Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Francy Beat” di Andrea Polini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

<Ecco il nulla osta, ispettore,> disse il medico legale porgendole il certificato firmato dal magistrato di turno per la rimozione della salma. <Dall’esame autoptico vedremo meglio, ma credo non vi siano dubbi. Un caso come tanti altri negli ultimi mesi.>
<Overdose?> domandò Francesca fissando l’uomo con i suoi occhi color cielo.
<Overdose, certo,> rispose il medico. disse Francesca fissando ora lo sguardo sulla povera ragazza distesa sul letto disfatto della camera d’albergo. Era bella, davvero. Un poco le assomigliava. Stessi capelli biondi, stessi occhi color cielo. Solo che aveva almeno vent’anni di meno. I colleghi stavano mettendo i suoi documenti e i suoi effetti personali nelle buste per la raccolta dei reperti, ma osservandola così, si disse, doveva aver superato da poco i vent’anni. Sì, doveva avere circa la metà dei suoi anni, ma per lei la parabola della vita si era già conclusa, e nel modo peggiore.
riprese il medico. il dottore rivolse pietosamente lo sguardo verso il corpo della ragazza che i volontari della SVS stavano adagiando in una bara di zinco per trasportarlo in medicina legale. Anche gli uomini della Scientifica, ultimati i rilievi, stavano lasciando la camera. Solo quando la sfortunata giovane fu portata via Francesca e il dottor Bizzi ripresero la conversazione.
<Sì, Guidi mi ha accennato qualcosa,> disse Francesca. <E’ come le ho detto, ispettore,> insisté il dottor Bizzi.
<Bizzi, in Europa tutti fanno come gli pare. Vengono e dettano legge. Anche noi abbiamo le mani legate, non è che non vorremmo cambiare le cose,> rispose Francesca, e un’ombra scura calò sui suoi bellissimi occhi blu.
Uscirono dalla camera, lasciandosi alle spalle il letto disfatto e il vago profumo di un fiore reciso troppo presto. Presero l’ascensore, e scesero al pianterreno. Al banco della portineria c’era il direttore. Aveva un’espressione che si sarebbe detta più seccata che addolorata. <Dottoressa, avete messo i sigilli?> domandò poco dopo che Francesca fu uscita dalla cabina dell’ascensore.
rispose Francesca.
<Certamente, dottoressa. Buona giornata.>
rispose Francesca, poi insieme al dottor Bizzi uscì sotto i porticati di via Grande. La carreggiata era quasi allagata, gli autobus che transitavano sollevavano alti spruzzi quando passavano sopra alle pozzanghere. Un clima consono per l’addio alla bella Irina.
<Ispettore, credo che l’autopsia si svolgerà domattina. Probabilmente non emergerà niente di diverso da quello che sospettiamo, ad ogni modo la informerò immediatamente,> disse il dottor Bizzi.
<Sì, non credo emergeranno novità. Arrivederci, dottore,> rispose Francesca, poi salì sull’Alfa di servizio parcheggiata quasi di fronte l’albergo. Tra poco, si disse, sarebbe arrivato l’agente Guidi e l’avrebbe riaccompagnata in questura. L’attesa, invece, si rivelò subito un’occasione per riflettere sulla sua vita. Tornò col pensiero al tempo dell’oratorio, quando con gli amici aveva messo su un complessino beat. Studiava ragioneria, all’epoca, ma con la chitarra era un piccolo fenomeno, senz’altro molto più brava che con un libro di economia politica. Prendeva lezioni di chitarra elettrica da un amico musicista, poi si scatenava sui palcoscenici dei teatri parrocchiali e delle feste di paese di tutta la provincia ed anche oltre. Si era fatta apprezzare da un discreto pubblico già in pochi mesi di “carriera”, e qualcuno, non ricordava chi e in quale occasione, aveva deciso di affibbiarle una sorta di nome d’arte, “Francy beat”. Tuttavia, Beatles, Rolling Stones e Who avrebbero scandito la sua vita e i suoi sogni per un tempo tutto sommato assai breve. I genitori, soprattutto il padre, non vedevano di buon occhio la sua passione e il suo talento per la musica, così gli studi di ragioneria tornarono presto ad assorbire completamente le sue energie, finché si diplomò con un buon 56/60. Dopo la scuola, però, per lei come per tanti altri giovani non si aprì che un futuro da eterno praticante, così, arrivata a venticinque anni senza avere alcuna solida prospettiva su cui fondare la vita si decise a tentare un concorso in polizia, che vinse senza eccessive difficoltà. Non che avesse una particolare vocazione per quel lavoro, neanche i genitori lo avrebbero considerato una prima scelta, ma si trattava comunque di un buon lavoro, soprattutto un avvenire sicuro in tempi che si prospettavano bui, e mai se ne era pentita. Eppure, quando il lato severo del mestiere di poliziotto le si mostrava in tutta la sua crudezza come in questo mattino, non poteva non provare un pizzico di nostalgia e di rimpianto per “Francy beat”. Si domandò come sarebbe stata la sua vita adesso se avesse seguito la sua vera vocazione, forse sarebbe stata una rockstar ricca e famosa, forse sarebbe diventata una ragazza un po’ sbandata, e al posto di Irina avrebbe potuto esserci lei. Chissà. le domandò Guidi appena sedette al volante della macchina di servizio.
<Niente, Carlo, solo che le scene come quella di stamani non fanno piacere. Tutto qui.>

<Andiamo, va.>
Guidi partì svelto, facendo un po’ slittare le gomme sull’asfalto inzuppo di pioggia.

L’indomani pomeriggio Francesca era nel suo ufficio in questura. Il dottor Bizzi le aveva telefonato, puntualissimo come al solito, al termine dell’autopsia della povera Irina. Per gli esami tossicologici sarebbe stato necessario attendere qualche settimana, ma non vi era dubbio che la ragazza fosse morta per sovradosaggio da eroina. Nessuna sorpresa, dunque, ma la sorpresa gliela aveva fatta Guidi quando le aveva detto che il commissario Gardona aveva letto nell’agenda di Irina i nomi e i numeri di telefono di tre uomini già noti alle forze dell’ordine, tutti appartenenti al sottobosco del narcotraffico. Guidi le aveva detto i nomi, e quando aveva pronunciato Aureliano “macho” Gomez, Francesca aveva quasi sussultato. Era tornata col pensiero ad un’estate di tre anni prima, quando insieme all’amica Simona, tutte e due reduci da storie sentimentali finite male, avevano trascorso quindici giorni di vacanza a Santo Domingo. Era stata una vacanza dallo spirito molto “beat”, non si erano fatte mancare niente, compreso un’avventura con due giovani gigolò locali. Uno di loro si chiamava proprio Aureliano, detto “macho”, e nelle infuocate notti caraibiche Francesca aveva ben compreso il perché del soprannome. Sapeva che non era certo uno stinco di santo, ma non poteva immaginare di sentire parlare di lui dopo tre anni e a diecimila chilometri da quella vacanza un po’ folle. Guidi le aveva detto che da un po’ Gardona aveva messo un agente sotto copertura addosso al dominicano, che spacciava perlopiù in piazza Grande, si e no a duecento metri dalla questura. Da quando aveva saputo che Gomez era probabilmente responsabile della morte dell’ucraina, in quanto dalle testimonianze raccolte poteva essere proprio lui l’uomo che aveva dato la droga alla ragazza in cambio di sesso, Gardona aveva deciso di affrettare i tempi. Quella sera stessa avrebbero arrestato Gomez, bastava che lui venisse a spacciare in piazza Grande, come d’abitudine. Sapeva che il domenicano non era uno sprovveduto, che con la morte di Irina avrebbe probabilmente cambiato aria temendo in qualche modo di essere associato alla morte della ragazza. La decisione di Gardona era ineccepibile, pensava Francesca, ma c’era quella lontana vacanza di mezzo a renderla inquieta, a confonderle le idee. Probabilmente lei Gomez non l’avrebbe neanche visto, ma sapere che lui era lì, che sarebbe stato arrestato, le metteva il cuore e la testa in subbuglio. Non sapeva cosa pensare e soprattutto cosa sperare. Certo, da ispettore della polizia di stato avrebbe voluto l’arresto di un pericoloso spacciatore, ma come donna, dopo quelle notti di fuoco nei Caraibi, in fondo sperava che non lo prendessero, che se ne tornasse nel suo mondo, senza più rovinare nessuno, almeno in Italia. Guardò l’orologio. Mancava poco alle diciannove. Guidi le aveva detto che quella, più o meno, era l’ora in cui si sarebbe svolta l’operazione, poi avrebbero portato Gomez in questura e da lì, con ogni probabilità, al carcere. Si alzò dalla scrivania e andò alla finestra. Piovigginava, una pioggerella triste intonata al suo umore. Tutto si stava svolgendo a duecento metri da lì. Tra poco, si disse, avrebbe visto una macchina di servizio fermarsi nel piazzale di fronte l’ingresso della questura, Aureliano sarebbe sceso, sarebbe stato condotto all’interno e sollecitamente identificato, e altrettanto sollecitamente condotto al carcere. Tutto inappuntabile, se non che lei doveva fare i conti col suo cuore di donna. Era arrivata persino ad essere gelosa di Irina. Mentre aspettava che l’auto comparisse nel piazzale, pensò alle parole di don Ezio, il parroco ai tempi dell’oratorio. Diceva che l’Occidente sarebbe stato distrutto dalla droga. Chissà, pensava, forse aveva ragione. Sarebbe andato d’accordo col dottor Bizzi. Forse, si disse, c’era qualcosa che non andava anche nella sua vita ancora un po’ “beat”. Meglio sua sorella Anna, più tranquilla, sposata e madre di due bambini, concluse. Aspettò accanto alla finestra finché, col cuore in gola, non vide l’Alfa di servizio spuntare in cima alla strada e poi fermarsi nel piazzale di fronte l’ingresso. Scese l’agente Guidi e altri tre agenti, ma di Aureliano “macho” non c’era traccia. Francesca non sapeva che dirsi, non era sicura neanche dei propri sentimenti. Osservava la pioggerella cadere fitta e insistente sulla strada, un ritmo triste, assai poco “beat”. Si disse che in questo mondo è difficile capirci qualcosa, dire qual è la parte giusta. Aveva solo una piccola, triste certezza. “Francy beat” non esisteva più. Il tempo l’aveva rinchiusa nei confini dell’età delle illusioni, poteva evadere solo sulle ali della fantasia e della nostalgia.

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