Premio Racconti nella Rete 2015 “Tre donne sorridenti e una città silente” di Valentina Fantasia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Io ti ho già vista.
Nelle riproduzioni sui libri o nei poster non avevo colto la somiglianza, ma adesso che ti sono davanti mi è del tutto chiaro che non è la prima volta che ti vedo. Certo, eri vestita e pettinata diversamente, la tua altezza era diversa, quella volta parlavi un’altra lingua, non ti chiamavi Monna Lisa e nemmeno la Gioconda, eppure eri tu.
Erano tuoi il sorriso e il modo di appoggiare le mani una sull’altra, in grembo.
La prima volta, in un vicolo luminoso del quartiere della Ribera, a Porto. Era una giornata d’estate capitata per errore nel mese di aprile: non distanti, si sentivano grida di ragazzini sbracciati e in pantaloncini che giocavano a calcio su un prato sotto l’occhio benevolo della grigia statua di un non identificato personaggio del passato. Tu mi davi le spalle, affaccendata ai fornelli, visibile attraverso una finestra piccola ma bassa, che lasciava intravedere l’interno della tua cucina a chiunque, diretto verso la parte bassa della città, percorresse quel vicolo. Sul davanzale un gatto arruffato, schiantato dal calore eccessivo, sonnecchiava aspettando la cena imminente sotto i raggi del sole che, in procinto di ritirarsi per quel giorno dalla scena, spargeva ambra sui tuoi capelli. Dal fiume saliva unodore di vino, portato dal vento dell’altra riva. La cena era pronta, ti sei voltata per chiamare tuo figlio e i nostri sguardi si sono incrociati nell’istante in cui il sole è andato giù completamente e nella tua cucina in un attimo era buio, ma sono riuscita a vederlo lo stesso, il tuo sorriso. Ha illuminato ancora per qualche secondo la tavola già apparecchiata, le maioliche chiare, la radiolina sulla mensola che mandava le ultime note di un fado, e una foto sulla parete dalla quale un gruppo di famiglia ritratto in riva al fiume, alle spalle l’alto ponte Dom Luis, sorrideva in una giornata simile a quella.
Ma ti ho vista anche su un tram a Roma, uno dei tanti che ogni giorno attraversano la città, strapieni di gente ma silenziosi, perché le persone raramente chiacchierano visto che non si conoscono. Il tuo strillo ha squarciato il lieve brusio che ci avvolgeva, rassicurante come una coperta calda: avevi perso una scarpa. Bel problema, in un tram dove si fatica anche ad arrivare alle porte per scendere, dover cercare una scarpa sfuggita da un piede. Strattonando senza tante cerimonie chi ostacolava il tuo passaggio, percorrevi in lungo e in largo il tram, gli occhi al pavimento, sotto i sedili, a volte anche spostando le gambe o le gonne di chi ti intralciava la visuale. Era la tua vecchiezza a renderti immune da proteste? Cominciavi a farmi pena, perché piagnucolavi e a ogni ulteriore fallimento sembrava che ti stessi rimpicciolendo, quasi accartocciandoti su te stessa. Davi l’impressione che da un momento all’altro saresti sparita sotto il sedile che continuavi a ispezionare. Intorno a te le persone continuavano impassibili, statiche e sorde ai tuoi lamenti, a guardare il paesaggio urbano dai finestrini sporchi e rigati, con la fissità assorta di un bambino che vede il mare per la prima volta. Possibile che nessuno ti desse una mano? Ho dovuto farmi largo tra molte persone, spingere a destra e sinistra, appiattirmi scivolando tra file di corpi quasi inerti, ma alla fine sono riuscita a raggiungerti. E allora ho capito: tu hai sollevato lo sguardo dal sedile, non avevi nessuna forma di confusione negli occhi, ma piuttosto un lampo come se stessi arrivando solo in quel momento da un mondo lontano invisibile a tutti noi altri. Ho visto che ai piedi avevi entrambe le scarpe. Quando ti ho guardata con un misto di sorpresa e rabbia, tu mi hai soltanto sorriso senza parlare, però sembravi implorare: lascia che io continui a cercare…
Non offenderti se ho appena paragonato il tuo sorriso a quello di una matta: in fondo, anche al tuo tempo era così; bastava essere un po’ diversi, non accettare le regole che qualcuno aveva deciso per tutti, essere donna e non voler essere schiava, nel qual caso si veniva addirittura promosse streghe, e si andava a finire tra i ‘matti’. Anche oggi, spesso, è così, perciò nella categoria ci sono molte persone che penso potrebbero piacerti.
Che cosa posso farci, io, se nel tuo sorriso ci sono talmente tante cose che sono sicura di avere già visto? Credi che per poterti ammirare ci sarebbero tutte queste persone in fila, ogni giorno dell’anno, senza pause per nessun motivo, disposte a sopportare attese di ore in piedi tra frotte di giapponesi che alla fine, quando si dovrebbe esserti arrivati davanti, intralciano la contemplazione alzando il muro delle loro macchine fotografiche iper tecnologiche, anche se il cartello al tuo fianco dice chiaramente che non si possono scattare foto, se il tuo sorriso non fosse così meravigliosamente sfaccettato, sottile, allusivo?
Era una sera d’estate come tante, il mare era liscio come se nessuno prima vi avesse mai nuotato, navigato o lanciato sopra nemmeno il più piccolo sasso. Ormai il sole era tramontato già da un po’, ma l’aria era ancora molto calda, ispessita dall’assenza di vento. A quell’ora calava, insieme al sole, tutto il resto: rumori, pensieri, paure. La sabbia tornava fresca, qualche gabbiano ritardatario si affrettava, planando sulla superficie dell’acqua se ancora guizzava qualche pesce, a raggiungere gli scogli che chiudevano a ovest la piccola baia, dove già gli altri, sparsi senza un ordine apparente, fissavano l’orizzonte nel punto in cui il sole era tramontato con l’aria di chiedersi se l’indomani sarebbe risorto come sempre.
Era piacevole affondare le mani scavando nella battigia scura, sentire sulla pelle la sabbia grumosa, umida, fredda, alla ricerca delle telline, conchiglie piccole, candide e levigate, che la marea capricciosa aveva sotterrato senza regolarità. Si restava accovacciati fin quando le ginocchia cominciavano a far male, poi il secchiello era ormai pieno, e un soffio di vento improvviso scompigliava i capelli e la superficie dell’acqua facendomi leggermente rabbrividire: era tempo di tornare a casa.
Mia madre mi chiamava, io correvo verso di lei orgogliosa del mio bottino e nella livida luce che rimaneva mi sorrideva guardando lontano, nella stessa direzione dei gabbiani.
Allora non potevo saperlo, ma lei aveva visto quello stesso sorriso, tanti anni prima, sul viso di sua madre, che a sua volta lo aveva visto su quello di sua madre che a sua volta…a sua volta…
Il sorriso aleggia attraverso le generazioni, a ritroso arriva fino a te, inghiottito dal tempo; svanisce alla vista quasi subito, come una farfalla bianca, in un mattino di primavera, giunge all’improvviso sbucando quasi dal nulla, e dopo qualche istante, nell’azzurro diafano ma profondo, già non è più distinguibile. Nell’aria vuota, si continua a scrutare nel punto in cui è scomparsa, a volte ci si avvicina increduli di tanta rapidità, desiderosi di notare ancora qualche particolare per fissarlo nella memoria. Niente da fare, si può solo aspettare che ricompaia, come succede col tuo sorriso – sarà questo il segreto della sua bellezza?- imprevedibile anche nella forma.
Un gruppo di scienziati canadesi, dopo averti analizzato minuziosamente per sedici ore nei sotterranei del Louvre con le loro macchine che riproducono immagini con una profondità di un decimo del diametro di un capello, hanno concluso la ricerca sentenziando l’ennesima, provvisoria verità sull’enigma del tuo volto: esso apparterrebbe a una madre. Dicono, gli scienziati canadesi, che non c’è nessun mistero nel quadro, che tu sei semplicemente una donna che ha appena avuto un figlio, si gira verso di noi e sorride leggermente. Monna Lisa simbolo della maternità. Ma il sorriso di una madre presuppone e implica sempre quello di un figlio…
Medina, la città del silenzio, è un piccolo tuorlo di uovo al centro dell’isola di Malta, albume circondato dal mare. Quando vi arrivai, in un pomeriggio che sarebbe passato alla storia, quello dell’undici settembre del duemilauno, la luce del sole, più obliqua che in piena estate anche se ancora potente, giocava con i palazzi di tufo imbevendoli di calore, rimbalzando in vellutati toni di miele tra le piazzette deserte, i vicoli con i portoni sprangati e i balconi sguarniti da ibischi e gerani, che invece riempivano La Valletta. Dalla piazza antistante la cattedrale di San Paolo, completamente vuota anche di suoni e rumori, si imboccava una stradina stretta e finalmente un po’ in ombra che, nell’aria indolente e incapace di qualsiasi aspirazione al benché minimo movimento, portava fino al principale belvedere dove lo sguardo spaziava fino all’infinita azzurrità del mare. Nell’intrico di vicoli e scalinate ogni tanto mi sembrava di veder passare qualcuno, ma erano ombre fugaci, taciturne e indistinte, la cui vaghezza mi faceva dubitare della loro stessa esistenza; leggiadre, non si permettevano di infrangere l’esile cristallo di quel silenzio, imponendo anche a me la loro soavità. Camminavo quasi in punta di piedi per non provocare troppo rumore, nella pigra sonnolenza pomeridiana della vecchia capitale quasi disabitata.
Insperati, quei tintinnii limpidi; nel vuoto che li spandeva senza ostacoli, ho cominciato a percepirli quando ancora ero distante dalla loro origine sconosciuta. Sirene seducenti, mi attiravano proprio perché così ineffabili, e con la loro evanescenza mi costringevano ad essere ancora più furtiva e non provocare rumore, se volevo capire da dove arrivassero. Mi guidavano ma ogni tanto tacevano, e allora dovevo fermarmi perché non sapevo più in quale direzione proseguire; mi guardavo intorno, tendevo l’orecchio a ogni fruscio, il vento era solo un alito. Attraverso un nero cancello di ferro ornato, piacevole interruzione nella monotonia ambrata del muro di tufo che chiudeva a est la stradina, sospesi a alberi di limoni circondati da un prato luminoso di verde il cui riverbero inondava il cortile di una liquida vibrazione acquamarina, li ho trovati, finalmente: campanellini dentro lanterne smosse leggermente dal soffio impercettibile che arrivava dal mare, attutito dalla distanza percorsa.
Ascoltavo incantata. E intanto le ricordavo anche, quelle note argentine, sparse e altalenanti: la stessa grazia minuta, traboccante di dolcezza, dei primi sorrisi consapevoli, pudichi e ritrosi che avevo visto illuminare i volti dei neonati, incerti se azzardarsi a socchiudere le labbra tremolanti.
Sospesi sull’inesplorata trama dell’ignoto, si specchiano negli occhi delle madri che quell’ignoto hanno già scavato e patito e recano con sé, forse racchiuso in grembo tra le mani, arcane sentinelle, come un amuleto.
Un racconto che definirei sentimentale, pervaso di quel sentimento leggero, distaccato e nello stesso tempo coinvolgente. Il “sorriso” vero protagonista che affiora sulle bocche dei neonati, delle madri, delle persone, accompagna il succedersi della vita e in questo racconto assume il carattere di un porta fortuna.
Piacevole
Che bel racconto, e che stile elegante. Un vocabolario ricco, pieno di aggettivi, mai barocco né noioso. Un filo tenero che unisce generazione dopo generazione, un sorriso che si perpetua nel tempo sulle labbra delle madri. E’ originale soprattutto lo spunto della Gioconda. Complimenti davvero. Se ti va di leggerlo e commentarlo il mio racconto si intitola “Un giorno sotto il porticato
Scrittura elegante e sensibile. Mi è tanto piaciuta questa sonnecchiosa ma intensa qualità metafidica dell’afa dell’estate, dove non si pensa chiaramente e proprio allora arrivano inaspettate intuizioni. Sarà che, a letto c on la febbre, mi trovo in uno stato simile.
Bravissima Valentina.
Ciao Valentina, ho letto due volte il tuo racconto, uno per attraversare i luoghi e le atmosfere descritte piene di poesia, due per cercare di vivere le situazioni. Chi sono le tre donne? La mamma di Porto, la donna anziana di Roma e l’autrice a Porto o a Malta o anche Monna Lisa? Non dovrebbe centrare l’autrice da piccola, ma forse potrebbe centrare la mamma dell’autrice da piccola. E’ vano insistere sui criteri numerici e sulla domanda fatta un uomo che, forse come tutti gli uomini, è assente ai discorsi delle donne, siano esse mogli, compagne, mamme, sorelle. Il punto della questione è che le donne del racconto sono sorridenti nel pensiero della maternità. Non è invidia, noi uomini siamo ai margini di questi spazi, e quindi consoliamoci ammirando i paesaggi e le marine, quella perla di Medina e stando seduto difronte al pc, mi pare di guardare il mare dal belvedere. E’ la forza del racconto e della penna della scrittrice, Bravissima, In bocca al lupo.
Emanuele.
Grazie a tutti. Una delle cose belle della scrittura è la molteplicità delle letture. Mi sorprende sempre. Grazie.