Premio Racconti nella Rete 2015 “MicH A El!” di Francesca Digioia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Mi chiamo Michelagnolo, un nome che nel Seicento porta dietro di sé ancora una grande eredità, da tutti però sono conosciuto con il nome del paese che mi diede i natali, Caravaggio. E già, ma in pochi sanno che io nacqui a Milano e nella città ambrosiana ricevetti il battesimo: era il 29 settembre del 1571 e nella parrocchia di Santo Stefano in Brolo fui registarto nel liber baptizatorum, nel giorno in cui la Chiesa fa memoria degli Arcangeli. Dall’arcangelo Michele – dal più feroce dei combattenti contro il Male –, non ho preso solo il nome: io il male ho dovuto viverlo, per combatterlo e vincerlo o forse, per la di lui mano, esser vinto!
A scegliere per me furono i miei genitori loro si, dite il vero, nativi di Caravaggio piccolo borgo del bergamasco, Caravas lo chiamano quelle genti ombrose, mentre io con la mia vita avventurosa, ho dimostrato che anche a Nord ci sono uomini ai quali scorre il fuoco nelle vene. Non c’era angolo del mio corpo in cui non ribolisse il desiderio di lasciare un segno nella storia e un furor senza limiti mi spingeva a voler essere il primo. Il primo ad amare, innazitutto ma anche ad odiare ad essere affamato e ad affamare, ad essere sconfitto e a vincere; con luci e ombre compagne inseparabili di viaggio.
Da Simone il Veneziano, stavo a bottega ma pativo quella pittura manierista, stucchevole e di accademia. Io dipingevo frutta e fiori come se parlassero, vedevo germogli sbocciare e mele brucate, mentre gli altri dipingevano le cose religiose della Controriforma. Odiavo quella pennellata liscia e quel colore accordato e diafano, io le setole le dovevo veder gocciolare di pigmento, oppure lo prendevo e – dopo un lungo
corpo a corpo – lo stendevo con le mani sulla tela.
Avevo 14 anni quando decisi che la mia vita a Milano mi stava stretta, avevo bisogno di cercare ciò che già ero, lontano dal quel posto. Era così. Quell’umidità dei canali che ti mangiava la pelle e quel clima uggioso, mal si conciliavano con il mio temperamento e i miei modi. A Milano lasciavo i miei tre fratelli ma loro se la potevano cavare anche senza di me, dopotutto ero diverso da loro, non li avrei più visti. La mia famiglia l’avevo già scelta: la mia famiglia era la strada. Persino il Peterzano, nonostante mi legasse a lui un lungo contratto, pensò che fosse meglio che io andassi, forse temeva che il mio talento gli rubasse la scena nella “sua” Milano e poi a lui non piacevano quelli che chiamava “lo disegno con le cose”, pensando che la natura non fosse dello stesso rango dell’uomo. Lì anche la mia “Canestra di frutta” non fu capita, mentre io vedevo il vero nelle cose, loro, poveretti, guardavano il verosimile, mentre io mi mischiavo con gli uomini loro facevano i semidei.
Fu Costanza Colonna, vicina alla mia famiglia, a indicarmi un posto dovre avrei potuto trovare fortuna e forse anche una nuova vita. Fu lei a trasferirsi nel 1591 a Roma al palazzo ai SS. Apostoli proponendomi di prendervi dimora. La generosità delle donne accompagnerà il mio peregrinare da sbandato, dall’amore di mia madre Lucia i cui baci saranno gli unici baci di donna che sarà mai valsi la pena di essere scoccati, le altre siano state esse sante o dannate furono solo un passatempo, mi usavano e, quando lo capì, le usai di più. Ad ogni modo sono state loro a salvarmi dalla fame, dalla sete e dalle vendette altrui. Già a Milano mi ero fatto dei nemici col mio carattere irriverente e scontroso, ma a Roma, nonostante vivessi con gente dalle buone maniere, io continuavo ad esercitare le mie di maniere: quelle cattive.
Arrivato a Roma, grazie ad un monsignore amico dei Colonna, riuscii ad entrare nelle grazie del cardinal del Monte. Da lui si stava bene, c’era bella gente, si mangiava a volontà; avevo tutto ciò che disideravo e pure qualche donnina che mi ronzava attorno. Presi presso di me pure un aiuto, un piccoletto, scuro e dal volto squadrato, un certo Mario il Siciliano che mi piaceva a tal punto da farlo diventare persino modello nei miei quadri.
Fu il cardinale a darmi da studiare per farmi diventare colto, impresa difficile la sua, ad un uomo di azione come me non si poteva certo chiedere di legger libri. A me bastava ascoltare le conversazioni che si tenevano a Palazzo: ero veloce nell’apprendere. Mi mettevo in un angolo e con la scusa di fare i ritratti dei suoi amici, appuntavo a carboncino ciò che dicevano. Poi quando dipingevo per loro, mettevo dentro proprio quelle cose che dicevano.
Pure nelle chiese mi aggiudicai due grande committenze, due cappelle private, e anche qui portai avanti le mie idee. Ma sia nell’uno che nell’altro caso dovetti modificare il soggetto: un San Matteo e l’angelo per San Luigi dei Francesi e una Caduta di Saulo a Santa Maria del Popolo. Belli i quadri rifiutati ma scarsi e di poco gusto i signori committenti. In questo l’ambiente romano eccepiva per gusto, tanti palloni gonfiati che non sapevano cosa fossero le cose belle, ma cosa si poteva pretendere da coloro che pensando di collezionavare anticaglie si circondavano di pezzi moderni venduti per originali greci o romani a quei nobili che li acquistavano a caro prezzo da abili scalpellini un po’ cialtroni. Ma quella vita così tranquilla non faceva al caso mio e avevo iniziato a frequentare donne di alto rango. Con loro, il gioco durò poco e qualcheduno, qualche giovane damerino che corteggiava una di queste “dame”, iniziò a farmi seguire e vedere che giacevo con lei. Lì iniziarono i miei guai.
Nulla accade a caso, e ormai a Roma persino le mie commissioni non andavano per il verso giusto. Strani questi prelati, prima sceglievano me, il più trasgressivo tra i pittori e poi rifiutavano le mie opere perché blasfeme. Facevano paura i miei modelli presi dalla strada per interpretare santi e madonne. Ma i santi avevano per forza i piedi sporchi, la loro missione li portava in giro per il mondo e dunque erano sudici, e la Maddalena era stata una meretrice prima di unirsi alle Pie donne sotto la croce e al sepolcro.
Certe cose non andavano più per il verso giusto e a furia di litigar per le piazze e a tirar sgabelli nelle osterie, mi ero fatto una brutta nomea in città; ci mancava solo quel signore di Terni a sfidarmi alla pallacorda. Lui non aveva molto da dire nei miei confronti ma si era convinto che la sua amante fosse cotta di me e questo proprio non gli andava giù. E insomma che quel tipo lì il Tommasoni mi sfidò alla pallacorda ma si scaldava troppo per i miei gusti, i suoi scagnozzi contestavano ogni palla: era una truffa vera e propria. Non tolleravo quella sfida e mi stavo spazientendo quando ad un certo punto feci un cenno al Menniti di allontanarsi e io mi misi a tirare in modo maldestro per provocarlo. Quando cedettero alle mie provocazioni, gli rifilai una palla fuori chiedendo invece un punto a mio favore. Il tipo, quindi, si avvicinò, mi aggredì verbalmente e io non esitai un attimo: impugnai un puntale che avevo sempre con me, e gli sferrai un colpo letale. Il Tommasoni era molto conosciuto a Roma e la notizia che l’avessi prima ferito e che fosse in seguito morto, scosse le anime benpensanti dei signorotti. Del Monte mi disse di lasciare presto la città; era stata emessa una condanna capitale a mio nome e a palazzo Madama i miei cenci e le mie robbe erano già accatastate in un angolo della bottega. Aveva fatto in fretta il cardinale a liberarsi di me.
Da quel dì mi prese un’ansia frenetica di cercare una nuova dimora, un luogo nel quale lavorare e vivere. Mai più ritrovai quella quiete e mai più forse la cercai. Preo davvero com’ero dallo sfuggire a condanna certa, peregrinai in vari luoghi. Quella testa me la vedevo già tagliata penzoloni e la immaginavo servita su di un piatto come la Salomé col Battista. Mi bastava vederla nei quadri che dipingevo per capire il dolore che mi provocava la notizia, e da lì fu tutta una corsa contro il tempo per lasciare la città. Da Roma fui a Napoli dove mi unì ai bogordi dei tanti viziosi che si ritrovavano alla Taverna del Cerriglio ma dopo qualche incontro fortunato e due belle tele eseguite per il Pio Monte della Misericordia e San Domenico Maggiore, e tante cose ancora da fare, dovetti fuggire. Quella condanna a vista poteva raggiungermi in qualsiasi momento e un tizio mi disse che quel posto non era più sicuro per me: la gendarmeria vaticana era sulle mie tracce.
Mi imbarcai e raggiunsi Malta. Sull’isola trovai ad attendermi alcuni confratelli dell’Ordine di Malta I cavalieri che avevano sentito parlare di me e del mio talento nelle opere che abbellivano molte chiese di Roma. Riuscirono ad ammansirmi per un po’ e dopo alcune importanti commissioni e avermi nominato “Confrater”, pensavano di poter persino domare la mia indole inquieta, ma questa non mancò di farsi presente e, alla prima occasione, mi ritrovai imbrigliato in una zuffa che mi vide protagonista. Davanti al maltolto non riuscivo a trattenermi, e la violenza era l’unico modo che conoscevo per affermare le mie ragioni. Dopo avermi rinchiuso nelle carceri del Forte San’Angelo a Vittoriosa, mi garantii invece una fuga rocambolesca in Sicilia dove ad attendermi c’era l’amico di sempre il Minniti.
Tutta la brama di dipingere allontanava la paura della morte che tosto mi inseguiva, convinto più che mai che fosse stato quello della condanna, il mio dies natalis. E anche da quella terra calda e splendida al centro del mare, dopo essere stato accolto con tutti gli onori ed essermi garantito di vivere dignitosamente, dovetti partire e mentre attendevo un salvacondotto per ritornare nella città eterna, la morte, per vero, mi raggiunse sulla spiaggia di Port’Ercole. Volevo metter fine alla mia fuga ma la dama nera, arrivò prima di quanto pensassi, rimasi vestito solo delle mie spoglie mortali, e il mio cuore l’avevo lasciato sempiterno nei miei quadri che grondavano di carne e di sangue, com’io ero e com’io avevo vissuto.