Premio Racconti nella Rete 2015 “Un giorno sotto al porticato” di Ottavio Mirra
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015‘O cecato tiene il posto all’angolo dove via Toledo si affaccia su Piazza Dante.
Tutte le mattine alle sette è giù in strada, affretta il passo e addenta una pizzetta. Da Poggioreale deve arrivare al punto di raccolta che è in Piazza Garibaldi. E’ lì che stanno gli altri ad aspettare il furgone che ogni giorno li porta al lavoro. Ognuno ha il suo posto sui marciapiedi delle varie strade del centro.
‘O cecato tiene il posto migliore perché sta sotto un porticato e, piove o c’è il sole, lui sta sempre riparato. Quel posto glielo hanno dato dopo anni di marciapiede aperto. Se lo è meritato perché non si è mai tenuto neanche un centesimo, ed ogni sera, quando ritorna il furgone, lui si svuota sempre le tasche.
Ogni posto tiene l’incasso suo. Quelli hanno pratica e i conti li sanno fare, ché se non tornano rischi le gambe.
‘O cecato le tasche le svuota per riconoscenza e per una specie di attaccamento alle regole. Loro lo fanno mangiare e lui, in cambio, fa quello che gli chiedono, che poi non è una gran cosa. Deve stare seduto a terra a fare la parte del cieco, deve riferire se vede in giro cose che non vanno, che so, uno scippo non autorizzato, un movimento sospetto in qualche negozio, carabinieri troppo presenti. Deve stare lì, a testa bassa, con il cartello in petto e il barattolo in mezzo alle gambe. Deve stare lì, e qualunque cosa succede non deve intervenire, iss’ è ‘o cecato. La sera deve solo riferire e svuotarsi le tasche. Quello che gli danno è quanto gli spetta, e a lui va bene così.
La gente del posto la conosce tutta: i commercianti, i professionisti, gli impiegati delle banche, quelli delle assicurazioni. Conosce l’orario in cui vanno al lavoro, chi arriva in ritardo, i bar dove vanno a prendere cappuccino e cornetto per la colazione, le rosticcerie che frequentano a ora di pranzo. Anche questo deve riferire. Quelli vogliono sapere quali sono gli esercizi pubblici che lavorano di più e quali di meno. E’ un compito che esegue con scrupolo, perché per lui è una questione di giustizia sociale. Sa che chi lavora di meno, dovrà pagare di meno. Ci si applica con dedizione, conta i clienti che vanno e che vengono, ha imparato a capire che cosa consumano dal tempo che restano dentro al locale. E’ in grado di selezionarli, e scarta dal conto quelli che si trattengono solo per leggere a scrocco il giornale. Non ha sbagliato mai, e la prova ce l’ha quando quelli del furgone gli dicono : “e brav o’ cecato”.
Che poi lui un nome lo tiene, ma nessuno di loro lo sa. Quando si è presentato per l’assunzione si è trovato in mezzo ad altri quindici- venti che stavano lì come lui a sperare di essere scelti. Uno di quelli del furgone lo ha guardato, senza chiedergli il nome gli ha detto: “tu fai o’ cecato”. Sarà per lo sfregio largo due centimetri che gli parte dalla fronte, gli attraversa la palpebra sinistra e finisce sulle labbra, e per l’occhio destro che è bianco e cieco davvero.
Quando stava in Croazia e aveva ancora una faccia, aveva pure un nome: Milosz e faceva il muratore. La domenica aggiungeva una pietra sull’altra a fabbricare una casa sul terreno lasciatogli dal padre. Ogni volta che chiudeva un muro andava a prendere Sanja, capelli biondi e gambe sottili, che voleva vedere come cresceva la loro casa e, all’ombra di quel muro, lei si scioglieva la treccia e si tenevano stretti. Distesi per terra, appagati, restavano ore a guardare il cielo, a contare gli stormi di anatre che passavano e il tempo che ci voleva per finire la casa. Il tetto non l’ha mai realizzato perché all’improvviso tutto cambiò, successe “il fatto” e lui scappò in Italia.
A Napoli si era rimesso a fare il muratore nei cantieri abusivi dell’entroterra. Lo chiamavano “ o’ profugo”. Anche gli altri non avevano un nome. Con lui lavoravano “o’niro”, “l’arbanese”, “o’zingr”. Il nome lo tenevano solo i masti italiani. Se andava bene stava dalla mattina alle sette fino alla sera ad impastare cemento. Sennò lavorava di notte, perché la mattina ci doveva stare un rustico finito dove il giorno prima c’era solo un terreno. Quando non ha avuto più la forza di alzare le putrelle di ferro, ha trovato questa nuova occupazione.
Milosz ne ha di tempo per pensare quando sta sotto al porticato, e per ricordare. Sanja abitava in campagna, prendeva il pullman tutti i giorni per andare a scuola. La vedeva scendere con i libri sotto il braccio che si avviava veloce all’entrata. Allora lui smetteva di lavorare nel cantiere a fianco alla scuola e si fermava a guardarla senza essere visto.
Una volta lei si è girata e lo ha guardato un momento, solo un momento, poi si è voltata e ha continuato ad andare. A Milosz gli si sono seccate le labbra. E’ rimasto fermo per qualche minuto a guardare la strada ormai vuota nel punto in cui lei si è voltata, perché gli sono restati quegli occhi attaccati ai suoi occhi.
Il giorno dopo l’ha vista scendere dalla corriera, leggera e veloce, con il vestitino a fiori, le scarpe basse e la treccia bionda. Lui ha smesso di lavorare, si è messo a guardare e ad aspettare. Lei, nello stesso punto, ha volto lo sguardo e lo ha fissato. Milosz aveva sentito dire che a volte il cuore si ferma per qualche secondo per poi ripartire, ma non ci aveva mai creduto, perché se il cuore si ferma, sei morto. Gli era successo, invece, proprio in quell’istante, e ha pensato che se quella era la morte, la vita non avrebbe potuto regalargli null’altro di meglio.
Se la sognava di notte Sanja, così un giorno che la vide al mercato alla bancarella delle stoffe, prese coraggio e le si avvicinò.
Milosz da quando sta sotto al porticato la vede passare tutti i giorni, capelli biondi e gambe sottili. Arriva in macchina, accompagnata da un uomo. Scendono giù nel garage e poi vanno al bar. Lui le sta sempre un passo davanti, con il telefono attaccato all’orecchio. Lei gli sta dietro, leggera e veloce. A volte l’uomo si volta, la tira a sé con un gesto deciso, le mette il braccio intorno alla vita e con la mano le tasta il fianco. Può sembrare un abbraccio. Lei non si allontana, lo lascia fare, ha solo gli occhi un po’ chiusi e le labbra serrate.
Milosz ripensa a Sanja con la stoffa tra le mani che lo guardava mentre lui farfugliava qualcosa, ma in seguito non ha mai ricordato che cosa. Doveva essere stato convincente perché da quel giorno, non ci fu giorno che non stettero insieme.
Poi arrivò la guerra, ma lui voleva starne alla larga. La politica non la capiva, e non si spiegava perché avrebbe dovuto odiare i Bosniaci musulmani. Nella sua squadra di lavoro, il compagno più stretto era bosniaco e non gli aveva mai fatto del male.
Ci sono giorni che “capelli biondi e gambe sottili” indossa occhiali scuri anche se non c’è il sole, o magliette a maniche lunghe anche se fa molto caldo.
Milosz l’ha capito perché. Glielo ha visto quel livido intorno alle labbra, era lo stesso che teneva sua madre dopo le notti in cui lui, da bambino, si tappava le orecchie per non sentire le urla del padre. Poi al mattino tutto era tornato normale, la madre in cucina ai fornelli con l’unica aggiunta dei lividi in faccia. Lui si chiedeva se non vi fossero altri sistemi per risolvere una questione. Una volta ci aveva provato ad intervenire, ma ce ne furono anche per lui.
“E’ così che funziona”, gli aveva detto la madre frapponendosi tra lui e il padre, ma si prese comunque due sberle. Non sentì molto dolore, perché aveva imparato da tempo a conoscere le mani del padre.
Ogni tanto qualche moneta cade dentro al barattolo e lui provvede a svuotarlo lasciandone solo qualcuna. Ha esperienza, lo sa che se ne restano troppe non ne arriveranno altre, ma se il barattolo è vuoto non ci crede nessuno. Ce ne vogliono poche, quel tanto che basta per suscitare pietà. E’ un vecchio trucco, ma in quella zona ancora funziona perché lì ci stanno solo quelli come lui che li accompagna il furgone. In giro non ci sono cani sciolti, zingari o neri senza padroni, e neppure barboni. Quelli del furgone l’hanno ripulito per bene il quartiere, così sia o’cecato che gli altri sono visibili.
Lui, quelli che fanno cadere la moneta li guarda, ne percepisce l’ipocrita soddisfazione nel fare del bene, lo sa che quel gesto è mosso dal solo piacere di marcare differenze e distanza. E’ su questo che si gioca tutta la partita. Non indossa abiti particolarmente cenciosi, susciterebbero lo stesso effetto del barattolo vuoto. I suoi sono abiti vecchi e un po’ rattoppati, ma conservano il barlume di un passato decoro a far sì che chiunque possa pensare che una volta è stato uno di loro. Ma molto meno furbo, meno bravo, meno in gamba, e qualcuno per via dello sfregio gli concede anche sventurato, ma con un sicuro carico di responsabilità. Lui è l’altra faccia, quella nascosta, che non ce l’ha fatta, quella che fa paura. Allora, passandogli accanto, lasciano scivolare una terapeutica moneta, convinti che a loro non potrà mai accadere. Per quelli del furgone, e per Milosz, il gioco è fatto.
Quando scoppiò la guerra, nonostante i suoi sforzi per restare neutrale, gli imposero divisa e fucile. Lui non capiva, non sapeva neppure chi fossero i capi, e di quale esercito facesse parte. C’erano forze bosniaco-musulmane, bosniaco-croate, serbo-bosniache, forze dell’ARBiH, del HVO, del HV, eserciti regolari, irregolari, bande di assassini. Ma soprattutto non capiva chi fossero i nemici. Si sparava su tutto e su tutti. Aveva sentito di massacri a Mostar, a Gornji Vakuf, a Novi Travnik, a Trebinje. Lo avevano forzatamente arruolato, se non l’avesse fatto lo avrebbero ucciso. Lui voleva solo una cosa: portare in salvo Sanja da quella macelleria. Prima di sparare un solo colpo riuscì a scappare, ben sapendo che se lo avessero preso la sanzione non sarebbe mutata : giustiziato sul posto. Ma lui voleva Sanja, e Sanja aveva lui. Furono giorni di marce forzate, evitando le strade, di ricoveri dentro le grotte di giorno e di ricerca di cibo di notte, e la percezione costante di morte. La stessa che senti nel grugnito affannoso del cinghiale circondato dai cani o nel soffio di vita residua della lepre nella tagliola.
Capitò in un giorno in cui pensavano di avercela fatta. I bombardamenti che si sentivano erano echi lontani e sempre più radi. Nei giorni precedenti avevano sentito le voci di alcuni soldati ed erano rimasti intanati, in fondo alla grotta, nascosti dai massi. Erano passate le anatre e quelli avevano sparato uccidendone alcune. Poi se n’erano andati ad inseguire la guerra. Loro erano rimasti nascosti un altro giorno e un’altra notte. Quando si era affacciato all’ingresso sembrava tutto tranquillo. Aveva ispezionato i dintorni e non c’era anima viva. Allora aveva chiamato Sanja che era stanca, aveva fame, e voleva vedere la luce del sole.
I soldati arrivarono silenziosi, lui sentì soltanto un fruscio e, quando si voltò, la prima cosa che vide fu il ghigno sdentato di uno in divisa che gli puntava addosso il fucile. Si incrociarono gli occhi e lo riconobbe. “Goran, sono Milosz” gli disse, ma il ghigno rimase lo stesso.
Ora sente il rumore metallico di una moneta che cade dentro al barattolo. L’elargitore lo fa ogni mattina, e Milosz sa anche perché.
“Chill o’ cecato m’ port ‘bbuon. A’ primma vota che l’aggiu date e’ sord, aggiu’ chiuso nu’ bell contratto” aveva detto una volta quel tizio ad uno che si accompagnava con lui. E allora anche quell’altro si era spogliato di cinquanta centesimi “Mo’ ce’ dong pur’io, n’se po’ mai sapè”. E così ogni giorno ha un’entrata sicura.
Sanja era a terra, tre di loro la tenevano stretta mentre Goran la penetrava rabbiosamente. Anche lui era terra, circondato da altri, con la faccia rivolta verso Sanja e la bocca schiacciata a sentire il sapore del sangue, nero di fango, che gli usciva dal petto che gli avevano aperto. “ Non lo uccidete” aveva ordinato Goran, e con il medesimo ghigno gli urlò “Guardami Milosz, guarda come mi scopo la tua puttana”
Oggi capelli biondi e gambe sottili ha il viso teso, sta sempre un passo dietro al suo uomo. Quando gli sono passati accanto, lei gli stava parlando ma lui l’ha interrotta “ Non ti voglio sentire, stronza” le ha sibilato con una smorfia a mascelle serrate. Hanno imboccato la discesa del garage, posta alle spalle di Milosz e lei ha ripreso a parlare. Lui le ha urlato qualcosa con voce rauca e minacciosa.
Milosz lo sa che deve farsi gli affari suoi, qualunque cosa succede deve sempre farsi gli affari suoi, iss’ è o’ cecato. E’ questo l’ordine che ha ricevuto, e quelli del furgone non ammettono deroghe. Ma quello che sente giù nel garage non gli piace per niente. Anche capelli biondi e gambe sottili alza la voce, che adesso è stridula al punto che a tratti la soffoca.
Sanja aveva gli occhi rivolti verso di lui, i soldati la tenevano stretta ma non ce n’era bisogno, aveva smesso di dibattersi e lo sguardo era vuoto. Goran capì che era svenuta e la schiaffeggiò “ Svegliati puttana, e guardami” le urlò.
Milosz piangeva di una rabbia impotente, così fece l’unica cosa che gli era possibile : “ Sanja – le disse – chiudi gli occhi e pensa. Pensa alla nostra casa, al tetto che costruiremo. Qualunque cosa succede saremo io e te, per sempre”. Ma Sanja era vuota, con gli occhi fissi e un corpo di cartapesta che sussultava sotto le spinte di quegli uomini che ora, a turno, la violentavano. Poi Goran tirò fuori il coltello, lo appoggiò con la punta sulla pancia di Sanja e ringhiò : “Milosz, la tua troia la scuoio”. Con lo stesso identico gesto di quando da ragazzi andavano al fiume a pescare e sventrava le trote, affondò quella lama facendola scorrere fino alla gola. Sanja cacciò un grido che non aveva nulla di umano, simile a quello che fa il maiale quando gli conficchi il rampino alla gola, ma molto più acuto e lacerante. Il suo corpo tremò per un po’, ma solo per una sorta di inerzia nervosa, e poi finalmente si acquietò. Goran, inzuppato del sangue di Sanja, afferrò Milosz per i capelli e con in mano lo stesso coltello gli urlò “ Non dovrai vedere più niente, perché l’ultima immagine che ti deve restare è quella che hai visto” Poi gli affondò la lama negli occhi squarciandogli il viso.
Giù dal garage gli arrivano le voci. Capelli biondi e gambe sottili ha un tono implorante, poi si ferma e piange a singhiozzi. Milosz deve restare seduto. Quelli del furgone non perdonano, applicano una sola sanzione, la stessa dei soldati in Croazia.
Milosz invece si alza di scatto, l’uomo nel garage ha urlato “ Me rutt’ o’ cazz” e poi si è sentito il rumore che fa il pugno quando incrocia un naso.
Ora li vede.
Capelli biondi e gambe sottili sta contro il muro e le scorre del sangue dal naso, mentre l’uomo è pronto a colpire di nuovo.
“ Lasciala” gli intima Milosz, e quello si blocca e si volta. Sta per un attimo fermo a guardarlo sbalordito. Da qualche parte, gli pare, deve averlo già visto, ma non riesce a ricordare dove. Poi si riprende e a muso duro gli dice:
“ Fatt ‘e cazz tuoi”
“Lasciala ho detto”
Ma l’uomo con uno scatto si avventa gridando
“Ce ne stanno pur pe’ te”
Milosz lo evita con uno scarto, con la mano tira fuori il coltello. Capelli biondi e gambe sottili non si muove dal muro e trema.
La rabbia di Milosz è antica, è un furore senza confini, senza più spazio né tempo, e quando quello si volta per assalirlo, lui gli urla
“Goran sono io, Goran ci vedo e ti ammazzo” e si lancia sull’uomo spingendo la lama. Ma quello è veloce, con un moto istintivo mette il braccio a difesa, ed il coltello resta lì conficcato. Uno spruzzo di sangue lo investe. Milosz gli estrae il coltello dalla ferita. Quel sangue, è il sangue di sua madre colpita dai pugni del padre, è il sangue di Sanja sventrata da Goran, è il sangue che scorre dal naso di capelli biondi e gambe sottili.
“ Mannaggia chi te’ muort” urla l’uomo piegandosi in due.
Milosz è pronto a sferrare un’altra coltellata quando incrocia lo sguardo di lei, terrorizzato, riconoscente, supplicante. Sono di un altro colore, ma sono gli occhi di Sanja prima che si perdessero nel vuoto. Sono gli occhi di Sanja che gli chiedono di non aggiungere morte alla morte. Allora indietreggia e lascia cadere il coltello. Arriva gente che urla
“ ‘O cecato, ‘o cecato”
Mentre lui scappa sente un altro che grida “ ‘o cecato ci vede”.
E’ sera e percorre via Marina nel punto che incrocia la rampa dell’autostrada.
Chissà se capelli biondi e gambe sottili è scappata, se ha tranciato quel vincolo che la tiene legata solo al dolore. Ripensa alla madre che, per questo, ha dovuto aspettare la morte del padre.
Cammina tranquillo, ha un incedere lento, senza paure e senza più nascondigli a difesa di Sanja.
Sente il furgone che arriva alle sue spalle, il rumore delle portiere che si aprono.
“ ‘O vì’ llanno ‘o cecato. Omm’e ‘merd”
Non si volta neppure a guardare.
Il primo colpo gli arriva alla schiena e gli piega le gambe, e quando va a terra gli penetra dentro il puzzo di catrame e di piscio.
“Ne’ cecato, ma che t’crediv ‘e fa” gli urla uno di quelli del furgone che gli punta la pistola alla nuca.
Dietro la schiena sente un bruciore, e prima che arrivi il secondo colpo pensa che, in fondo, non gli fa così male.
Ho avuto il privilegio di leggere questo racconto, essendo amico di Ottavio, che, superando una certa resistenza causata dalla timidezza del “dilettante”, inteso nel senso stretto, di colui che si diletta nella scrittura, mi consente di godere, quando ne ha, dei suoi scritti. Mi piacque molto allora ed ancora di più oggi rileggendolo. La storia è breve ma intensa, i personaggi sono delineati con rapidi e suggestivi tratti, tanto che “li vedi”. Nel racconto i fatti sono di estrema attualità, la guerra, l’immigrazione e si intrecciano magnificamente con la vita di strada di Napoli e della sua malavita, praticamente quelli che capita di leggere quotidianamente in cronaca. Notevole la descrizione delle due protagoniste silenti: “capelli lunghi e gambe sottili” / Sanya e la reazione del cecato che paga con la vita il tentativo di salvare la prima, sottraendola alla violenza della malavita napoletana, cosa che non gli era riuscito di fare con la sua Sanya, durante la guerra nella ex Iugoslavia.
Complimenti.
Caro Francesco, mi commuovi. Grazie. Nella trascrizione, peraltro, mi sono accorto ora che ho saltato qualche frase.
Racconto forte. Senza sconti. Come la vita. Basterebbe solo questa frase “lei si scioglieva la treccia e si tenevano stretti” per far capire, ai tanti soloni che oggi pontificano in giro, che l’umanità è ovunque. Peccato solo i tanti refusi, rileggilo e aggiusta quei piccoli fastidi che ne intralciano la lettura, il racconto non li merita. Bravo!
Grazie per il commento e il consiglio. Effettivamente oltre ai refusi, nella trascrizione ho saltato anche una frase. Ho messo a posto, credo
Ottavio ho letto il tuo splendito racconto con enorme piacere. Le forti emozioni che mi ha provocato sono state davvero molteplici e tutte diverse.
La storia trasuda amore, tenerezza, dolore, tristezza, rabbia, frustrazione, sconforto, risentimento, impotenza…..potrei continuare ma mi fermo qui perchè ciò che tengo a dirti è che dovresti farne un romanzo.
Il mondo che hai delineato è vero, tristemente vero ma mi piace pensare che qualche volta vada diversamente. Il tuo linguaggio è diretto ed efficace è come se avessi parlato a 4 occhi.
Bravo!
Grazie di cuore Liliana. Sono davvero contento che il racconto ti sia piaciuto
Grazie Ottavio per avermi segnalato il tuo racconto, l’ho trovato bellissimo, non solo per la storia – tragicamente “vera” – che comunica tutta la rabbia che causa ogni guerra a chi vorrebbe solo amare e non comprende. Hai dato vita a un personaggio che commuove e coinvolge, hai usato una lingua ben dosata, efficace, matura. Scrivi benissimo e la storia merita attenzione, forse come ha detto qualcuno in un commento precedente, potresti farne un romanzo. Bravo davvero, a volte si dice “bellissimo” in maniera sbrigativa. In questo caso voglio scandirlo. E’ BEL-LI-S-SI-MO!!
Daniela grazie davvero per le parole che hai speso per il mio racconto. Fa sempre molto piacere confrontarsi e ancor di più quando il giudizio è così bello. Volevo farti di nuovo i complimenti per i tuoi due coinvolgenti racconti.
Bello. Forte. Ben scritto. Un bel crescendio d tensione. Ottavio, sbaglio o ti ricordi anche tu di Dolly Belle?
Complimenti.
Sergio, ti confesso che il tuo dotto riferimento mi ha costretto ad una ricerca su Wikipedia così, dalle nebbie delle memoria, è venuto fuori ” Do you remember Dolly Belle? Forse, però, è solo la ex Iugoslavia che accomuna il mio racconto e il bel lungometraggio di un giovane Kusturica. Grazie per il tuo commento. Ne approfitto per farti i complimenti per i tuoi racconti che mi sono molto piaciuti
Carissimo Ottavio è stato un incubo. Un racconto bellissimo che non mi ha permesso di tenere le distanze. Parecchio che non mi succede perché non mi faccio inghiottire da quello che leggo. Se fosse stato pensato diversamente ce l’avrei probabilmente fatta ad andarmene. Avrei dato un braccio per scappare ad un certo punto, ma la tua scrittura non mi ha permesso di scappare.
Grazie di cuore per averlo scritto. Non so come spiegarmi ma ho maturato un sorta di debito morale con Milosz
Accidenti Stefania. Il tuo commento mi ha confuso. Ti ringrazio tanto e sono molto contento che ti abbia così profondamente colpito. Auguri di cuore per il tuo bel racconto
bello questo racconto.la scrittura veloce e serrata genera emozioni contrastanti e forti.
Grazie davvero Maria Viglia. Non mi aspettavo tutti questi commenti positivi. Grazie
Crudo, spietato e tristemente realistico. Racconto che toglie il fiato come una coltellata nello stomaco. Ritmo serrato, linguaggio da strada (scelta che nel tuo caso condivido in pieno), personaggi perfettamente caratterizzati e credibili. Ti faccio i miei complimenti. Anche per il coraggio, mostri tutto quello che c’è da mostrare, senza fare sconti alla morale o al cosiddetto “buon gusto”. Bravo davvero.
Luigi sono molto contento che ti sia piaciuto. Ti ringrazio per i complimenti anche riguardo il “coraggio”. Quando ho cominciato a scriverlo mi sono reso conto che avrebbe avuto senso solo se fossi andato fino in fondo. come dici tu, senza fare sconti. Ne approfitto per rinnovarti i complimenti per il tuo racconto “La torretta di guardia”, in ordine al quale voglio aggiungere che l’ambientazione lo rende, tra le altre cose, ulteriormente originale. Non la solita New York fra cent’anni, o Parigi e il Louvre, ma il golfo di Napoli. Bravo, non mi pare ci siano precedenti in un racconto di fantascienza.
Ciao Ottavio, esegui il ruolo di scrittore degnamente nel raccontare le vicende suscitando tutti i sentimenti che gli uomini vivono ogni giorno. La condanna della guerra a qualsiasi latitudine sia combattuta, la solidarietà e i comportamenti derivanti dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza sono le provocazioni che ci devono sollecitare per migliorare l’umanità. Saranno battaglie e guerre perse? E’ doveroso tentare nel fare qualcosa e credere nel riuscirci.
Complimenti.
Emanuele
Emanuele grazie. Ti sono grato per l’apprezzamento e il commento puntuale
Ciao Ottavio, se non hai visto “Ti ricordi di Dolly Belle” te lo consiglio caldamente. Tenero e spiritoso, un piccolo capolavoro. C’è una scena di stupro di gruppo che il protagonista è costretto a guardare, è questo che me lo ha ricordato.
Sergio grazie, lo vedrò appena possibile.
Ottavio, grazie per aver addirittura riletto il mio racconto, e grazie del tuo commento, davvero!
ho letto con molta attenzione la tua storia, molto ben ambientata e che si sviluppa con forza e intensità, ben controllati, e con una sapiente e avvincente gestione dei passaggi dalla Bosnia di Milosz al porticato di ” o’ cecato” e viceversa . Ben condotti anche gli inserti dialettali e i movimenti dei personaggi attorno al protagonista ; un racconto vivido, robusto e corposo, complimenti e in bocca al lupo!
Mamma mia è proprio bello!. Mi sono commossa e non mi succede spesso. Davvero bravo
grazie mille Stefania per il tempo che mi hai dedicato e per il commento
Credo che la guerra dei Balcani sia stata, da certi punti di vista, molto sottovalutata. Quello che è venuto a galla e che è stato raccontato è pochissimo rispetto a quello che è accaduto e che ancora accade, perché la guerra è finita solo nominalmente. Sottotraccia continua, l’odio fra le varie etnie è ancora fortissimo. Di Napoli conosco poco, ma il bellissimo e terribile racconto che hai scritto mi fa pensare che anche qui la battaglia continua. Credo che non sia casuale che tu abbia messo a confronto queste due realtà che continuano a mietere vittime, spesso sotto l’occhio distratto della politica. Attraverso gli occhi del protagonista racconti due episodi solo apparentemente diversi ma uguali nella loro assurdità e nella loro follia. L’odio è il protagonista di questo racconto. E, purtroppo, l’amore è solo un protagonista marginale, ogni tanto appare qua è là e cerca di svegliare le nostre coscienze addormentate. La nostra realtà è questa, adesso. Riusciremo un giorno a scrivere qualcosa di diverso? .
Caro Aldo, ti ringrazio del generoso commento
Grazie mille Duccio per aver commentato il mio racconto. Napoli, al di là del colore, della retorica e dei luoghi comuni, è davvero una città dal doppio volto. Ci sono luoghi dove la parola “bellezza” sembra sia stata coniata esclusivamente per loro, ed altro dove bruttezza e crudeltà la fanno da padrone. La guerra dei Balcani la conosco dai telegiornali dell’epoca, che di tanto in tanto riportavano episodi di una tale efferatezza da lasciare senza fiato. Non c’è dubbio che, con le dovute differenze, i fatti che ho raccontato ( assolutamente di fantasia) abbiano l’odio come comune denominatore. Il sacrificio conclusivo del protagonista, però, almeno nelle mie intenzioni, voleva rappresentare un gesto d’amore. In bocca al lupo per il concorso
Ciao Ottavio, non sai quanto avrei pagato per poterlo mollare a metà. L’ho iniziato stamattina, poi ho interrotto e ho portato avanti la mia giornata, ma il pensiero mi tornava lì o meglio qui, poi l’ho ripreso e interrotto nuovamente per cenare. Adesso finalmente l’ho finito. Ci ho messo così tanto perché ogni immagine, ogni parola sono stati per me una pennellata e una coltellata insieme. Questo racconto mi ha fatto male e bene al tempo stesso. Non sono più quella di una volta, adesso il dolore quando è troppo non lo reggo, lo evito se posso. Nel tuo caso avrei tanto voluto allontanarmene ma non mi è stato possibile. Tutto nella scrittura, nella storia mi diceva “leggilo è bellissimo” “no, non leggerlo ci rimarrai ‘fregata’ ” e così è stato. Ho pianto per Sanja e Milosz, per tutte le guerre che ci affliggono e per le diversità che l’essere umano non sa accettare.
E’ una storia bellissima e tristissima, raccontata come doveva essere raccontata. Le hai reso giustizia in tutto e per tutto. Mi auguro che questo sia tu uno dei vincitori del concorso. In bocca al lupo!
Ciao Deepa, grazie mille, il tuo commento mi ha lasciato senza parole per l’intensità delle emozioni che trasmette. Grazie di cuore, anche per gli auguri che ricambio sinceramente. Anch’io il tuo racconto lo vedrei benissimo tra i finalisti.
Questo racconto mi ha atterrito per la sua potenza e per la sua bellezza. Bravissimo.
Interessante racconto. Peccato per l’editing, perché i refusi e le inesattezze infastidiscono la lettura che altrimenti scorrerebbe rapida come la goccia lungo un pendio roccioso.
Ti aspetto per conoscere il tuo parere su Penelope la Tessiragna e Il Coccodroccolo, i miei due racconti per bambini.
Arianna
Evidentemente il masochismo di alcuni lettori è comparabile con il sadismo di certi protagonisti (letterari e non). Anch’io, come altri tuoi estimatori, non sono riuscito a distogliere lo sguardo da ‘O cecato. Il mio inconscio si è lasciato lacerare pur di giungere all’epilogo, forse intuendo che la struggente sofferenza emotiva, generata dalla commozione e amplificata dalla immedesimazione, era largamente compensata dal consapevole arricchimento interiore e dall’estasi per l’armonia dissonante zufolata dalla tua penna, entrambi frutto di quella stessa capacità di emozionare e dalla medesima perizia nel coinvolgere, di cui sei davvero maestro. Complimenti.
Caro Roberto, grazie per il più che generoso commento
C’è tutta l’intensità e la crudeltà della vita, la fitta forte alle spalle e nemmeno così imprevista che ci punge dentro, quando la brutalità ci macchia con il suo arrivo.
Con le tue parole, ho sentito il puzzo di quel vicolo, ho potuto sentire la paura, sgomentarmi per la diversità che ancora ci affligge, noi essere umani così uguali e così diversi… ho potuto anche e addirittura immaginare il bruciore della lama nelle pelle, sentir le gambe tremare, io che i capelli biondi ce li ho davvero… un racconto e un vissuto che si vorrebbe allontanare, ma che travolge come la durezza della storia stessa, ci rimani intrappolato, un vicolo cieco di magistrali parole. Il tuo racconto ci ha messo proprio davanti a quel muro, non ci è stato possibile allontanarlo nemmeno con il pensiero e infine, complimenti per le tue descrizioni e il modo in cui scrivi. Bravo!
Gran bel racconto Ottavio! Per fortuna l’ho recuperato! E’ molto ben circostanziato, sia nella parte napoletana sia in quella balcanica. Si capisce bene che chi passa attraverso l’inferno di una guerra ne esce trasformato, minato, dilaniato. E non solo nel fisico. Milosz, o’ cecato, ha davanti agli occhi sempre la morte di Sanja. Attende il suo momento. E quando arriva se ne infischia delle conseguenze che il suo gesto avrà su di lui. Bello lo stile, come anche la frase finale. Compliment
Grazie mille Matteo per avermi dedicato il tuo tempo.
Che dire, Ottavio ?
Molto bello e… buono. Bravo.
Ma di certo sto solo ripetendo quanto molti altri hanno già scritto.
Sembra di essere lì e guardare con gli occhi del ” o cecato” .
Racconto eccellente, i miei sinceri complimenti!!
Oh grazie mille Carla. Visto che il racconto non è tra i selezionati, non mi aspettavo un commento a concorso chiuso. Anche il tuo racconto mi è piaciuto molto ed è un peccato che non sia stato scelto. Poco male, avrò così l’opportunità di leggere quelli che invierai l’anno prossimo. Con stima. Ottavio
Non so se sono più stupita di trovarmi tra i racconti selezionati o di non trovarci te Ottavio.
Ero sicura di cinque nomi. Ne ho trovati quattro.
Mi auguro di leggerti al prima con un altro racconto.
Perché io ho molti difetti ma un dannato buon gusto.
Ancora complimenti
Concordo con Stefania l’ho riletto e confermo tutto!
Carissime Stefania e Liliana, prima di tutto vi rinnovo i complimenti per la vostra meritatissima vittoria. Quanto al mio racconto, beh i gusti si sa sono soggettivi e alla giuria tecnica non dev’essere piaciuto. Va anche detto che il mio racconto ha un vizio d’origine: è composto da un numero di caratteri ben superiore ai novemila consigliati. Non so se questo abbia o meno influito nella scelta. Vi ringrazio molto per il commento e la considerazione che dimostrate per “o cecato”, siete davvero molto gentili. Vi auguro il meglio. Con grande stima. Ottavio
Che t’aggia dicere OTTA ‘..condividiamo penso origini partenopee (io da parte di padre) .? Bellissimo si …ma io comunque Io preferisco la bruma surreale delle tue isole…(P.s. si brav’ assaje ..ed io non son per nulla buona , ma moooolto velenosa (avendo sangue livornese per parte di madre ed essendo Fiorentina di nascita! ) .Brav, brav..
E’ un racconto bellissimo, degno di stare in un libro di Saviano. Fa parte dei racconti scartati nella scorsa edizione, ma a mio parere è’ forse il più bel racconto che ho commentato qui sopra, e di molto belli ce ne sono diversi.
Grazie di cuore Laura Florio e Francesco Moscati. Leggere i vostri bellissimi commenti per un racconto presentato alla scorsa edizione, peraltro scartato, mi ha riempito di gioia. Si Laura, sono campano, per l’esattezza della provincia di Caserta ad un tiro di schioppo da Napoli, e sono contento che preferisci le brume delle mie isole. Francesco, sei veramente troppo generoso accostando questo racconto a Saviano. Grazie davvero
BE’ già la parola ‘scartato ‘ mi piace assaje ….anche Dante fu ‘scartato ‘ da Firenze!! Ahah.. Chissenefrega se gli altri scartano! A me piacciono i trucioli!