Premio Racconti nella Rete 2015 “La katana” di Raffaele Lezzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Aveva appena cominciato a praticare il kendo, quando la conobbe. Le due cose non erano legate: era capitato, tutto qui. Passava a salutarla tornando dagli allenamenti: lei voleva che aprisse la borsa, la affascinavano i ricami sulle protezioni degli avambracci, il nome in caratteri giapponesi, la forma convessa dell’armatura che indossava sul suo corpo sottile appena coperto dalla canottiera. Più di tutto, le piaceva la spada ricurva di ciliegio che simulava la katana nella pratica dei kata. [1]
Una sera la ragazza aveva un regalo per lui: una vera katana, la lama di lucido acciaio riposta nel fodero laccato, l’elsa istoriata. L’aveva presa da sotto al letto e gliel’aveva porta sorridendo: «E’ per te». Lui l’aveva guardata, stupito per l’attenzione che gli dimostrava. Si era alzato dal letto e, nudo com’era, aveva sguainato la katana e poggiato la lama tra i suoi seni.
Sono passati mesi da allora. L’uomo è seduto in penombra, appoggiato al muro. La barba lunga, la camicia sgualcita, sì tormenta le unghie mentre lo sguardo corre al display del cellulare. Attorno a lui mozziconi di sigaretta ed una bottiglia semivuota di whisky.
«Sei sempre stato un debole …», la voce arriva dall’angolo della stanza, dove giace riposta l’attrezzatura del kendo.
L’uomo, incredulo, prova a scuotersi dal torpore causato dall’alcol.
«Si, mi hai capito: sei sempre stato un debole». Si avvicina alla katana e ne estrae per un terzo la lama dal fodero: «Non saresti mai stato un samurai.».
«Cosa ne sai, tu? E’ finita … Lo capisci che è finita? Che non la vedrò più? Nulla sarà più come prima. »
«Il kendo non ti ha dunque insegnato nulla? Non c’è prima e dopo, avanti e indietro, ma solo il vuoto del momento presente.»
«Ma che cosa dici? Lo vuoi capire che mi ha lasciato?» urla l’uomo piangendo.
«Che uomo sei, che piange per amore? Un samurai non piange!»
«Smettila! Non sono un samurai, non lo sono mai stato.»
L’uomo estrae con rabbia la katana dal fodero e si alza. Muove due passi in avanti strisciando appena i piedi scalzi sul pavimento, poi rapido esegue i movimenti del primo kata. La lama della katana sibila nella penombra, per arrestarsi all’altezza dell’ombelico, parallela al suolo. L’uomo sembra tranquillizzarsi nell’esecuzione dei movimenti codificati. Senza fermarsi esegue anche il secondo ed il terzo kata, poi si inginocchia sui calcagni, la schiena eretta nella posizione di riposo.
«Lo sai? Lei non ti ha mai amato. La pensava come me: che tu fossi un debole, morbosamente attratto dalla sua giovinezza»
«Che ne sai?»
«Lo so: lo raccontava alle amiche. Non sopportava più le tue pose da samurai, la tua fissazione per il kendo. “E’ l’unica cosa che lo rende interessante” diceva “ma ora basta, non è neanche capace …”»
«Non è vero!»
«Ero lì, ascoltavo le sue telefonate. Mentre tu ti arrotolavi tra le lenzuola, soddisfatto, convinto di averla fatta godere, lei ti prendeva in giro con qualche ragazzo della sua età: “Non è capace neppure in quello …”.»
L’uomo si piega su se stesso, la fronte a toccare il pavimento. Digrigna i denti per la rabbia.
«Maledetta, maledetta puttana.»
«Perché sei così debole? Non hai vergogna di te?»
«Non sono debole. La amo. Mi sembra di morire senza di lei.»
«Morire non è un problema, il problema è come si è vissuto. Riderebbe di te, se ti vedesse ora. Direbbe: “Avevo ragione, ho fatto bene a lasciarlo”. Guardati: sei patetico, nel tuo dolore da donnicciola … “Dov’è finito il tuo distacco zen?”, direbbe»
«SMETTILA!»
«Vecchio: anche questo pensava di te: “Cosa ci ho trovato in questo vecchio?”. E vigliacco. Diceva che non avresti mai avuto il coraggio necessario per sopravvivere all’epoca dei samurai …»
«Non sfidarmi … »
«E allora dimostrale che non è così. Smetti di piagnucolare. Mostra quanto conta per te il tuo onore!»
Il silenzio cala di nuova nella penombra della stanza, interrotto solo dal respiro affannato dell’uomo che si placa pian piano. Con la fronte ancora poggiata sul pavimento, pensa che con lei ha perso definitivamente l’illusione della giovinezza, l’ultima occasione di sentirsi vivo. Immagina quello che lo attende nei mesi e anni a venire tra amicizie esauste, abituali affanni e la rassegnazione ad ingrigire. No, non gli piace. All’improvviso si sente tranquillo, sereno per quanto ha vissuto e disinteressato verso il futuro.
L’uomo risolleva la fronte dal pavimento. Vuole cancellare l’eco delle parole della katana: vecchio, vigliacco, onore e disamore … Estrae dal borsone la fascia di cotone che utilizza per alleviare il dolore alla schiena e la stringe intorno alla vita. Si accovaccia di nuovo sui calcagni ed appoggia la punta della katana qualche centimetro sotto l’ombelico, reggendola forte con entrambe le mani. E’ ancora anestetizzato dal whisky, ma sente la punta di acciaio attraverso il cotone. Esita un istante.
«Arrivederci amore.»
Ciao.
[1] Il “kata” di kendo è una “forma”, un modello di combattimento codificato, in cui uno dei contendenti colpisce per primo, quindi l’avversario si difende e contrattacca., giungendo alla vittoria
fino all’ultimo sembra un’istigazione all’omicidio, poi il tragico colpo di scena. Bravo, Raffaele