Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Corpo a corpo” di Maddalena Frangioni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

Eccolo, il mio corpo è davanti a me, lì, nello specchio. Lo vedo, si muove, si flette, si allunga, si piega, appare, scompare.

Ho un corpo! L’ho scoperto per caso, come capita, a volte, nello scoprire qualcosa senza volerlo.

Accadde tutto un pomeriggio d’estate, mentre mi stavo preparando per uscire con le amiche.Presi dall’armadio il vestito rosa, regalatomi dalla mamma in occasione del mio sedicesimo compleanno e, con un semplice gesto, lo indossai. Era un abito dritto, stretto sui fianchi, chiuso dietro da una cerniera, senza maniche, scollato davanti, lungo fino al ginocchio. Un “tubino”. Era la prima volta che ne indossavo uno. Lo desideravo da tempo e avevo pregato la mamma di regalarmelo, ma, appena me lo misi, mi sentii indifesa, insicura, impaurita all’idea di mostrarmi vestita così.

Mi guardavo per capire chi fossi. Di chi era quell’immagine che lo specchio rifletteva? L’abito nuovo aveva qualche colpa? Era neutrale  o, in qualche modo, metteva in luce la “lotta intestina” che da alcuni mesi si agitava dentro di me?

Dov’era finito il corpo infantile? Dov’era la fanciullina di un tempo con gonna a pieghe, calzini e maglietta? Chi era la ragazzina in quel “tubino” con calze nere e scarpe con tacco?

Cos’era accaduto? Che fine aveva fatto il corpo informe dal busto piatto, senza sedere, le gambe magre e i piedi quasi piatti? Da dove erano spuntate le rotondità ignote fino a allora?

Mi osservano e non mi riconoscevo avvolta in quell’abito rosa, aderente, castigato e nello stesso tempo seducente. La mia educazione severa e bigotta non ammetteva nessun cedimento alla vanità. Tuttavia non potevo non ammettere la gradevolezza di quel corpo che premeva di uscire allo scoperto con tutta la forza della nuova età dell’adolescenza.

Dentro di me si scontrava la dualità dell’ essere  e dell’apparire. Il mio corpo era come diviso tra la “sostanza” e la “forma”. facevo fatica a separare quei due aspetti che, in fondo, facevano parte di me, rendendomi unica.

Lo specchio mi costringeva a prendere una posizione. Rimpiansi gli anni di totale latenza, quando ancora il corpo non mostrava né ansie, né divisioni. Non mi ponevo domande e mi accettavo così com’ero. Per anni avevo ignorato lo specchio lungo e stretto appoggiato al muro nella camera dei genitori, scimmiottando con ironia mia sorella più grande quando lasciava la camera dopo aver dato l’ultimo sguardo alla scollatura , prima di andare dal suo ragazzo che l’aspettava sotto casa.

Ora in quello specchio c’ero io e stentavo a riconoscermi in quell’abito che cercava di contenere due piccole tette e un sederino grassoccio e sodo a prova di sculaccioni. Anche i polpacci apparivano più sostenuti e le braccia, sotto le ascelle, mostravano una peluria mai vista. Il viso con labbra dipinte di rosso e gli occhi cerchiati dalla matita nera completavano il quadro.

L’essere infantile era scomparso, cedendo il posto all’adolescente.

Volevo tornare a star  bene, dimenticando i rossori, le nevralgie improvvise, i musi lunghi, i mutismi, le ripicche che, per mesi, avevano compromesso la mia serenità. Mi auguravo che il nuovo corpo facesse pace col vecchio, con il quale avevo convissuto per ben quindici anni.

Cercai nello specchio le risposte che la mamma, per imbarazzo, non mi aveva “saputo” o “voluto” dare, ritenendole poco importanti. Anche a lei la nonna non aveva mai detto nulla del cambiamento del corpo dovuto all’età.

Le risposte arrivarono dall’esterno appena andai a passeggio con le amiche.

“Carina!” , sentii dire da un ragazzo seduto al bar del paese. Non capii e diventai rossa, poi, col passare dei giorni, quel complimento mi fece prendere coscienza del nuovo corpo che, come il primo, mi apparteneva e di cui avrei dovuto tenerne conto in futuro.

Cercai, da sola, di rimettere le cose a posto e nel riunire insieme il mio “essere” e il suo “apparire”, scoprii che l’immagine nuova di me non alterava, né toglieva qualcosa alla sostanza del  mio “essere” più genuino e profondo.

 

 

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