Premio Racconti nella Rete 2015 “Una via di fuga” di Daniela Barone
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015La punta del coltello le sfiorò tutto il corpo descrivendone il profilo, in uno strazio lento e prolungato, riusciva a sentire ancora il sapore metallico sulle labbra quando improvvisamente udirono un forte rumore provenire da non molto lontano da dove si trovavano loro, il vento aveva rotto il vetro di una finestra. Lui uscì in fretta dalla stanza per assicurarsi che davvero fosse stato il vento ad aver mandato in frantumi la finestra, si assicurò anche di chiudere dietro di sé la porta di quella sorta di prigione improvvisata con ben quattro mandate. Una volta uscito, immaginò che dovette premere un’interruttore della luce dato che una vecchia lampadina che pendeva dal soffitto, attaccata ad un filo elettrico, cominciò dapprima ad accendersi in maniera intermittente e poi stabilmente, ad illuminare delle pareti vecchie e sporche, l’intonaco era rimasto intatto soltanto in pochissimi punti. Addossata alla parete destra della porta d’ingresso una brandina di ferro con sopra un materasso sul quale l’aveva costretta a stare stesa minacciandola col coltello. Sulla parete di fondo, in alto, dove non sarebbe mai potuta arrivare, neanche salendo in piedi sulla brandina, c’era un’apertura alta soltanto cinque dita e lunga meno di mezzo metro che almeno permetteva di far entrare un po’ di aria in quel posto maledetto.
Ricordava soltanto di essere arrivata lì dopo aver attraversato un corridoio freddo, nell’aria odore di linoleum e disinfettante, come se si trovasse in una corsia di ospedale. Si era sforzata di rimanere lucida il più possibile e forse sì, era stata portata in un vecchio ospedale ma non riusciva a mettere a fuoco nient’altro. I graffi che aveva sulle braccia cominciavano a bruciare, all’altezza delle spalle erano più profondi e le avevano lasciato delle macchie rossastre di sangue rinsecchito, davanti agli occhi un rapido flash back le chiarì come si era procurata quelle escoriazioni. Correva, non aveva mai corso in quel modo, era estate e aveva una semplice canotta sui jeans consumati, i suoi preferiti, per sfuggirgli aveva preso una strada laterale piena di erbacce e rami secchi che si conficcavano ripetutamente nella pelle nuda, d’improvviso più nulla, un colpo brutale alla testa le fece perdere i sensi e cadere rovinosamente a terra.
Giurava a se stessa che se fosse uscita viva da lì, avrebbe imparato la lezione e non sarebbe stata più così imprudente come quella mattina, se quello che era accaduto davvero era successo quel giorno, credeva di aver perso il senso del tempo e addirittura sperava che potesse trattarsi solo di un incubo. Il dolore fisico provocato da tutti quei graffi però, la riportavano di continuo a quella terribile realtà. Quando ti capita qualcosa di brutto pensa alle cose belle della vita, glielo ripeteva spesso il padre quando era piccola, una lacrima prese a scendere lentamente e a rigarle il viso quando un tintinnio di chiavi e passi umani si stava avvicinando alla porta della stanza. Sentì fare diversi tentativi prima che fosse inserita la chiave giusta nella toppa della serratura, a lei parve un’infinità di tempo. Una, due, tre e infine quattro volte girò quella dannata chiave, la porta cominciò a socchiudersi, un brivido di terrore le corse lungo tutta la schiena, convinta di dover rivedere il suo rapitore. E invece non fu così. Un uomo col volto coperto da una maschera in pelle la incitò a sbrigarsi e a fuggire con lui, capì che non doveva trattarsi del suo rapitore dalla voce rauca che pareva uscire quasi con difficoltà dalle sue labbra, era terrorizzata e sapendo bene di poter correre il rischio di finire dalla padella alla brace come pure di non avere molta scelta, lo seguì. La condusse all’esterno attraverso un percorso di cui lei non ricordava affatto, la lasciò davanti alla sua auto e si dileguò senza che lei capisse chi fosse stata a salvarla. In tasca si sorprese di avere ancora le chiavi, entrò, mise in moto e andò via da quell’inferno.
Erano passati cinque anni da quel giorno, la sua vita era andata avanti tra diverse sedute di analisi dallo psicologo e continui incubi notturni, in grembo portava il suo primo figlio e neanche la gioia della maternità le aveva fatto superare lo choc subito. Non aveva fatto parola con nessuno di quello che le era successo, diverse volte era stata sul punto di aprire quello che le sembrava il vaso di Pandora e tutte le volte si bloccava. Dopo aver letto un annuncio su un giornale in cui, ad un prezzo conveniente, vendevano un piccolo pezzo di terreno coltivabile, aveva deciso di andare a vederlo e fare una sorpresa al suo promesso sposo, il loro sogno, infatti, era ritagliarsi, di tanto in tanto, un po’ di spazio fuori dal caos della città e immergersi nella serenità della vita di campagna. Non poteva rivelargli la verità e farlo sentire in colpa per ciò che le era successo, più di quanto ne fosse stata già lei in tutti quegli anni. Quasi ogni notte un angelo maledetto le veniva in sogno e le sorrideva con un ghigno malefico, in uno dei suoi incubi le aveva promesso che un giorno sarebbe tornata a riprenderla.
Avevano programmato già il parto, non avendo alcuna intenzione di recarsi in ospedale dove solo l’odore le faceva ribrezzo, aveva deciso che avrebbe fatto nascere il suo bambino in acqua, a casa dove avevano fatto montare una piscina nella stanza che sarebbe diventata poi quella del piccolo. Mancava poco, non usciva mai di casa se non accompagnata, suo marito da lì a poco sarebbe passato a prenderla per andare al centro di analisi dove doveva effettuare gli ultimi controlli prima del parto. Assorta nei suoi pensieri, stavolta felici, immaginava il momento in cui avrebbe stretto tra le braccia suo figlio quando lo squillo del telefono la fece sobbalzare, la telefonata proveniva da un numero anonimo, rispose con un po’ di preoccupazione e riconobbe subito la voce rauca, aspra dell’uomo dalla maschera di pelle che cinque anni prima le aveva salvato la vita. Le cedettero le gambe, a stento riuscì a trovare un appiglio e a sedersi. Le dava appuntamento per il pomeriggio stesso dicendole che le avrebbe rivelato cosa era accaduto quel giorno, questo le avrebbe permesso di ritrovare la pace. Fu anche chiaro a sottolineare il fatto che sarebbe dovuta andare da sola. Il posto scelto era un parco cittadino, lì disse, con la sua maschera avrebbe dato meno nell’occhio. L’avrebbe aspettata fino alla sera ma nel dirle questo era sicurissimo che lei non sarebbe mancata a quell’incontro.
Dopo aver rinviato al giorno dopo la visita al centro e aver avvisato il marito, fingendo di sentire fitte alla pancia e di dover quindi passare il pomeriggio a letto, decise di andare incontro al suo destino, l’idea di potersi liberare finalmente di quel fardello superò la paura che le corrodeva l’anima da ormai troppo tempo. Parcheggiata l’auto all’ingresso del parco, rimase qualche minuto immobile a guardare fuori dal finestrino, una pioggia fitta e sottile cominciò a scendere giù e le venne alla mente quando da bambina si divertiva ad accompagnare con le dita le goccioline di pioggia che si fermavano sul finestrino, ne seguiva la traiettoria immaginando che potessero essere delle stelle cadenti e potesse quindi esprimere mille desideri, sicura che si sarebbero realizzati prima o poi. Il suo desiderio ora, era che quella storia finisse, con grande determinazione uscì dall’auto e si avviò al luogo dell’appuntamento. A causa della pioggia il parco cominciava a svuotarsi lentamente, quasi si sorprese nel rendersi conto di non avere paura, non le accadeva da molto tempo, una strana sensazione di serenità le attraversava il cuore e la mente. Si sedette alla panchina concordata all’appuntamento, dopo pochi istanti sentì alle sue spalle dei passi, non fece in tempo a voltarsi perché lui le fu subito a fianco e prese posto accanto a lei. La pioggia aveva smesso di scendere giù, si tolse la maschera e cominciò a parlare:
“Si chiama Moloch, mi tormenta da quando sono piccolo, decise di scegliermi quando avevo solo cinque anni, mi prese mentre dormivo, forse l’ultima notte in cui l’ho fatto, mi spiegò che ero io il prescelto perché ero figlio unico di genitori che non meritavano di avermi messo al mondo. Si sarebbe preso lui cura di me. Mi ordinò di sbarazzarmi di loro, così feci, stesso quella notte, dopodiché ho passato diversi anni in riformatorio, anni infernali in cui l’unico conforto era quando lui veniva a trovarmi di notte, era l’unico momento in cui non mi sentivo solo. Quando sono uscito da lì tutto sommato gli ero riconoscente e ho fatto delle cose per lui di cui non mi vanto ma mi serviva la sua approvazione per andare avanti. Nessuno ha mai compreso questo. La notte prima di quel giorno mi aveva ordinato di prenderti, sapeva ogni tua mossa e così feci, poi per una strana ragione mi disse che dovevo liberarti e di aspettare, di avere pazienza. Gli ho obbedito anche stavolta, è l’unica cosa che so fare bene, tra poco metterai al mondo il tuo bambino e sarà anche l’unico. Lo verrà a prendere al compimento dei suoi cinque anni. L’ho pregato di non farlo, nessuno merita di vivere come ho fatto io, non mi ha risposto ed è andato via. Sono qui perché devi sapere la verità, forse conoscendola potrai evitare a tuo figlio il destino che invece è stato riservato a me”
Sgomenta nel sentire quella storia cominciò a chiedergli cosa avrebbe dovuto fare ma la pioggia, stavolta violenta, fece sciogliere come cera il suo salvatore che era stato anche il suo aguzzino, rimase accanto a lei solo la maschera. D’un tratto cominciò a sentire fitte violente al basso ventre, erano cominciate le contrazioni, ebbe la forza di raggiungere l’uscita del parco e poi più nulla. Una serie di immagini successive le affollavano la mente: fu soccorsa da alcuni sconosciuti che la portarono al pronto soccorso, lì la raggiunse il marito e nel giro di poche ore mise al mondo il proprio figlio. Glielo misero tra le braccia, lo strinse a sé e scoppiò a piangere, non avrebbe permesso a nessuno di portarglielo via. Da lontano Moloch le sorrideva col suo solito ghigno.