Premio Racconti nella Rete 2015 “La Mano” di Claudio Vergati
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Nel rialzarsi sentì le giunture scricchiolare. Ancora una volta era finita così. Si guardò attorno con aria sconsolata; compatì la figura crocifissa e dolorante che pendeva malamente illuminata di fronte a lui e si incamminò verso l’uscita della piccola chiesa del paese.
Anche stavolta Dio non si era presentato.
Né Lui né nessuna delle sue innumerevoli emanazioni. Gesù Cristo, lo Spirito Santo, la Madonna, Santi maggiori e minori, angeli, Beati. Nessuno. Pure don Carmine, umile ultima ruota del carro di quella sterminata gerarchia ecclesiastica, l’aveva lasciato solo a borbottare preghiere inginocchiato sulla panca fredda di fronte all’altare.
Alceste pregava tutte le mattine.
Si alzava, si radeva per bene, si vestiva e, trascurando qualsiasi altro impegno, senza temere pioggia, vento o neve, saliva in cima per le viuzze del paese ed entrava nella minuscola chiesa fatiscente.
Chiedeva la grazia per la sua mano destra. Lo faceva da dieci anni, da quando una fresa spietata gliela aveva tranciata di netto. Alceste, da buon cristiano, sapeva che Dio aveva problemi più importanti a cui badare: la fame nel mondo, le guerre, i disastri naturali, i terroristi. Ma proprio per questo non si capacitava della mancata attenzione alla sua condizione. Si chiedeva spesso come sarebbe accaduto. La mano sarebbe ricresciuta poco a poco, un dito alla volta, falange dopo falange. Oppure sarebbe spuntata di botto dalla manica come una specie di magia.
Con fede e fiducia, Alceste pregava.
Che poi, negli anni, aveva imparato ad usare la sinistra come fosse un mancino nato. Scriveva, cucinava, si radeva, maneggiava utensili proprio come una persona normale. Gli avevano anche trovato un posto in Comune, come categoria protetta. Però quando girava per il paese aveva sempre la percezione che le linee di tutti gli sguardi convergessero sul suo moncherino. E poi con le donne, con le donne proprio non andava. Quelle poche che si avvicinavano lo facevano con un sentimento di pietà e compassione che Alceste non sosteneva. Preferiva restare solo che essere oggetto di commiserazione.
Quindi tutti i giorni, ostinato, pregava per la grazia. Invano.
Uscito sulla piazza ventosa, deserta a quell’ora, Alceste alzò il bavero del cappotto per ripararsi dal freddo. Notò che il sole, sorgendo attraverso le bifore del campanile, disegnava sullo slargo uno strano cono di luce obliquo. Fece qualche passo e si ritrovò accerchiato da minuscolo pulviscolo che vorticava impazzito ad ogni suo movimento.
Fu in quel momento che in Alceste si formò un pensiero nuovo, sconosciuto, inaspettato.
Il pensiero gli domandava con un gran vocione baritonale se era veramente sicuro di voler ricevere la grazia. Alceste si meravigliò. Rispose a se stesso proclamando silenziosamente che avere di nuovo a disposizione la sua mano destra era l’unico, il solo desiderio cui ambisse in una vita proba e priva di aspirazioni. Il pensiero, ostinato, ribatté che forse non aveva considerato bene tutte le conseguenze. Quali? chiese Alceste. Prima di tutto, spiegò il pensiero, avrebbe perso il lavoro al Comune. Questo era vero, pensò Alceste. Poi, ora tutti gli volevano bene, forse con un po’ di condiscendenza, ma affettuosamente. Chi gli regalava una torta, chi lo aiutava a ridipingere le finestre, chi gli portava la spesa a casa. Con entrambe le mani sarebbe ritornato anonimo, un uomo qualunque. Alceste convenne che l’unica qualità che possedeva era la menomazione. E le donne? sussultò Alceste. Le donne si possono pagare, decretò pragmaticamente il pensiero. Non sarebbe stato vero amore, ma quale lo era ai tempi d’oggi.
«Alcè? Alcè!»
Non era la sua voce interna a parlare, ma un suono reale. Alceste si voltò. Sabrina, la sorella del fornaio, lo osservava curiosa. Sulla testa portava un cesto di vimini carico di pagnotte e filoni ancora caldi.
«Me parea che t’eri ‘ncantato.»
«Pensavo» rispose imbarazzato Alceste, come colto in un fatto intimo e privato.
«Addirittura» rise Sabrina, mettendo in mostra gli incisivi troppo grandi e distanziati.
Alceste distolse lo sguardo. Conosceva Sabrina da sempre. Erano stati compagni di scuola fin dalle elementari. Le parlò senza guardarla, ancora immerso nel cono di luce, con la mano sinistra stretta a pugno intorno al moncherino.
«Senti Sabrina, ma tu pensi che…ecco, come dire,…a uno come me, tutto considerato, ecco…gli potresti volere anche un po’ di bene?»
La risata di Sabrina risuonò nella piazza vuota.
«Alcè, ma che c’hai oggi? Me pari m’briaco de prima matina. Io ti voglio già bene…come…come a un fratello.»
«Come a un fratello?» ripeté Alceste, deluso. La luce era sparita all’improvviso. Una brezza fredda spazzò la piazza.
«Eh sì, Alcè. E mio fratello pure ti vuole bene. Anzi, perché stasera nun vieni a cena da noi. Faccio pasta e broccoli. Che dici?»
Alceste sospirò. Nascose mano e moncone nelle tasche profonde del cappotto.
«Vabbè, ma senza fare tardi. Che domani mi devo alzare presto per venire in chiesa.»
Racconto piacevole, ironico, leggero. A volte anche le disgrazie, dice l’autore, vanno prese con un certo distacco, perché non sempre sono del tutto negative. L’importante è guardare avanti e non perdere la fede nell’ottimismo.
Buongiorno Claudio un simpatico aneddoto di vita semplice. Chi mai avrebbe potuto “amare”Alceste poverino. E perché mai forse è lui a non crederci per primo.
A volte questo fa la differenza. Mi è piaciuta la storia ed anche il modo di proporla.