Nessun ospedale l’avrebbe accettata; e in ogni caso, anche in città gli ospedali erano senza medicine. Il dottore era stato chiaro. Se quei dannati americani non avessero interrotto i commerci! Ora non dovrebbero dipendere da una lenta e affannosa carretta russa. Ma era così grande l’oceano? A sentire i discorsi della gente, l’Unione Sovietica sembrava dietro l’angolo. Perché ci metteva tanto ad arrivare?
E poi, il dottore non si vedeva. Aveva promesso che sarebbe tornato; anche se non poteva far nulla, era suo dovere controllare la paziente, magari stava meglio, magari doveva essere coperta, o scoperta, magari doveva passare un po’ di tempo in riva al mare: c’erano mille “magari” che era compito del dottore trasformare in ordini o in divieti. Emilio si stracciò la camicia bianca di dosso e si percosse sul petto. Non lo aveva mai fatto. Qualcosa, nel suo cuore, si spezzava lentamente, come un oggetto incollato male che cigola pian piano. Aveva un cupo presentimento. Ma che gli succedeva, alla gente? Stavano tutti rintanati in casa. Neanche il vicino aveva più visto, e sì che gli aveva chiesto di tenere la data! Anche se ci era già stato quella mattina, decise di ritornare sul promontorio.
Mentre si inerpicava attraverso la boscaglia sulle pendici del colle, sentì un rombo violento che si avvicinava, come già due o tre giorni prima, proprio sopra la sua testa, quando aveva creduto che il cielo stesse franando e si era spaventato a morte per Maria Sole, stesa davanti a lui nel dormiveglia. Per un istante eterno, aveva rivissuto il crollo che le aveva portato via la madre. Ma il rombo si era allontanato con un fischio assordante. L’intera capanna aveva tremato. Era la morte che sfiorava la sua casa, aveva pensato, e ringraziato in cuor suo il Signore Iddio per non averla fatta fermare alla sua porta.
Stavolta era all’aperto. Si arrampicò con quanta velocità poteva su un albero di cocco, e per poco non venne sbalzato via dal passaggio a bassa quota di un aereo, non l’aguila de hierro, un altro che non aveva mai visto. Con un urlo meccanico, sfrecciò velocissimo sopra la sua testa, diretto all’entroterra. Emilio corse a perdifiato fin sul promontorio, chiedendosi cosa stesse accadendo. Forse il lider maximo stava male? Quegli aerei, portavano forse medicine?
In cima al promontorio, vide due cose che lo riempirono di meraviglia e di terrore.
La prima: l’aereo che gli era passato sul capo aveva impennato verso l’alto, lo vedeva chiaramente all’orizzonte, che saliva a velocità vertiginosa inseguito da due, no, almeno tre scie bianche. Una delle scie parve carezzare senza peso il puntino ormai minuscolo nell’azzurro. Un lampo di luce costrinse Emilio ad abbassare lo sguardo, e quando riaprì gli occhi c’erano solo fumo e stelle cadenti che scendevano verso il mare. Il rumore dell’esplosione, meno forte di quanto si attendesse, lo raggiunse un attimo dopo.
La seconda: seguendo la traccia dei detriti verso l’acqua, si accorse di un trattino grigio all’orizzonte, e poi di un altro accanto, rossastro. Il cuore rischiò di cedergli per il sollievo e l’entusiasmo. Fece per correre alla sua casa, ma tanto Maria Sole non avrebbe capito. Povera piccola, ormai non sentiva e non parlava più. Aveva gli occhi gonfi come quelli di un camaleonte. Respirava a fatica. Ma se ciò che vedeva era davvero quella nave, presto sarebbe guarita. Rimase di vedetta sul promontorio, deciso a seguire l’avvicinamento dello scafo come qualcuno, secoli prima, aveva osservato Cristo camminare sulle acque del lago di Tiberiade.
Rimase seduto per ore. La macchia rossa non solo non si avvicinò, ma a un certo punto sembrò rimpicciolirsi, e dopo un altro po’ scomparve all’orizzonte. Il puntino grigio non si mosse. Il mare intorno a Emilio rimaneva calmo e sgombro. Altrettanto calmo e sgombro si sentiva lui. Inerte. Dov’era andata la nave dei medicinali (perché era di certo la nave dei medicinali)? Puntava forse a un altro porto, a Santiago, sull’altro lato dell’isola? E per quale motivo? Stavolta, oltre a non sapere che fare, non sapeva neppure che pensare. Non si fidava nemmeno di pregare la Vergine. Si sentiva come se proprio Lei gli avesse teso la salvezza a portata di mano, e poi l’avesse ritirata. Se non ci si poteva fidare dei santi, che cosa rimaneva? Forse aveva ragione il lider maximo.
Tornò a capo basso e inquieto verso la casupola. Maria Sole era morta. La testolina poggiava leggera sul cuscino come se il peso dell’anima, volando via, l’avesse lasciata vuota. Per diversi minuti, Emilio continuò a parlarle. Le raccontava dell’aereo e delle luci, come i fuochi d’artificio il primo maggio. Le parlava delle sere d’estate, di quando lui e la sua mamma andavano a ballare, e di come lei sarebbe diventata una ballerina meravigliosa. Rifiutava di accettare quel corpo silenzioso e ormai asciutto. Le passò una mano sulla fronte, con commossa soddisfazione. Non scottava più come prima, anzi, era fresca. La mia piccola Maria Sole, singhiozzò felice. Si chinò su di lei, le baciò una manina, e quasi le svenne in grembo. Rimase con la testa sul suo ventre immobile per più di un’ora, poi esplose in un pianto irrefrenabile. Tutta la pioggia che non era caduta quell’estate pareva scorrere fra le sue palpebre. La piccola Maria Sole, irrorata d’acqua calda e dolente, non tornò alla vita, anche se l’avrebbe fatto volentieri per quel padre che amava tanto. La sua piccola storia finiva lì, sotto un tetto di palme, all’ombra dei banani, sotto un cielo azzurro e senza nubi.
Anche Emilio sentiva di essere finito lì. La morte, pensò debolmente, non era solo per chi andava, ma anche per chi rimaneva. Con la sua piccina era partito anche lui. Almeno, pensava, il suo spirito le avrebbe tenuto compagnia. E presto, molto presto, si sarebbero ritrovati. Il mondo non aveva più senso.
Non gli restava nemmeno la forza di imprecare. Il dottore si fece vivo dopo tre giorni. Non parve sorpreso alla notizia della morte della bimba. Non ci si poteva far nulla, gli disse. Anche se la nave fosse arrivata, probabilmente sarebbe stato troppo tardi. Ma non era mai arrivata. Gli parlò di certi eventi, di guerre mondiali, cose che Emilio non ascoltò neppure. Teneva lo sguardo rivolto verso l’alto, dove aveva scorto l’àguila de hierro, ovviamente non un buon auspicio come aveva sperato. Da allora in poi, se ne avesse vista una, avrebbe saputo che pensare. Da allora in poi anche l’àguila de hierro, come le estati calde e secche, era latrice di morte.
Dal 22 al 27 ottobre 1962 si è svolta la cosiddetta “crisi di Cuba”. A seguito dell’avvistamento da parte di un aereo-spia americano, il 16 ottobre, di testate nucleari sovietiche su territorio cubano, il presidente Kennedy ha ordinato il blocco navale dell’isola e minacciato l’invasione se i russi non avessero smantellato i missili. Dopo un braccio di ferro che ha portato il mondo sull’orlo dell’olocausto nucleare, l’Unione Sovietica ha accettato di ritirarsi in cambio della salvaguardia di Cuba. John Fitzgerald Kennedy e Nikita Krushev hanno istituito una linea diretta, il “telefono rosso”, per scongiurare il ripetersi di simili crisi.
Entrambi si contendono il merito di aver salvato il mondo.