Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Ti Perdo” di Gian Paolo Di Pierro

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Dodici piani sotto di me, distinguo bene le zolle di terra e cemento che dovranno essere poi il giardino dei fortunati del piano zero. La mia faccia si piomba su quel verde quasi lentamente.

Non mi sono mai piaciuti gli attici.

Un po’ per le vertigini che fingo di non soffrire sin da piccolo, e un po’ per le leggende di zingari e Lupin che scendono dal  tetto e ripuliscono gli interni. Insomma, mai piaciuti. Ed ora che cado ho un altro buon motivo in più per non amarli.

La sensazione che provo è quella di essere sospeso, come se il mondo fisico non si fosse ancora accorto di quella staccionata di multistrato rotta e la mia testa sbilanciata in avanti.

Le mani?

Non le aveva viste nessuno, neanche il geometra che ci stava portando in giro per il cantiere, lo avevo appena sentito dire <<Attenti al parapetto, mancano le protezioni>>, forse ho anche riso, non sono mica tanto stupido da affacciarmi e fare un bel volo di sotto, ma non sono stato neanche furbo.

Credo.

Qualcosa l’ho sentita.

Le mani appunto. Che fossero proprio le sue? Probabile, in fondo eravamo solo in tre: io, lei e il geometra che voleva venderci la casa.

 

Dodicesimo piano.

 

Perugia è una piccola città, tutta chiese, strade in salita, scale mobili, studenti ubriachi, locali affollati, una piazza e un sacco di paesini altrettanto angusti tutti intorno. Vivo in questo buco di mondo da cinque anni, da quando con la mia ragazza abbiamo deciso di convivere e spostarci vicino la sua azienda.

La sua è un’attività a gestione familiare, un’impresa che fattura dieci milioni di euro l’anno, sfama sei famiglie, e di familiare ha solo il fatto che prima era di suo padre e poi è passata in dono alla figlia.

A Natale. Gran bel regalo.

L’ultimo regalo ricevuto dai miei è stato a dieci anni un Risico versione Millenium.

Ognuno ha quel che si merita e io considerando tutto non mi merito proprio nulla.

La mia donna è una persona fantastica, e ora da quassù direi anche che ha due braccia niente male, altro che lavoro d’ufficio. Ci siamo conosciuti cinque anni fa a Roma, all’epoca ero uno studente fuori corso che ogni giorno si innamorava di una ragazza diversa, poi un giorno durante una partita di campionato conobbi lei.

Bellissima, persa di me, donna, concreta e stabile, con un conto in banca da perdere la testa e un culo da favola.

Cominciammo a far l’amore, poi a parlarci, a frequentarci, e in quei minuti passati fuori dalle nostre salive e liquidi seminali ci innamorammo. La storia venne da sé.

La sua famiglia mi accolse come se fossi un trovatello senza casa, io non mi feci pregare, accettai l’invito in casa e mi trasferii stabilmente nella loro reggia a Piazza Sempione, senza dovermi più preoccupare di fitto, bollette, condominio e spese del genere.

La pacchia però non durò tanto, all’inizio credetti di aver trovato la mia gallina dalle uova d’oro, presto però capii che il pollo ero stato io. Dopo qualche mese il padre fece il suo regalo di Natale alla figlia, il che voleva dire lasciare Roma e trasferirsi a Perugia. Insieme.

Non avrei potuto lasciarla, non in quel momento, e non dopo tutto quello che loro avevano fatto per me. Non potevo bruciarmi.

E’ questione di mesi, magari un anno massimo, ce la fai a resistere, mi dissi, ed invece pian piano persi il controllo della situazione.

Sarà stato vivere nella stessa casa, pranzare insieme tutti i giorni, far l’amore più volte al giorno, vivere come un re in una casa in affitto senza spese, insomma sarà stato tutto questo ma alla fine mi innamorai e rimasi bloccato molto più dei mesi preventivati.

 

Undicesimo piano

 

A Roma facevo molto più di quanto gli altri potevano immaginare. La versione ufficiale di me raccontava un ragazzo ventenne, barese, con una grande esperienza nei locali e passioni sparse per lo sport, i libri e l’università che lo avevano portato a trasferirsi nella capitale.

Dietro tutto questo c’era però un furgone delle intercettazioni della finanza parcheggiato alle spalle di via S. Andrea a Bisceglie, gli agenti erano travestiti da uomini-enel ma in un piccolo paesino come quello non passarono inosservati.

Ad avvisarmi fu una delle mie vedette, il più piccolo, un ragazzino di quattordici anni molto in gamba, un genio a scuola, un bastardo con le donne, e un cocainomane come non se vedono spesso. Aveva provato la roba da poco, e nonostante l’età gli dava sotto come un pusher ucraino nelle notti di Mosca.

 

Capii che mi avevano beccato, e così dovetti sparire prima che mi facessero sparire loro.

Per un anno smisi di commerciare, poi a Roma trovai un mercato ben più ampio di quello che avevo vissuto prima.

I primi mesi beccai schiaffi e pugni nello stomaco dai soliti ragazzi di borgata, le presi un po’ da tutti, furono sei mesi di lividi e sguardi bassi, poi finalmente un amico mi raggiunse con una busta nera piena di marijuana buonissima neanche fosse un netturbino. Avremmo potuto guadagnare qualcosa e così ricominciai dal basso, vendendo prima ai bambini fuori alle scuole private, poi pian piano a qualche pusher più grosso. Il giro si fece interessante.

Il mio amico continuò a coltivare nella sua campagna ben protetta fuori città ed io lo nascosi, tutti venivano a comprare da me, mi soprannominarono l’afgano e quelli che prima mi avevano menato per la coca mi chiesero un accordo per controllare insieme tutto il commercio.

La piccola bottega poteva tornare società per azioni.

Neanche un mese e mi permisero la vendita, feci la gavetta, solo piccole dosi all’inizio, poi ancora una volta grazie ai locali e alle conoscenze il giro si ingrandì, sotto Natale finii a letto con una ragazza dell’Estonia, mi fece impazzire, era identica e spiccicata ad Avril Lavigne, la ragazzina pop che ascoltavo da adolescente, sembrava una semplice studentessa Erasmus, una delle tante nella capitale, mi scopò per tutta la notte tanto che dovetti tirare per ben tre volte per riuscire a starle dietro, ma lei quando vide la roba si illuminò e così non riuscii più a tenerla.

Dopo avermi succhiato il midollo dalla schiena alle sette di mattina mi infilò sotto la doccia e ci vestimmo.

Voleva uscire.

Per fare cosa? E dove a quell’ora?

Lo scoprii quando mi portò in un club di scambisti, non potevo credere che avesse ancora voglia, entrammo e mi portò in una camera che capii subito non essere di  pubblico accesso.

Si chiuse la porta. Entrarono tre uomini enormi, grossi baffi sulla faccia, panciuti e con tatuaggi rudimentali sulle braccia.

Uno mi parlò, non ci capii nulla.

Europa dell’est, ne ero certo.

Ucraini.

Si presentarono, uno parlava, gli altri incrociavano le braccia sopra le loro canottiere lerce aderenti. Faticai per capire quell’italiano storpiato, ma compresi il senso perfettamente.

Cocaina ed eroina direttamente dal Medio Oriente, trasportata con camion attraverso le frontiere della Georgia, da Tiblisi a Mosca, e poi Olanda, Parigi, Milano, Roma. Grandi direttrici, tutto via terra e con grandi protezioni politiche. Servivano solo uomini con le palle nelle diverse città per ricevere la roba.

Cosa c’entravo io?

I miei superiori mi avevano messo alla prova, la gavetta era finita, ora toccava sporcarsi le mani. La biondina non era affatto una troietta estone persa del mio faccino pulito, piuttosto era una emissaria incaricata di portarmi dal Grande-Capo.

Accettai.

O meglio, decisi di pensarci, ma loro non furono disposti ad aspettare. Presi un cazzotto nello stomaco ed uno sul naso, la coca nel sangue mi ribollì fino a far tremare il cervello e così dovetti accettare.

 

Decimo piano

 

Il mio corpo sembra prendere velocità, il suo peso si fa consistente nelle molecole d’aria, e il giardino di cemento diventa ora più vicino, più rapido.

Dopo i primi anni di affari conobbi Claudia, la mia ragazza, la stessa stronza che mi ha presumibilmente spinto di sotto.

Perché?

Non ho la mente abbastanza lucida per capirlo. Ho sempre nascosto tutto, niente tracce, la roba arriva in camion presso aziende private una volta al mese, vicino Ciampino, io controllo l’inventario, firmo, pago l’autista, do le chiavi del carico ad un altro ucraino e incasso le mie mille banconote da cinquecento euro. Se alla consegna manca qualcosa, l’autista è morto. Se all’ucraino manca qualcosa  quando gli arriva, il morto sono io.

Tutto è molto semplice, contare, ricontare, controllare, chiudere. Consegnare. Tutti lavorano e tutti guadagnano, nessuno ruba e nessuno muore.

I primi cinque anni sono filati benissimo, nessun errore, nessun blitz, qualche mazzetta miliardaria ai palazzi alti più qualche bustina per tenerli su di morale.

Più tardi mi sono trasferito a Perugia grazie al regalo del suocero e una volta al mese sono andato di nascosto a Ciampino a controllare il carico. Qualche mese fa Grande-Capo ha deciso che davo troppo nell’occhio, troppi spostamenti regolari, stavo diventando un obiettivo facile, quindi ancora pugni in faccia e nello stomaco e addio affari.

Strano che ne fossi uscito così facilmente, pensavo che prima o poi mi avrebbero ammazzato e preso i soldi che avevo incassato in quegli anni. Invece no, o forse invece ancora non sapevo.

 

Nono piano

 

Mai sentito il mio corpo così pesante, avverto l’aria tagliarmi la pelle e i vestiti, comincio a voltarmi, braccia e gambe non sono più armoniche e coordinate, sembro un gomitolo di epidermide, carne e ossa pronto a spalmarmi contro il cemento ancora ruvido e grezzo.

La domanda è una sola.

Perché?

In cinque anni ne ho fatte tante, ne sono consapevole, ma so benissimo che lei è all’oscuro di tutto, non può sapere del box al centro di Perugia colmo zeppo di cartoni pieni di banconote da cinquecento, non può sapere del vizio di farmi un rigo ogni tanto, non può sapere degli incontri con la estone dentro l’abitacolo della sua Punto nera, non può sapere delle scopate che capitavano ogni tanto mentre facevo finta di lavorare nei bar, o di quando la nostra vicina di casa brasiliana si è infilata nelle nostre lenzuola nuda con la scusa delle chiavi lasciate in casa.

 

Ottavo piano

 

Perché? So di aver fatto un sacco di errori, ma perché tu mi uccidi ora?

Il piano scorre rapido, i mattoni diventano lastre incolori di fianco a me, mentre i piccoli dettagli sul suolo si fanno precisi, nitidi.

 

Settimo piano

 

Il mio corpo è capovolto, tento quasi di reggermi alle molecole voltandomi e ribaltandomi, i miei occhi ora vedono cielo, ancora l’attico, i pezzi di legno penzolanti e te. Ferma. Mi fissi.

Forse piangi.

Perché?

 

Sesto piano

 

Forse sei solo pazza, sei fuori di testa e hai deciso di uccidermi.

Tu sei troppo pazza, ed io ormai sono morto.

 

Quinto piano

 

La mia testa ricade in basso, spinta dal peso e dalla gravità, sento il sangue rovente bruciarmi le tempie, mentre lo stomaco si svuota nelle mutande. Tu…

 

Quarto piano

 

Sei pazza, tutto è cambiato da un mese, da quando qualcuno è entrato in casa. C’eri tu amore mio, ti hanno presa amore mio, ti hanno avuta amore mio. Ti hanno violata amore mio. Ed io non ero lì a difenderti.

 

Terzo piano

 

Ti ho promesso che li avrei presi, li avrei ammazzati, tu hai pianto e non hai voluto sentire una parola di più. Hai pianto, ancora. Ti sei chiusa. Io ho promesso. Ma tu ora mi uccidi.

 

Secondo piano

 

La mia testa torna su, e con gli occhi centro in pieno la tua faccia, i tuoi piedi, sei oltre la trave di legno distrutta, il tuo piede sinistro penzola. Sei mancina, amore mio. Sei mancina, e sei in volo anche tu.

 

Primo piano

 

Tendo la mano quasi per cercare di rimetterti su quel cornicione, mi capovolgo ancora una volta, ti perdo. Ricordo le tue urla nel sonno, <<Saluta tuo marito>>, <<Saluta tuo marito>>, erano state le loro uniche frasi, erano grossi, erano forti, non erano italiani. Avevi detto alla polizia che ti erano sembrati ucraini. Ucraini.

Bastardi.

 

Zero

 

Scusami amore mio.

Ti perdo.

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