Premio Racconti nella Rete 2015 “Il sacrificio del mas-cio” di Aldo Dalla Vecchia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Il giorno del mas-cio, una volta l’anno, ha segnato la tua infanzia, nella campagna vicentina degli Anni Settanta.
La consuetudine andava avanti da quando tuo padre aveva comperato la campagna e, per accontentare suo fratello, lo zio Achille, matto per salami e soppresse, aveva istituito il rito del mas-cio, che dalle vostre parti è una tradizione antichissima.
“Far su el mas-cio”, ai primi di gennaio quando il freddo era ancora pungente, le giornate molto corte e le feste appena terminate, significava uccidere il maiale o i maiali che erano stati allevati dal fattore a partire da dopo l’estate, per ricavarne insaccati da consumare nei mesi successivi, mangiandoli in famiglia o portandoli in regalo ad amici e parenti quando si andava in visita.
Tuo padre aveva acquistato quella che nel lessico familiare sarebbe diventata semplicemente “la campagna” all’inizio del 1972, per regalarla alla mamma che faceva il compleanno a fine febbraio.
L’aveva vista un pomeriggio d’inverno, se ne era innamorato a prima vista, e aveva subito iniziato una trattativa incalzante con i proprietari, una coppia di contadini avanti con gli anni.
Tutte le sere dopo aver chiuso il cantiere andava a trovarli, e quasi sempre portava tua madre e anche te, e li riempiva di complimenti e attenzioni e racconti divertenti e omaggi alimentari come salami, formaggi, bottiglie di vino e di grappa.
Dopo qualche settimana di visite e gentilezze e arguzie e blandizie, la coppia di contadini aveva ceduto.
Papà era riuscito a far sua la campagna per 20 milioni di lire di allora, un prezzo eccellente data l’estensione dei terreni, e in tempo per il compleanno l’aveva intestata alla mamma, che era stata così ricompensata per le coppe del nonno e i mazzolini di fiori ricevuti negli anni precedenti.
Da allora la campagna era diventata il vostro Eden formato famiglia, il posto più bello dove andare a passare il fine settimana, ma anche l’isola felice in cui rifugiarsi al termine di una giornata di lavoro dei tuoi.
Spesso, dopo cena, capitava che tuo padre o tua madre dicessero: «Andiamo in campagna?», e a te quella frase sembrava già una promessa di beatitudine, il più allettante degli inviti.
Quasi tutte le sere prendevate la macchina e partivate per la campagna anche solo per dare da bere ai fiori e camminare nei campi insieme al gatto Geo, il preferito di tuo padre, amatissimo anche da te e da tua madre: l’unico di tutti i gatti che avete avuto a seguirvi in passeggiate lunghissime fino in fondo alla proprietà e ritorno senza mai stancarsi, tenendo sempre il vostro passo e anzi ogni tanto indicandovi le scorciatoie tra i vigneti, perfettamente a suo agio tra di voi ed evidentemente felice di far parte della famiglia.
Per te, la campagna voleva dire molte cose, tutte indimenticabili: le domeniche di sole e risate passate insieme ai cuginetti che arrivavano dalle altre città per giocare a nascondino tra gli alberi e i fossi; la fragranza del gelsomino che si arrampicava sulla facciata di casa; il profumo estenuante delle belle di notte che crescevano ovunque, e si aprivano solo dopo il tramonto; le corse nei prati pieni di colori e profumi durante le vacanze d’estate insieme al tuo cuginetto preferito, che aveva un anno più di te e viveva vicino Pavia in un paese con il nome di un santo; le lucciole che riuscivi a vedere ogni tanto la sera.
Tua madre ti raccontava che quand’era piccola c’erano molte più lucciole, e lei e sua sorella, la zia Silvana, le rincorrevano per rinchiuderle in un vaso di vetro, dove continuavano a lungo a far luce.
La campagna aveva un fattore che dava da mangiare agli animali e si occupava di lavorare la terra.
Si chiamava Arcangelo, non aveva ancora 30 anni, era quasi completamente sordo per via di una malattia contratta durante il militare, e aveva gravi problemi ai reni, a causa dei quali doveva sottoporsi a dialisi due volte la settimana.
Arcangelo era un giovane uomo semplice e buono, e vi siete subito affezionati a lui, anche se tu, crudele come sanno essere a volte i bambini, lo trattavi con distacco e freddezza perché sentivi che era diverso a causa della sua malattia, e perché non capiva mai niente di quello che gli veniva detto.
Con Arcangelo iniziò l’epoca del mas-cio, perché lui ne era un grande appassionato e conoscitore, e in casa sua li aveva sempre allevati.
Per tuo padre, poter “far su el mas-cio” era la realizzazione di un sogno, non tanto suo quanto dello zio Achille, che viveva da qualche tempo con voi ed era una persona speciale, che non hai mai dimenticato.
Quand’era bambino, lo zio Achille aveva avuto la meningite che gli aveva lasciato, come si raccontava in famiglia, “il cervello offeso”.
Una volta avevi trovato in un cassetto il referto medico della sua visita militare, dove lo zio veniva definito “soggetto idiota”, e la cosa invece di farti ridere ti aveva messo addosso una tristezza infinita, come quando ti costringevano a vedere i film di Fantozzi, e mentre tutti si sganasciavano a te veniva da piangere.
I primi maiali, due, erano arrivati con la bella stagione, ancora cuccioli, ed erano stati sistemati in un spazio coperto accanto al pollaio.
Arcangelo se ne occupava con la massima cura, come se fossero suoi fratelli o parenti stretti: più volte al giorno preparava per loro quello che lui chiamava “el pastòn”, il pastone; li lavava con la massima cura; puliva meticolosamente i loro escrementi.
Ogni tanto andavi anche tu a vedere i mas-ci.
Ricordi i loro musi col naso schiacciato che sporgevano famelici dalle feritoie, e il fetore insopportabile che saliva dalla vasca dei liquami.
Dei maiali, quando crescevano, avevi imparato ad avere paura.
Tua nonna ti aveva raccontato che erano animali aggressivi e feroci: era capitato, diceva, che avessero sbranato e mangiato bambini vivi caduti per sbaglio nel letame.
Succedeva poi, in pieno inverno, che i maiali scomparissero all’improvviso, mentre in contemporanea la cantina si riempiva di corde sottili cui erano appesi insaccati di ogni dimensione; nessuno però ti aveva ancora spiegato che c’era un collegamento preciso tra i mas-ci che grufolavano felici e i salami che penzolavano inerti.
Quanto tuo padre morì per un incidente in montagna, una domenica di fine estate mentre voi eravate in campagna, tu avevi dieci anni, tua madre appena 34.
Perché lo zio Achille non ci rimanesse troppo male, la mamma decise che la tradizione del mas-cio doveva continuare, anche se in formato ridotto: un solo maiale l’anno.
Così, arrivò il giorno in cui anche tu partecipasti in prima persona al rito del mas-cio.
La sera prima la mamma aveva portato te e la nonna in campagna; poi era tornata a Chiampo, non ti ricordi più per quale motivo.
Come sempre quando c’era la nonna, avevi passato una notte spaventosa e insonne, piena di paure: lei ti aveva raccontato storie terribili di ladri, mostri e fantasmi, e tu eri stato tutto il tempo con gli occhi sbarrati e il cuore in gola.
Quando il mattino dopo alle sei avevano bussato alla porta, era ancora buio, e tu pensavi che fossero i rapitori venuti a prenderti; invece erano i due uomini incaricati di “far su el mas-cio”: era il giorno della Befana, il sei di gennaio, la data fissata per il rito.
Di uno dei due, quello che nella tua memoria è rimasto associato per sempre alla parola “cattivo”, ricordi dettagliatamente la faccia: larga, la pelle rossa, gli occhi stretti con l’iride chiara, pochi capelli rossicci in testa, il cappello, i denti piccoli e gialli.
Dalla tua prospettiva di bambino era molto alto, con il corpo robusto. Dell’altro invece hai rimosso ogni particolare.
Ricordi che la nonna, quando avevano bussato ed era scesa con te, all’inizio aveva aperto solo uno spiraglio per vedere chi era, come se questo avesse potuto proteggerla da eventuali malintenzionati.
Una folata di aria gelida era entrata in casa insieme ai due uomini.
La nonna li aveva subito fatti accomodare, e preparato la colazione per loro (caffè corretto), per sé (caffelatte con pane biscotto) e per te (latte col Nesquik).
Poi, i due si erano messi al lavoro.
Era ancora molto presto, stava albeggiando.
“Il cattivo” uscì di casa con un coltellaccio, seguito dall’altro.
Qualche istante dopo sentisti un urlo disumano, uscisti e vedesti il maiale che correva a zig zag come impazzito, con la gola squarciata che spruzzava fiotti di sangue.
Faceva un verso così disperato che non l’hai più potuto dimenticare.
Per te fu uno choc assoluto; non te l’aspettavi proprio, non avevi mai visto né udito niente di simile.
Il resto della mattanza si era compiuto nelle ore centrali del giorno.
Dentro casa erano stati preparati lunghi tavolacci di legno, enormi pentole piene d’acqua bollente, una quantità di coltelli, una montagna di stracci.
In mezzo a quell’arsenale, la nonna all’ora di pranzo ti aveva cucinato una pietanza nuova e straordinaria.
Ti aveva detto che era una specie di frittata, e tu l’avevi mangiata di gusto; dopo, ti aveva rivelato che quello era cervello di maiale fritto.
A metà pomeriggio, del mas-cio non era rimasto più niente, e i primi insaccati pendevano dalle cordicelle in cantina, invasa dall’odore acre delle viscere tiepide, per la gioia dello zio Achille che continuava a fregarsi le mani.
Quella fu l’ultima volta in cui nella vostra famiglia venne rispettata la tradizione del mas-cio.
Pochi mesi dopo anche lo zio Achille morì, ancora giovane, e la mamma non se la sentì di continuare.
Però l’immagine del mas-cio che corre in cortile urlando disperato con la gola tagliata da parte a parte rimarrà per sempre tra i tuoi ricordi più vivi e atroci.
Inquietudine
Splendido racconto dal potente effetto evocativo. Delle atmosfere contadine trasmette la memoria di riti antichi scanditi dalle stagioni, insieme a odori, colori, sapori. Riprodotti sapientemente l’orrore della mattanza e il dolore degli innocenti, umani e animali.
Stupenda la nonna che racconta storie terrificanti! I miei complimenti all’autore.
Molto bello. Storia di un “piccolo mondo antico” in via di estinzione raccontata con grande maestria. Complimenti!
Bello. Si sente l’odore di quelle grandi cucine di campagna con i salami appesi ad asciugare, con i pentoloni di rame in cui tutti gli odori e i sapori si fondono. C’è la sacralità della vita contadina, la penombra di quegli spazi in cui paiono darsi appuntamento gli elementi primordiali: terra, acqua, aria, fuoco. Il tutto, trasfigurato in un bel racconto di formazione.
Perché tocca al bambino fare la singolare scoperta del rito del ma-scio. E con quel maiale appena sgozzato, appeso all’architrave, che sgocciola sangue e pare dire: ogni vivanda, per dare vita, deve cedere la propria, anche il bimbo cede un pezzetto della sua infanzia profumata di gelsomino.
Quanta pena nel ricordare ‘quei musi col naso schiacciato che sporgevano famelici dalle feritoie’, quegli stessi musi che d’improvviso in inverno scomparivano ‘mentre in contemporanea la cantina si riempiva di corde sottili cui erano appesi insaccati di ogni dimensione; nessuno però ti aveva ancora spiegato che c’era un collegamento preciso tra i mas-ci che grufolavano felici e i salami che penzolavano inerti’.
C’è della poesia. La poesia di quelle battaglie giocate a scuola, dopo aver visto sui libri tanti combattimenti favolosi. E c’è la crudeltà della delusione, quella che provavamo nello scoprire che quei tamburi, il cui suono dalle pagine ci era parso levarsi tanto portentoso, erano fatti di pelle d’asino (e allora no, proprio non volevamo giocare più…).
Complimenti all’autore.
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