Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “L’amorosa spina” di Donatella Marchese

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

Io non posso fuggir, ch’ella non vegna
ne l’imagine mia,
se non come il pensier che la vi mena.
L’anima folle, che al suo mal s’ingegna,
com’ella è bella e ria
così dipinge, e forma la sua pena.
( Dante, Rime, CXVI, vv.16-21 )

 

Castello di Poppi, Ottobre 1311

Durante il soggiorno nel Casentino Dante lavorò intensamente al Purgatorio.

Il divino poema continuava a essere per lui fonte di consolazione, soprattutto in relazione ai recenti avvenimenti politici: nel settembre del 1311 le autorità fiorentine lo avevano escluso dal provvedimento di amnistia diretto a una parte dei Bianchi banditi dalla città. La ferita dell’esilio diveniva sempre più profonda ma la coerenza che lo aveva contraddistinto rimaneva intatta. Tuttavia l’integrità morale e l’irreprensibilità del comportamento non impedirono al Poeta di dover combattere, anche questa volta, con se stesso e con i suoi sentimenti, come in passato e nella città natia aveva fatto. Tra le mura fiorentine il cuore di Dante aveva palpitato per Beatrice, la “gentilissima” che gli aveva fatto provare il dominio di Amore. L’altra donna della sua vita, Gemma Donati, era invece la moglie fedele e coraggiosa, colei che aveva sopportato ogni avversità per quell’Alighieri scelto da suo padre con un contratto quando erano poco più che bambini; nonostante ciò, gli aveva dato quattro figli e nei durissimi anni dell’esilio del marito dimostrò essere una donna forte e determinata.

Durante l’esilio poi, e in particolare nel Casentino, dove era stato accolto al castello di Poppi con tutti gli onori da parte del conte Guido dei Guidi di Dovadola, Dante aveva incontrato molte nobildonne, di cui alcune strettamente legate ai versi del suo capolavoro: la figlia di Ugolino della Gherardesca, poi Manentessa, figlia di Buonconte da Montefeltro, e infine Margherita, sposa di un Guidi e figlia di Paolo Malatesta. Dame, fruscii di vesti, parole non dette o sussurrate, sguardi fugaci, ricche acconciature, citazioni della poesia dell’amor cortese: questa era l’atmosfera respirata dal Poeta nei castelli del Casentino e nelle corti italiane in cui era stato accolto. Neppure colei che lo colpì al cuore in quell’ottobre del 1311 si sottraeva, purtroppo, all’ipocrita fiera delle vanità che spesso animava silenziosamente, e nell’ombra, la vita delle grandi stanze di cui ogni corte voleva vantare il primato, tra affreschi classicheggianti, eleganti suppellettili e marmi intarsiati.

L’imperatore Enrico VII, nel quale Dante confidava per la risoluzione dei conflitti fiorentini e italiani tramite il ristabilimento dell’autorità imperiale, aveva emesso nell’agosto del 1311 dei decreti per imporre alla Tuscia non tanto, come poteva sembrare all’apparenza, una serie di atti formali di ossequio all’imperatore quanto una sorta di vera restaurazione del potere imperiale contro le autonomie comunali, a partire proprio dall’economia e, quindi, dal fiorino di Firenze, capitale finanziaria della regione. I Guidi, conti palatini ridimensionati nei possedimenti e nella riscossione di tributi a causa del progressivo espansionismo fiorentino, ora più che mai riconfermavano, nel loro preciso interesse, la fede ghibellina e l’orientamento politico filo-imperiale.

Di tutto ciò si parlava in quei concitati giorni non solo nel castello di Poppi, ma anche a Porciano e Romena, in particolar modo dopo l’arrivo di alcuni messi inviati da Enrico VII ai confini del Casentino: il vescovo Pandolfo Savelli, Niccolò di Ligny e il frate domenicano Niccolò, vescovo di Butrinto in Albania. Guido dei conti Guidi di Dovadola partì da Poppi con i fratelli Tancredi, Bandino e Ruggero, e rese un sentito omaggio alla delegazione, riconfermando la fedeltà del casato all’imperatore. Come avrebbe potuto il conte Guidi, avendo alla sua corte un uomo della levatura culturale e morale di Dante, non avvalersi poi del suo aiuto nel corso di incontri politico-diplomatici così delicati? Non solo infatti il Poeta sedette alla maggior parte di quei tavoli di concertazione, dato lo spiccato interesse per la questione politica italiana e il sogno di restaurazione imperiale, ma fu invitato dal Guidi stesso ad accompagnare la delegazione al castello di Pernina, uno dei suoi feudi in provincia di Siena, grazie ad un documento del 1247 a firma dello stesso imperatore Federico II.

Appena giunto nei pressi del castello, Dante fu colpito dall’immagine di una donna dai capelli color miele, vestita di una tunica rosa arricchita da un velo color avorio, che le avvolgeva delicatamente le spalle e il collo, incorniciando il bel viso in raffinati ricami di perle e oro. Quella donna suscitò in Dante, ormai maturo quarantenne, un fulmineo sentimento di amore tanto “terribile e imperioso” che da quel momento le questioni politiche passarono in secondo piano e il Poeta attese al compito per cui era stato là inviato solo formalmente. Non riuscì a fare altro se non pensare a quella celestiale bellezza, analoga, per una triste ironia della sorte, a quella di altre donne da lui celebrate nella sua poesia e nei divini versi della Commedia.

Il nome e la presenza fisica della donna rimasero per giorni un mistero, come se non esistesse, e fosse stata solo una visione; il pudore di intellettuale, uomo maturo e padre di famiglia impedirono a Dante di chiederne notizia ma la sua anima, incapace di ribellarsi a quella passione incipiente, aveva completamente perduto la capacità di governarsi e di scegliere la cosa giusta da fare. Si sentiva sopraffatto da Amore, ora come allora, quando nella Vita Nuova aveva celebrato l’amore per Beatrice; ma ora lui era diverso, la Storia e la politica lo avevano segnato e avvertiva come assolutamente inopportuno il turbamento provato. Cercando di trovare sollievo non tanto sugli amati codici antichi custoditi nella biblioteca – com’era solito fare presso i suoi colti anfitrioni – quanto nel contatto col mondo rude della campagna, una sera si accomiatò dall’aristocratica compagnia e si recò in una locanda del paese. Contrariamente ad ogni aspettativa, tra le risate degli avventori e i ripetuti sorsi a una coppa di corposo vino rosso, si sentì assalire dalla malinconia e l’allegria chiassosa dell’ambiente, anziché sollevarlo da cupi pensieri, lo intristì ancora di più. Pensava alla sua vita, agli anni trascorsi, ai figli lontani, in un frammentato bilancio della sua esistenza che appariva sempre più complicata, motivo per cui si rendeva conto che, alla sua età, sarebbe stato molto più saggio desistere da ogni genere di passione rovinosa. La ragione lo portava a tali conclusioni, il cuore lo conduceva dalla parte opposta.

Quella stessa notte fece uno strano sogno: chiuso in una torre, cercava disperatamente l’uscita quando, scoperta una feritoia, s’immetteva in una scala di pietra nell’umida penombra, per trovare, dopo tanto salire, una via d’uscita chiusa da fredde sbarre di ferro. Oltre la grata intravide l’immagine della donna dalla tunica rosa che, in silenzio ma con gesto imperioso, lo respingeva con i palmi delle mani.

Un fragoroso tuono lo svegliò all’improvviso, lasciandolo più smarrito che mai.

Al mattino fu convocato dal conte Ludovico Guidi, figlio di Simone e signore di Pernina, molto interessato ad un parere di Dante sulla questione politica trattata in quei giorni. Mentre i due si confrontavano, nella stanza attigua allo studio di Ludovico, Dante intravide la sospirata donna. Un sussulto lo prese e il nobile interlocutore, non poco incuriosito dato il proverbiale rigore del fiorentino, ne chiese la ragione e ascoltò, con viva sorpresa, quanto l’Alighieri ebbe il coraggio di confessare, non senza un notevole imbarazzo.

Da vero esperto di passioni incontrollabili, Ludovico comprese perfettamente il Poeta e per assecondarlo, chiamato un servitore, fece condurre la donna nello studio e la presentò a Dante. Vedendola da vicino, nel vivo dell’emozione, l’Alighieri non poté fare a meno di notare ciò che il velo aveva nei giorni passati coperto: una gola sporgente che distendeva un’ombra di disarmonia in quel corpo e volto ammirabili. Si chiamava Violante ed era la cortigiana preferita di Ludovico. Tale vile realtà, che contrastava amaramente col fremito sentimentale che aveva scosso il Poeta, gli fece d’impeto definire dentro di sé la donna come “la gozzuta”, con un risentimento e un’indignazione che aveva provato già, sì, ma per tutt’altre ragioni. Non gli fu di consolazione nemmeno il racconto che poi, licenziata la donna, Ludovico fece di lei: Violante era figlia di Bianca, frutto della fugace relazione che Federico II, noto per le frequentazioni del gentil sesso e in visita a Siena per questioni politiche, aveva avuto con Alessandra, moglie di Pandolfo di Fasanella, fedelissimo vicario della Tuscia dal 1241 per conto dell’imperatore svevo. Violante, cresciuta amorevolmente dalla madre che le aveva sempre celato l’identità dell’augusto padre, era da giovinetta stata trasferita al castello di Pernina come dama di compagnia per la madre di Ludovico, il quale era stato da subito attratto dal suo fascino. Nemmeno il matrimonio con Giovanna aveva placato gli ardori del conte e la legittima consorte, follemente gelosa, aveva inutilmente tentato con ogni mezzo di allontanare la sensuale rivale dal castello dove il signore, del resto, non faceva nulla per nascondere tale relazione. Ludovico aveva, senza alcun pudore, commissionato addirittura un ritratto dell’amante che ne esaltasse con evidenza la bellezza, celandone comunque quel piccolo difetto fisico alla gola. Dante, voltandosi, riconobbe subito l’opera nel quadro posto sopra il caminetto della stanza e, in silenzio, si congedò con un pretesto dal conte, pensando a ogni stratagemma possibile pur di allontanarsi il prima possibile da quel castello, dove ormai non si sentiva più a suo agio. L’ultima spina nel fianco del povero Dante fu l’ultimo e ostile gesto della bella Violante, insensibile di fronte al cortese saluto del Poeta che prendeva congedo, due giorni dopo, dal conte Guidi e dalla sua corte assieme alla delegazione imperiale. Intenta a leggere un romanzo cortese nel giardino del castello, la “gozzuta” non degnò di uno sguardo il Poeta, se non per alzare un attimo gli occhi e schernire, con un sorriso di supponenza, il celebre fiorentino che aveva ceduto, come tanti altri, al suo fascino ricavandone solo un’umiliante sofferenza.

Tornato a Poppi profondamente ferito dalla donna “bella e ria”, Dante riversò tutto il suo dolore in un’epistola indirizzata a un nobile generoso e sensibile, il marchese Moroello Malaspina, presso la cui corte aveva soggiornato tempo prima, e cercò di dimenticare le sue pene lavorando ai Canti XXVIII e XXIX del Purgatorio.

Alla fine di ottobre dell’anno 1311, Dante Alighieri lasciò il Casentino alla volta di Genova.

 

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