Premio Racconti nella Rete 2015 “La gatta” di Vittorio Venturi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Emanuela abitava nella stessa via del ragazzo, ma sul lato opposto della strada, proprio nel fabbricato di fronte al suo. I due fabbricati si trovavano in fondo alla strada, dopo di loro le case finivano e, quasi attaccato alle case, cominciava un prato, che si estendeva poi per trenta, quaranta metri. Sul prato si ergevano anche alcuni alberi striminziti, che comunque davano un poco di ombra, sotto la quale a volte qualche abitante del quartiere, in genere tra i più anziani, andava a sedersi o a sdraiarsi al fresco.
Il ragazzo ed Emanuela avevano più o meno la stessa età. Le loro finestre quasi si fronteggiavano, erano solo sfasate di un poco, ma non tanto da non permettere loro di perdersi in lunghe chiacchierate a distanza, lui dalla finestra di casa propria e lei dal balcone della sua. A volte invece il ragazzo si limitava a guardarla, sempre dalla finestra di casa, mentre lei se ne stava sul terrazzo a cucire o a leggere. La guardava a volte anche attraverso la finestra della camera da letto di lei, ma di quello preferiva non parlare.
Un pomeriggio Emanuela se ne stava come era solita fare sul terrazzo a leggere, adagiata su di una sedia a sdraio. Ogni tanto lanciava un’occhiata al prato, che cominciava pochi metri più in là, perché Ghita, la sua gatta, si trovava sul prato. Stava sdraiata mollemente sull’erba, non nella zona di ombra, ma in pieno sole, sotto il quale si crogiolava tranquilla. Aspettava i gattini, come si diceva per dire che era gravida, e si godeva in tutto riposo quegli ultimi giorni prima del parto. Si era addirittura appisolata.
A un tratto, sul lato opposto del prato, apparve un ragazzetto, poco più di un bambino, con un grosso cane al guinzaglio. Il ragazzetto vide la gatta, e subito si diresse verso di lei. Quando le fu vicino spinse il cane in avanti, fin quasi a poterla toccare con il muso.
Emanuela alzò gli occhi dal libro giusto in tempo per vedere Ghita che, svegliatasi all’improvviso e trovatosi di fronte quel muso di cane, spinta probabilmente dall’istinto di conservazione, allungava una zampata su quel muso. Un moto istintivo e incontrollato di difesa, determinato quasi sicuramente dalla sorpresa e dallo stupore nel trovarsi davanti quel muso, ma anche dalla paura e dall’istintiva e naturale ripulsa per i cani.
Il cane diede un balzo all’indietro poi, riavutosi dalla sorpresa, diede uno strappo al guinzaglio, tanto violento che il ragazzetto perse la presa e lo lasciò andare. In un attimo il cane fu sopra a Ghita. La bestiola, nelle condizioni in cui si trovava, non era certamente in grado di correre e poté fare ben poco per difendersi. Il cane le serrò le mandibole attorno al collo, o alla schiena, dal terrazzo Emanuela non poté vedere bene, poi, sempre tenendo la gatta stretta tra i denti, cominciò a correre attorno al prato sballottandola qua e là. Il ragazzetto cominciò a urlare per richiamare il cane, ma il cane non se ne diede per inteso e continuò nella sua corsa.
Emanuela, appena si era resa conto di quello che stava succedendo, aveva lanciato un urlo, era rientrata in casa e si era precipitata giù per le scale. Ma quando era arrivata in strada il cane aveva già afferrato Ghita e, quasi completato il giro del prato, stava tornando al punto di partenza. Depose a terra Ghita, già quasi priva di vita, e ritornò dal ragazzetto, che era rimasto fermo lì vicino.
Emanuela raggiunse Ghita, che si dibatteva a terra. Ghita, avrebbe poi raccontato Emanuela al ragazzo che le abitava di fronte (che aveva casualmente seguito tutta la scena dalla propria finestra), non aveva ferite visibili sul corpo, ma qualche organo interno doveva essere stato leso irrimediabilmente perché si vedeva già a occhio, Emanuela l’aveva capito subito, che la gatta stava morendo.
Emanuela la raccolse e la prese in braccio, e Ghita all’improvviso la morse a un dito. Emanuela fu colta di sorpresa, aveva allevato la gatta con tanto amore, l’aveva tenuta tante volte con sé nel letto, specie nelle sere fredde di inverno, l’aveva coccolato mille volte, sempre ricambiata con fusa indicibili. Se Ghita l’aveva morsa e le si rivoltava contro senza riconoscerla, voleva dire che era davvero finita, che per la gatta non c’era proprio più niente da fare.
“Se la mia gatta muore, ti uccido il cane!” urlò in direzione del ragazzetto.
“Eeeehhhh” fece quello: “Esagerata!”.
Proprio in quel momento Emanuela si accorse che Ghita, dopo un ultimo sussulto, se n’era andata. Allora non ci vide più. Depose a terra la gatta e si lanciò sul ragazzetto. L’afferrò per un braccio e gli diede uno strattone, tirandolo verso di sé, e immediatamente dopo lo spinse indietro. Il ragazzetto, colto alla sprovvista, perse l’equilibrio e cadde all’indietro, andando a sbattere la testa contro il tronco di uno dei pochi alberi, che casualmente si trovava proprio alle sue spalle. Prima di rendersi conto di quello che gli stava capitando, il ragazzetto si trovò disteso a terra, ai piedi dell’albero, con il sangue che gli colava da una ferita alla nuca.
Il ragazzetto cominciò a piangere, e il ragazzo che abitava di fronte a Emanuela e alcuni abitanti del quartiere che avevano anche loro assistito alla scena da lontano, corsero verso i due. Quando arrivarono si piegarono sul ragazzo e si resero conto che la ferita era abbastanza profonda, tanto che decisero che era meglio accompagnarlo all’ospedale.
Dopo che un paio di vicini erano partiti verso l’ospedale con il ragazzo e che un altro aveva preso in custodia il cane, Emanuela rientrò in casa, piangendo. Il ragazzo che abitava di fronte a lei l’accompagnò. Sua madre l’aspettava sulla porta.
“Emanuela, ma che cosa hai fatto?” le chiese.
“Quello che mi sentivo di fare, mamma” rispose lei, sempre piangendo.
E corse a rifugiarsi in camera sua.
Quello che più la stupiva, quando in camera ripensò a mente più fredda all’accaduto, era che il cane, quando lei aveva affrontato il ragazzetto, non aveva avuto alcuna reazione, non solo non l’aveva assalita, ma non aveva neppure abbaiato. Si rese conto che, se in quel suo agire d’istinto le era andata bene, aveva anche corso un bel rischio.
I vicini di casa tornarono dall’ospedale e riferirono che al ragazzetto erano stati applicati alcuni punti di sutura, ma che non c’erano traumi gravi. Le sue condizioni non destavano alcuna preoccupazione.
Più avanti nella giornata, sul tardi, quando era ormai quasi sera, venne il padre del ragazzetto, e chiese di parlare con la signorina, per chiederle scusa. Disse alla madre che il figlio gli aveva raccontato come si erano svolti i fatti e che non si potevano attribuire tutte le colpe alla ragazza, la sua reazione era comprensibile. La madre chiamò Emanuela, e lei venne, ancora piangente. L’uomo cercò di consolarla.
“Le regalerò io un bel gattino bianco, che sostituirà l’altro…” disse l’uomo.
“Perché venga poi il suo cane a uccidermi anche quello? No, grazie!”.
Emanuela continuava a piangere, e l’uomo non sapeva più cosa dire.
“Non pianga così, per favore” si decise a dire, alla fine: “che mi fa pensare alla mia povera moglie, che è morta pochi mesi fa…”.
Emanuela era innervosita, frastornata, stordita.
“Oh, senta” rispose d’impeto, senza pensarci: “sua moglie era sua moglie, e la mia gatta era la mia gatta!”.
E gli girò le spalle, rientrando in casa. L’uomo rimase muto, sorpreso, sbalordito, ancor più rattristato.
A Emanuela dispiacque immediatamente di avere pronunciato quella frase e subito se ne pentì e ne provò vergogna. Rimase qualche istante in silenzio, pensando a come rimediare, poi decise che doveva scusarsi con l’uomo. Corse giù per le scale e si precipitò in strada.
Ma l’uomo se n’era già andato.