Premio Racconti nella Rete 2015 “Il gatto nero” di Angelo Tufano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Abbrutito dall’alcool dormiva con la testa sul tavolino del bar. Ogni tanto era scosso da un brivido e farfugliava qualche parola. Forse sognava. Ad un altro tavolino, poco più in là, due persone si guardavano teneramente. Ma c’era qualcosa di strano nei loro sguardi, di eccessivo. Il viso troppo truccato di lei, con al centro un piccolo naso su grosse labbra rosse, disegnava un sorriso esagerato. Lui, a sua volta, manteneva stampato un sorrisetto furbo sotto i baffetti neri come i suoi folti capelli che si adagiavano a zazzera sulle spalle ampie. I suoi occhi luccicavano un desiderio lascivo ed una richiesta, rafforzata dalla mano che stringeva il polso sinistro della donna in segno di dominio. Una battona con il suo cliente o il suo protettore. Fuori, nella strada angusta, illuminata a malapena, l’umidità della notte si condensava in nebbia spessa, maleodorante. Una pioggerella sottile, insistente, attraversava gli indumenti penetrando nelle ossa dei rari passanti che allungavano il passo verso casa. Lui era lì fuori, impaziente ed infreddolito. Puntato sulle zampe posteriori, già da qualche minuto graffiava miagolante la porta del bar, inutilmente.
Dopo un po’ l’uomo e la donna uscirono dal locale sbaciucchiandosi abbracciati ed il gatto ne approfittò per intrufolarsi. Una volta dentro, balzò rapido sul tavolino dell’uomo che continuava a dormire con la testa poggiata su un braccio disteso e l’altro penzoloni. Il gatto nero, quasi a voler controllare ogni cosa, a fiutare ogni pericolo, ruotò in semicerchio la testa. I suoi occhi verdescuro avevano al centro una sottile, nera lama verticale. Rassicurato dalla solita vista, si distese in prossimità del braccio. Il barista, per cacciarlo da lì, gli lanciò il solito strofinaccio che finì puntualmente il suo volo sulle spalle dell’uomo che continuò a dormire. Il gatto non si mosse, sapeva che nulla avrebbe fatto seguito a quell’avvertimento. Riabbassò la testa, che aveva alzato solo per un attimo, ridando la forma ovale al suo corpo lungo e robusto che ridivenne una massa oscura. Fu allora che il barista alto e magro, si avvicinò al tavolino e scosse la spalla sinistra dell’uomo per svegliarlo. Il gatto saltò giù e l’uomo abbozzò un sorriso, ancora preso dentro il suo sogno. La seconda scossa gli sollevò la spalla dal tavolo e lui socchiuse gli occhi ma non si capiva se fosse sveglio o continuasse il suo sognare ubriaco. Poi parlò, interrotto da rumorosi singulti: “Accidenti, hic! Rolando, mi svegli sempre sul più bello. Ero in riva al mare hic! correvo nel sole e raccoglievo conchiglie piccole, tutte colorate hic! e grandi con dentro il rumore del mare. Ci stavo così bene hic!”.
“Poche storie, Arturo, è tardi devo chiudere e tu devi andare via”.
“Andare dove? Lo sai che non ho una casa”.
“Questo lo so, ma so pure che non puoi dormire qui dentro. E’ ora di chiudere e devo mettere un poco in ordine il bar”.
“Un altro poco, ti prego. Fuori fa freddo… è buio”.
“Forza Arturo” lo esortò l’uomo mentre, infilatagli una mano sotto il braccio lo aiutava ad alzarsi.
“Aspetta un po’” piagnucolò Arturo ripiombando a sedere con gli occhi acquosi di alcool , congiuntivite e lacrime “non so dove andare”.
“Non farmi incazzare” lo incalzò il barista ma le sue parole esprimevano più comprensione che minaccia “lo sai che qui non puoi stare” riprese con tono più blando “Belzebù è venuto a prenderti. Ti condurrà in qualche posto all’asciutto dove potrai riprendere a dormire”.
L’uomo si accorse allora del gatto che guardava la scena seduto sul pavimento.
“Ciao Belzebù, gattaccio nero. Sei venuto a riprendermi per portarmi con te all’inferno, vero?” Il gatto serpeggiò lentamente la coda.
“Va bene, verrò, verrò. Non sarà peggio di qua”. Il gatto continuò a fissarlo immobile, in attesa.
“Basta che non scappi d’improvviso, come l’anno scorso, quando in un lampo mi abbandonasti al centro della strada e quell’auto mi spezzò una gamba e manco si fermò per vedere se ero morto. Come non se ne fermarono altre che per poco non mi passarono sopra completando l’opera della prima. Sono vivo per miracolo”.
“Arturo, Arturo, quando sei ubriaco racconti sempre la stessa storia. La colpa non fu del gatto, che è l’unico amico che hai, ma del vino che continui a bere dalla mattina alla sera. Guardati, sei uno straccio”.
L’uomo abbassò gli occhi e si guardò con pena il vecchio cappotto sdrucito, fece di sì con la testa più volte e zoppicando, appoggiato al barista raggiunse lentamente la porta attraverso la quale uscì preceduto dal gatto.
Appena fuori fece qualche passo malfermo di lato, poi appoggiò la schiena al muro e lasciandosi scivolare contro di esso, si sedette per terra. E lì rimase seduto.
“Sono troppo ubriaco per camminare. Non posso seguirti Belzebù. Va, portami un letto” e sorrise, storcendo la bocca per la battuta che aveva fatto.
La gamba rotta gli faceva più male adesso. Belzebù non voleva restare lì. Sotto la pioggia faceva troppo freddo ed era troppo umido, anche per un gatto. Allora miagolò guardando Arturo ma sapeva che, senza l’aiuto di Rolando, Arturo non si sarebbe mosso.
Dopo un quarto d’ora la serranda echeggiò il suo stridore nella notte fino al tonfo finale. Arturo riaprì gli occhi e guardò Rolando.
“Il solito supplemento!” sbuffò quest’ultimo, si curvò su di lui e messe le mani sotto le sue ascelle, con maggiore e più penoso sforzo, lo aiutò a rialzarsi.
“Diventi sempre più pesante, più pesante con i tuoi stracci bagnati, con la mia schiena che mi fa sempre più male e questa nebbia che impasta lo smog nei polmoni”.
“Non so se ringraziarti per il tuo aiuto” bofonchiò con tono di rimprovero Arturo una volta in piedi e, corrugando la fronte, inarcò le sopracciglia, spingendole una in alto ed una in basso. Poi prendendolo per il bavero del cappotto ed avvicinando il suo volto a quello dell’altro gli soffiò in faccia con il viso stravolto: ”Lo sai, lo sai Rolando che lei mi abbandonò d’improvviso, senza una parola, dopo dieci anni, dieci anni, capisci? L’ho cercata…se l’ho cercata. Rolando, io l’amo ancora e lei dov’è, con chi sta?” Le ultime parole, quasi gridate con la voce rotta, finirono in un pianto silenzioso, la fronte appoggiata sulla spalla del barista.
“Certo Arturo, l’hai cercata ed hai trovato una bottiglia che fin dal primo incontro è diventata la tua compagna fedele. Vero?”
“E’ l’unica cosa che mi rende sopportabile lo strazio della mia vita, quando il dolore mi si schianta dentro e vorrei strapparmi il cuore dal petto” e così dicendo afferrò con la mano il suo cappotto all’altezza del torace e lo strattonò, poi riprese quasi con dolcezza come se parlasse della sua amante “lei mi sorride invitante, disponibile a svuotarsi nelle mie viscere per far sentire il suo calore nel gelo della mia anima. Lei si prende cura di me”.
“Certo, e curandoti ti avvicina ogni giorno di più al camposanto. Dai, forza che devo andare via”.
“Me lo avevi detto, mi avevi avvisato quando lasciò te per venire con me, lascerà anche te, mi dicesti. Ma io non volli crederti pensai che fossero le parole di fiele di un uomo abbandonato. Ti ricordi Rolando, ti ricordi?”.
“Mi ricordo, mi ricordo. Come faccio a scordarmelo con te che me lo ripeti ogni volta”. Poi si liberò piano dal pugno che ancora stringeva il bavero del suo cappotto, con la compassione per un dolore che aveva conosciuto anche lui. Un dolore che ancora gli circolava nel sangue quando ci pensava, che faceva più aspra la saliva che inghiottiva come a voler ricacciarsi dentro tutta l’amarezza. L’amarezza che gli era rimasta nella vita, che non lo aveva più abbandonato e che aveva fatto di lui un uomo triste.
“Andiamo Belzebù” fece Arturo cercando di mantenere l’equilibrio appoggiando il braccio sinistro sulle spalle di Rolando “anche tu mi hai tradito. Ma la notte, dopo i tuoi giri, ritorni da me. Lei non tornerà mai”.
Quasi ad avviarlo e per controllare se ce la faceva a stare in piedi, Rolando lo sostenne per qualche passo poi svanirono nella fredda nebbia notturna, preceduti dal gatto nero.