Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Es-presso” di Linda Brillante

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

Mentre passeggio l’aria fredda mi pizzica il naso e mi brucia i polmoni. Ho fretta, cammino a passo svelto. No, non è vero, non ho fretta, ma mi comporto come se ne avessi. Così evito che la gente mi parli per chiedermi qualcosa di fastidioso o irrilevante. Così evito di pensare. Non è vero. Penso tanto, ma è tutto ingarbugliato, sempre lo stesso pensiero fisso e indefinito che come una macchia d’inchiostro impregna e confonde tutto il resto.  Inaspettatamente mi fermo. La luce delle tre sta illuminando quell’insegna all’angolo come fosse un quadro. Che strano. Che bello.
Faccio un passo, torno indietro, poi mi decido. Colto da ispirazione con uno slancio mi avvicino e spingo la porta a vetri.  In un istante mi ritrovo dentro al piccolo bar angusto. 

L’aria è pesante, sa di carta da parati ammuffita. Voglio andarmene, ma i piedi restano ostinatamente incollati al pavimento. Perché in questi giorni sono così incoerente? Perché non sono in grado di prendere una decisione che sia una e portarla avanti fino alla fine? Dopotutto è della mia vita che stiamo parlando. A nessun altro dovrei permettere di decidere del mio destino. Nulla dovrebbe interferire con la mia dannata voglia di spostare un piede dopo l’altro e uscire da questo patetico buco così come ci sono entrato. Eppure non mi muovo. Resto lì imbambolato a fissare una fotografia oscena fotocopiata in bianco e nero e appiccicata malamente sulla parete. La cosa che più mi disturba sono gli angoli della pagina, sollevati e arricciati verso l’alto. Sembrano voler scappare via… Sto per tendere la mano e toccarli quando una campanella alle mie spalle mi riporta alla realtà. La barista striscia accanto a me e si mette dietro al bancone. Ha l’aria di una donna consumata. Stringe tra due dita un mozzicone di sigaretta con una lunga striscia di cenere. La cenere sta per cadere, ma non cade.

Mi chiede cosa prendo. Aggrotto le sopracciglia e chiedo un caffè, non so perché. Lo chiedo ristretto, ma sarà inutile. E’ più forte di me. Dietro la pesante coltre di cinismo c’è sempre stato e sempre ci sarà un timido sognatore.  Il mozzicone di cenere rimane ostinatamente attaccato alla sigaretta mentre la barista armeggia con le manopole della vecchia macchina del caffè. Non si disintegra neppure quando poggia sgraziatamente la tazzina sul bancone di legno nero tarlato. Pago e mi metto a sedere in un angolo. Se restassi lì impalato, non capirebbe.
E’ strano.  Sono piuttosto compiaciuto in questo piccolo squallido bar. Circondato da un’allure di malessere mi sento a mio agio come non lo sono mai stato in queste ultime settimane, o mesi, o anni.

Ricordo la prima volta che arrivai in città, provai un sentimento simile.  La sensazione di vivere in una comoda bolla fluttuante. Isolato, riparato, libero. E’ facile farlo, se sei uno straniero. E se non conosci la lingua, sono queste le due condizioni per la bolla. Vi spiego come. Quando arrivai due anni fa, non sapevo distinguere (linguisticamente parlando) un’escargot da un croissant. C’eravamo solo io e l’eco del mio cervello. Tutto il resto non era che simpatico rumore di fondo. I problemi arrivarono dopo. Chi dice che l’integrazione fa bene? Sono tutte balle, l’integrazione genera solo confusione. A che serve imparare una lingua che non sentirai mai tua? L’unica cosa che ne può derivarne è un malsano senso d’inferiorità per chi la sa male, oppure arida frustrazione per chi la sa bene. Il dramma dello straniero erudito che si sente sempre e comunque straniero. Stringo la tazzina non più rovente tra le mani. Sono due anni che mi sento uno straniero a casa mia. «Casa mia…» Il caffè annacquato e le lezioni di francese non hanno fatto che aggravare le cose. Se pensate di trasferirvi all’estero, vi do un consiglio: non imparate mai la lingua.
Credetemi, non fa che trasformarvi in creature miserabili.

Finito di propinare importanti lezioni di vita ad un uditorio invisibile, decido di rispondere al telefono. E’ già un po’ che non smette di vibrare.

«Dove sono?» Dalla voce mi sembra agitata.

«Sono in un bar.» Forse non avrei dovuto dirglielo.

«Non essere ridicola, sto bevendo un caffè.» In realtà suona strano persino a me.

«Non so quando torno. Tu non aspettarmi.»

Spengo il telefono e tolgo la batteria. A quanto pare ci sono applicazioni che possono localizzare il telefono anche da spento, se la batteria è attaccata. Non so se è vero, ma meglio non rischiare.
Mi porto la tazzina alle labbra e bevo un sorso di caffè. Quell’amaro sulla lingua mi riporta alla realtà. In un momento, il piccolo bar non sembra più così sicuro. Mi alzo di slancio, pago ed esco. Ora la barista potrà finire la sua sigaretta.

Cammino con gli occhi bassi, lo sguardo fisso sulle ombre delle gambe attorno a me. Sembrano tutte uguali… Pensiero spaventoso e confortante. Penso che forse questa è l’ultima volta che passo per di qua e improvvisamente mi sento euforico. Sì, euforico. Avrei dovuto prendere questa decisione tanto tempo fa, senza lasciare che i giorni si susseguissero pigri uno dopo l’altro, sospeso in un circolo di viziosa abitudine.

All’epoca mi era sembrato rassicurante, tutto quello che avevo sempre desiderato. Qualcuno che battesse le mani e mi dicesse “bravo, ce l’hai fatta”. Qualcuno che capisse, qualcuno che apprezzasse. Sorrido. E’ ridicolo, no? Io sono ridicolo. Viaggiare chilometri e chilometri, cambiare casa, cambiare vita, cambiare patente e persino assicurazione sanitaria solamente per sentirmi dire “bravo”. Già, solamente per questo.

Da quant’è che cammino? Un’ora? Due ore? Le serrande dei negozi si stanno già abbassando. In questo paese la gente non sa cosa voglia dire divertirsi. Le gambe mi fanno male, i muscoli mi bruciano, le scarpe mi stringono. Voglio andare a casa. Voglio andare a casa. Voglio andare a Casa.

Per un po’ non penso ad altro. Svegliarmi la domenica mattina con la voce alterata di mio padre e mia madre che discutono di politica. Sentire il treno che arriva in stazione fischiando sopra le rotaie. Bere un caffè al bancone, scegliere il giornale la mattina. Ascoltare con attenzione il chiacchiericcio irrilevante degli amici di sempre.

Arrivo al mio appartamento, digito il codice a quattro cifre e il portoncino d’ingresso si apre con uno scatto. Salgo le scale a piedi fino all’ultimo piano, giro la chiave nella porta, getto la ventiquattrore in un angolo, mi tolgo le scarpe e mi lascio cadere finalmente sul letto. Chiudo gli occhi, fisso il soffitto, poi li riapro. Non mi sono nemmeno tolto il cappotto. Sfilo la sciarpa, mi manca l’aria. Giro la testa. L’idea fissa sempre quella.

La valigia è ancora lì. Davanti all’armadio, dove l’ho lasciata la sera prima. Infilo una mano in tasca. Stringo tra le dita il cellulare, assieme alla batteria staccata. Devo solo accenderlo e chiamare un taxi. Se parto con il volo delle venti, posso arrivare a casa per cena. Giro la testa dall’altro lato, verso la scrivania. E’ piena di carte e scartoffie, tutto il lavoro della scorsa settimana lasciato in sospeso. Rieccola, quell’insistente sensazione di oppressione da cui cerco inutilmente di evadere. Chiudo gli occhi. Ho ancora mezz’ora per decidere. Sì, mezz’ora. Resterò così per altri trenta minuti e poi…

Suona la porta. Apro. E’ lei. Mi guarda con quello sguardo carico di ferito rimprovero. Abbasso gli occhi.

«Parti? » Chiede, con un filo di voce.

Istintivamente mi volto verso la valigia già pronta di fronte all’armadio. Esito.

Trenta minuti… basteranno?

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8 commenti »

  1. La spigliatezza nell’incedere con un linguaggio libero da orpelli: linda la forma e brillante lo stile (è un nome d’arte?), mi hanno reso la lettura del racconto davvero gradevole.
    E pensare che il caffè non mi piace e che il mio id non è mai stato nei pressi.

  2. hai reso bene l’armosfera, l’indecisione, l’estraneità. Siamo sempre di più tutti un po’ così, no? A prescindere dalle nostre storie individuali. facile riconoscersi in quell’inquietudine, brava.

  3. Grazie per aver letto il mio racconto 🙂

    @Roberto – Sì, è un nome d’arte, è il nome che uso nel mio blog dove lascio di solito i miei racconti ed ho voluto mantenerlo.

    @Sergio – Grazie mille, sono felice che ti sia arrivato il messaggio che volevo trasmettere. In questo momento vivo all’estero e ho cercato di mettere nero su bianco quelle emozioni

  4. Vivo all’estero anch’io e ho scritto un racconto che si chiama “Inespresso”… che ci accomuni la nostalgia del caffè fatto come si deve? 🙂

  5. E’ la prima cosa che manca! 😀 mi hai incuriosita, lo trovo online, il tuo racconto? Io ho un blog pieno di racconti sul caffè, uno per ogni tipo di caffè ^__^ sono una fanatica!

  6. È qui in concorso, si chiama Inespresso.

  7. qProtagonista di questo dialogo interiore uno stato d’animo, quello dell’io narrante, dominato dall’incertezza e dal desiderio di sentirsi vivi, accettati, considerati. La vita da “straniero” pone sempre interrogativi esistenziali, come ben mette il luce l’autore che passa attraverso diversi pensieri e preoccupazioni, i più diversi e incredibili. E’ la fine però che solleva il lettore nel sentire che forse le cose cambieranno e la leggerezza tornerà a sfiorare quell’animo, rendendolo aperto all’ignoto. Interessante!

  8. Grazie Maddalena, ci sarebbero molte altre cose da dire sulla vita da stranieri, quella che vivo ogni giorno, ben oltre le “cinque cartelle” 😉

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