Premio Racconti nella Rete 2015 “La grande bellezza di Francesca Moscato
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015C’è sempre vento. Un vento da ovest carico di sale che schiaffeggia la baia. Continuamente. Cammino curvo, la spinta nei polpacci, la strada che si impenna e va a ficcarsi dritta dentro un pezzo di cielo. Guardo in alto e la vedo, la strada, sospesa in un impasto di nuvole e cemento. Poi cade giù. Precipita. Mi piace da sempre la vertigine dei precipizi. Inciampo nei miei passi rapidi e leggeri ora che la gravità è dalla mia parte. La faglia sussurra sotto l’asfalto e i freni dei tram sibilano sui binari. La città mi parla, certe volte. Lo fa con tante voci. E io la ascolto. Con Annie non è più così.
«Allora hai proprio deciso? E’ finita…»
Lei era in piedi, di spalle, aggrappata al bordo del lavello, il rubinetto aperto. Se ne stava a testa bassa, una curva appoggiata sulla schiena, ipnotizzata dal movimento circolare dell’acqua che scorreva sempre più chiara dentro le tazze ancora mezze piene dei nostri caffè.
«Mi dispiace, Annie. So solo che non posso più rimanere qui.»
«C’è un’altra donna, vero? E’ per questo che te ne vai.»
«No. Non c’è nessun’altra.»
Si era girata, e mi scavava la faccia con lo sguardo.
L’avevo lasciata fare.
«Hai già un posto dove stare?»
Non ci avevo pensato. Era successo tutto così in fretta che non avevo avuto il tempo di pensarci. Un posto dove stare?
No, non ce l’avevo un posto dove stare.
«Non preoccuparti, troverò una sistemazione.»
Ero già più distante da lei. Come una parola dopo una spazio, che si conquista un senso solo perché quello spazio esiste. Avevo lanciato un’occhiata al borsone, a terra, accanto a me. Sembrava accartocciato sui vuoti di quelle poche cose. Non si torna indietro.
«Adesso devo proprio andare… scusami.»
Ero rimasto lì fuori per un po’. Una mano aperta appoggiata al legno spaccato della porta. L’altra serrata in un pugno.
***
La prima volta che avevo messo piede in quell’appartamento era stato per puro caso. Io e Annie ci frequentavamo da qualche mese e non si era mai parlato di andare a vivere insieme. Stavamo bene così. Almeno credo. Ma i miei ricordi in proposito sono confusi. Era un venerdì, questo me lo ricordo bene, e il venerdì avevamo l’abitudine di andare a cena alla Casa di Nanchino, in Kearny St. Lì fanno un pollo caramellato che è la fine del mondo. Per questo c’è sempre la fila. A un certo punto un vecchio cinese era sbucato da un portone proprio accanto alla vetrina delle anatre laccate. Le ballerine, come le chiamava Annie. Si era avvicinato alla folla di persone in coda. Aveva biascicato qualcosa di incomprensibile alla coppia davanti a noi e poi, rivolto a me, aveva pronunciato una sola parola: casa.
Ci eravamo scambiati uno sguardo d’intesa. Subito dopo stavamo già correndo su per le scale di un palazzo fatiscente, quattro piani di strette spirali interrotte solo da pianerottoli minuscoli illuminati appena da lanterne di carta colorata. L’aria era intrisa di un odore di spezie che pungeva il cervello, proprio alla base del naso, e risuonava, attraversata dall’eco di sillabe esotiche. L’uomo, davanti a noi, sembrava galleggiare. Saliva lieve, come se avesse dimenticato di avere un corpo. Arrivato in cima ci aveva aperto la porta, una brutta porta di legno riverniciato, pescando tra cento chiavi tutte uguali.
Casa.
***
L’appuntamento era al Pier 39, quel posto non mi piaceva, ma Juliet era fissata con i gamberi di Bubba Gamp e io l’avevo assecondata. La prima volta e tutte le volte successive. I cartocci pieni di quella frittura profumata comparivano come doni sulla tavola e mangiare con le mani, quello sì, mi piaceva davvero tanto.
I precipizi e mangiare con le mani.
L’idea di trasformare le nostre sedute in qualcosa di meno convenzionale non mi aveva convinto del tutto all’inizio, ma il dottore era lei. Se non ti fidi del tuo analista di chi ti puoi fidare?
«Perché hai voluto vedermi? Avevamo deciso che quella di Lunedì sarebbe stata l’ultima volta. Non si torna indietro.»
«L’ho lasciata, dottore, ho lasciato Annie. Volevo che lo sapessi.»
«E bravo il mio Jonathan! Se volevi stupirmi ci sei riuscito.»
«E’ stato orribile. Lei era distrutta.»
«E tu? Tu sei distrutto?»
Forse era solo un’impressione, ma Juliet sembrava risentita, e questo mi aveva fatto salire in bocca un cattivo sapore. Amaro e sabbioso.
«Questi gamberi sanno di fango.»
Avevamo ricominciato a mangiare senza più parlare fino a quando ci eravamo trovati a lottare con le dita dentro lo stesso cartoccio per aggiudicarci l’ultimo boccone.
«Metà per uno?»
«No, mangialo tu. E poi te l’ho detto, sanno di fango.»
«Per me sono buonissimi, come sempre. Piuttosto, dimmi: che hai intenzione di fare adesso?»
«Parto. Me ne vado.»
«E dove vorresti andare, Jonathan Parker Jr?»
La detestavo quando mi chiamava così, per nome e cognome. Metteva l’accento su quello junior come se volesse ricordarmi che sarei sempre stato il posto da cui venivo.
«Ancora non lo so, ma lontano da qui. Ho scoperto che non posso più perdere tempo a fare le cose che non mi va di fare. Sono troppo vecchio.»
«Ma che dici? Hai appena compiuto trent’anni, non sei vecchio.»
«Forse hai ragione, forse non lo sono, ma mi ci sento. Sono giorni che mi sento sempre più vecchio. Chissà se il mio ritratto sta ringiovanendo da qualche parte mentre io quì invecchio a vista d’occhio?»
L’avevo guardata con una complicità ritrovata, ma nuova. Juliet aveva riso. Era quella sua risata muta che la scuoteva piano, dalla pancia al petto fino alle labbra.
Volevo baciarla e dimenticarla.
«Ho scoperto che non posso più perdere tempo a fare le cose che non mi va di fare, l’ho sentita in un film questa frase. Il problema è che continua a rimbombarmi nella testa da allora. Mi ossessiona più di questa città, più della mia paura di restare solo, più di tutti i motivi per cui ho bussato alla tua porta la prima volta.»
«Non ti credo Jonathan. Nessuno butta all’aria la sua vita per una parola che qualcuno gli soffia nell’orecchio.»
L’avevo baciata sulla guancia ed ero uscito.
La nebbia sulla baia mi sarebbe mancata.
Il momento in cui ci si scopre grandi e, qualche volta, si ritrova se stessi. L’anima che vola sopra l’acqua torbida in cui nuotano i granchi. Vivere, e non solo esistere, è una faccenda complicata. Molto bello!
Intenso. Penetrante. Avvolgente… si delineano poco le figure femminili, che sembrano quasi come la nebbia della baia, ma il personaggio maschile colma incredibilmente tuttto il racconto! Molto bello..
Grazie Marta. E’ vero le figure femminili sono come ombre dentro il racconto, volutamente, e sono contenta che tu l’abbia notato. Il conflitto del protagonista non è col “fuori” ma col “dentro” e la brevità del racconto mi ha permesso di concentrarmi su questo. Grazie ancora per le belle parole.
Vero Susanna! Quanto è complicato…Grazie per avermi letta e apprezzata.
E’ stato come sprofondare in un precipizio, mancava il fiato nella foga di rincorrere le righe. Anche a me piacciono i precipizi, almeno quanto mangiare con le mani. Guarderò quel film. Complimenti.
Ciao Roberto, grazie davvero per il tuo commento.E’ bello sapere che i precipizi non fanno paura a tutti. Quanto al film io l’ho amato molto, ma ho raccolto pareri discordanti in proposito. Sorrentino è un regista che mi piace davvero e in questo film mescola verità e visionarietà in modo magnifico. Fammi sapere che ne pensi. A presto
Quindi è per questo che il dialogo si interrompe a fine racconto?
Diciamo che a quel punto la decisione è presa, quindi ogni altra parola risulterebbe inutile.
Vero anche questo! Per che sono prolissa di parole, essere sintetica è difficile… per questo mi piace ancora di più quando nasce qualcosa di così breve e incisivo, in modo spontaneo.
ciao Francesca, sono venuto a trovarti.
Il momento che sta attorno a una decisione, con le sue figure, i suoi luoghi, la sua atmosfera che si sta abbandonando ma da cui ancora si dipende. Un’istantanea efficace e densa.
Bello che si sappia cosa lascia ma non a cosa va incontro.
Rinunciare non solo al passato, ma anche al presente che lascia intravedere un futuro scontato per andare verso un altrove che non tutti trovano il coraggio di affrontare. Intenso, mi è piaciuto.
Benvenuto Sergio! E grazie per il tuo commento. Il momento del cambiamento è difficile da catturare e mi fa piacere che la “foto” sia stata efficace. Era quello che volevo.
Grazie Teso!!!! 🙂
Grazie Francesca, il tuo è stato un buon consiglio. La visione de “La grande bellezza” di Sorrentino è stata per me una gustosa esperienza.
Chissà in quale misura, alle mie emozioni di spettatore, avrà contribuito la preventiva lettura del tuo racconto?
Certo la sinergia ha operato bidirezionalmente e rileggerti, con la mente ancora avviluppata nelle atmosfere del film, ha sprigionato nuove suggestioni.
Ancora complimenti.
Ciao Roberto, evviva la sinergia! Anch’io ho rivisto il film ieri sera e mi è piaciuto ancora di più. Per continuare sulla via di Sorrentino, stasera toccherà a “Youth”, le critiche non sono bellissime, ma verificherò di persona. Se ti piace Sorrentino ti consiglio quello che secondo me è il migliore del “maestro”: Le conseguenze dell’amore. Buona giornata e grazie ancora per il tuo apprezzamento.
Complimenti, mi è piaciuto molto il tuo racconto, ha il ritmo giusto, le immagini nitide come montagne in una giornata dal cielo terso. Si legge velocemente, è’ intrigante e non c’è nulla che annoi.
Ciao quando ho letto il titolo non volevo leggerlo perché il film lo ho AMATO al punto da metterlo nel mio Olimpo personale. Poi mi sono detta che sarà mai….Ho amato quel film ho amato l attore ho amato il suo monologo sulla terrazza di casa dove denuncia la meschinità di molte persone ben consapevole della sua ho amato la frase che citi e quindi ti dico BRAVA perche SI si possono aprire d improvviso gli occhi e decidere di cambiare vita!!! 🙂
Incredibile come da una storia, un film in questo caso, addirittura da una sola frase (sembra ruffiano, ma è la verità: anche a me è rimasta impressa da subito!), scaturisca, come in un gioco di scatole cinesi, un’altra storia di eguale intensità e (grande) bellezza. Essendo un fervente sostenitore dell’importanza delle storie (raccontate ed ascoltate) e parafrasando il detto “siamo quel che mangiamo”, direi che decisamente “siamo quel che ascoltiamo”. Davvero complimenti!
P.S. Grazie Francesca per le belle parole sul mio racconto e, visto che mi chiedi di “raccontartene un’altra”, prova a leggere l’altro mio racconto e dimmi che ne pensi.
Grazie Ottavio per il tuo bel commento 🙂
Ciao Liliana, anche per me quel film è un capolavoro assoluto, quidi potrai capire con quale rispetto e timore ho affrontato la scrittura d questo racconto che è nato dalla commistione di due esperienze diverse: la visione del film e un viaggio a San Francisco. Sono contenta di non aver deluso le tue aspettative. Grazie davvero, di cuore!
Grazie Salvatore, i complimenti sono molto apprezzati tanto più che mi è piaciuto tanto il tuo modo di interpretare l’universo delle storie e un tuo commento positivo assume un peso anche maggiore. Leggerò al più presto l’altro tuo racconto. A presto!
Ciao Francesca, questo Jonathan è un personaggio che mi piace, non beve, non tratta male le donne, parla chiaro, non è un calcolatore o manipolatore e probabilmente ogni tanto va in crisi esistenziale. Ha detto alla sua psicoterapeuta d’aver lasciato Annie, la sua donna, pur non essendo tenuto e avendo chiuso da giorni la psicoterapia. Una correttezza come la chiusura di una pratica burocratica. E’ stufo “di perdere tempo a fare le cose che non mi va di fare”. Questo personaggio è una “minoranza” in termini percentuali mentre sono in buon numero invece coloro che bevono e si ubriacano. Questo personaggio non ha paura dei precipizi, preferisce mangiare i gamberi con le mani e ha deciso di “cambiare vita”. Ha finito il trattamento di psicoterapia e questo può avere influito sul carattere.Tanti passaggi poetici, simili al suono della cetra. In bocca al lupo.
Emanuele
Grazie Emanuele, sì, Jonathan è una minoranza, in cerca di qualcosa di meglio, in movimento verso un’umanità che vuole vivere la vita intensamente, dal di dentro. Sono contenta che il racconto ti sia piaciuto e…viva il lupo!