Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Spiriti d’acqua” di Dan Cerro

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015
  • Mamma, quando andiamo al pozzo?
  • Prima che cali il sole, amore mio, quando l’aria sarà più fresca.

Se c’è una cosa che fa impazzire di gioia Godà è il contatto con l’acqua. E’ irrequieto come un cucciolo di cammello fin quando non può sguazzarci dentro.

Mariama, che come tutte le mamme non sa resistere a quegli occhi grandi come due lune, pur di vedere la sua bocca da baci stendersi in un sorriso, andrebbe a cogliere per lui tutte le stelle del firmamento. Ma Godà non chiede nulla esplicitamente. A quattro anni ha già assimilato la fierezza dei Tuareg. Non si lamenta per il freddo della notte, non chiede acqua e cibo e sa che piangere è un disonore. Non ricorda la faccia del padre, partito da due anni per cercare un futuro, senza dare più notizie, ma stringe continuamente la croce d’argento che gli aveva donato salutandolo.

  • Mamma, cosa mi disse papà?

E’ la stessa domanda che si affaccia alla bocca di Godà da qualche mese, nel faticoso tentativo di coglierne il significato.

  • “Figlio mio, ti dono i quattro angoli del mondo perché non sappiamo dove moriremo”.

Mariama la ripete pazientemente, con lo stesse parole e lo stesso tono, rispettando le antiche ritualità del suo popolo, aperto a ogni spazio e a ogni vento.

Ma non volendo fare di lui già un uomo maturo, non si affanna nelle spiegazioni e lo accompagna nelle sue oasi di favola, abitate da spiriti della natura. C’è tempo per il Corano e per le disillusioni. E’ invece il momento di cogliere l’anima di ciò che incombe, come il sole, la luna, la sabbia, le stelle e persino l’acqua di quei pozzi profondi.

  • Mamma, ma anche nei pozzi vivono i Ginni?
  • Certamente, proprio come quelli che abitano il lago sotterraneo di Agza.
  • Quello dove si lanciano i sassi per vedere l’arcobaleno?
  • Sì, amore mio.
  • E perché nei pozzi non si vede nulla?
  • Perché i Ginni non ce la fanno a stare sotto questo sole infuocato.
  • Allora posso mandargli un bacio giù con il secchio?
  • Mi sembra una buona idea, ma andiamo al pozzo più lontano, perché quelli qui intorno sono abitati da spiriti molto arrabbiati.

Mariama è molto preoccupata per ciò che sta avvenendo ad Arlit, circondata da miniere per l’estrazione di un minerale di cui non ricorda il nome ma che sa essere usato per far accendere le luci di tutta la Francia. Qualche donna del villaggio le ha detto che la causa di tutte quelle morti e di quelle nascite segnate da malformazioni sia proprio l’acqua.

I dottori dell’ospedale negano ogni rapporto causale con le attività minerarie e del resto i referti delle analisi dei numerosi ammalati non segnalano alcunché di anomalo. Ma Mariama non si fida e non si spiega quell’assillante presenza di francesi in tuta mimetica e fucile. Teme che l’ombra della morte li raggiunga da un momento all’altro.

Dopo la lunga passeggiata al pozzo, dove Gadà salta di gioia per le secchiate d’acqua fresca e limpida, Mariama approfitta del suo buon umore per annunciargli una decisione importante. Partiranno presto per andare a cercare il padre, lungo le vie carovaniere che conducono a Tripoli, linee arbitrarie tracciate nell’immensità del deserto di sabbia, come rotte in mare aperto.

Il piccolo Gadà non batte ciglio e si prepara ad affrontare i punti cardinali con la stessa libertà con la quale le lettere dell’alfabeto tuareg si dispongono sulla pagina. Vendute le capre e quindi tutto quanto conferisca dignità e rispetto nella comunità, dopo alcuni giorni trovano un camion su cui salire, traboccante di umanità disperata e silenziosa, diretto a Dirkou, nel nord del paese.

Il rombo del motore li accompagna come un’agonia meccanica, indegna di tanta fierezza, dipingendo sul volto dei passeggeri la muta rassegnazione a quella profanazione del silenzio. E’ uno strappo al tessuto armonico che lega quelle esistenze alla terra madre e che ognuno in cuor suo teme non si potrà facilmente ricucire.

In balia degli eventi, vengono assaliti e derubati dei gioielli e dei viveri prima di raggiungere Sebha, oltre il confine libico e in quei territori di nessuno devono anche subire le angherie della polizia che li brutalizza e li rinchiude. Mariama, isolata assieme alle altre donne e bambini, quando viene a sapere che agli uomini è stata fatta bere acqua fetida per provocare diarrea e poter sequestrare ovuli di banconote nascoste negli intestini, si prepara al peggio. Sa che la maggior parte di loro sarà costretta ad interrompere il viaggio e a cercare lavori di miseria per sopravvivere, ma non può immaginare che la sorte le sta per riservare un destino da schiava, fatto di stenti e di attese, lungo l’interminabile catena delle compravendite di merce umana destinata all’imbarco clandestino.

Gadà osserva e si sente fiero di appartenere ad un popolo che non prega e non mendica. I suoi grandi occhi di luna guardano oltre.

  • Mamma, c’è l’acqua dove stiamo andando?
  • Oh sì, più di quanto tu possa immaginare. C’è un paese che nuota in un mare immenso come il deserto. Ed è tutto verde, con mille fiumi e mille laghi.

Gadà spalanca gli occhi incredulo. Non riesce nemmeno a pensare a un luogo tutto verde e men che mai a un deserto di acqua. Allora Mariama lo abbraccia per infondergli sicurezza e per celare il suo sguardo velato di angoscia.

Quando le deprivazioni stanno quasi per sopraffare la speranza, riescono a raggiungere Tripoli. Per giorni attendono il segnale, con il cuore sempre all’erta, fino a quando un uomo sfregiato bussa alla porta del loro rifugio di fortuna. Si imbarcarono allora in tutta fretta di notte su un gommone, stretti fino a non potersi più muovere. Gadà è emozionato di poter solcare l’acqua, anche se non gli è stato dato il tempo di toccarla e aspetta pazientemente che l’alba gli riveli le forme e i colori del mare. Altro rombo nel silenzio, altro viaggio nel nulla, scosso solo da occasionali sobbalzi sulle onde, dune capricciose del mare.

Mariama è tesa e lo tiene in grembo coprendogli il volto per proteggere la sua innocenza, mentre a bordo cominciano a scatenarsi le sofferenze e le intemperanze. Il terrore dell’acqua, il mal di mare, le impellenze fisiologiche e le violenze degli scafisti rendono la piccola arca della speranza sempre più ingovernabile, fin quando accade l’inevitabile. Un’onda erratica sorprende tutti e provoca istintivamente l’accalcamento sottovento, sbilanciando e facendo ribaltare il gommone.

In un istante tutti si ritrovano in acqua tra le urla di paura. Ed è tale il desiderio di toccare il mare che Gadà non riesce a percepire la tragedia in atto. Prevale inizialmente la sorpresa di essere totalmente circondato dall’acqua, che anziché scivolare via dal suo corpo ed essere inghiottita nella sabbia, aderisce intimamente e persistentemente alla sua pelle arsa, conquistando ogni angolo nascosto. Sente i piedi fluttuare come se volasse ma allo stesso tempo, come sostenuto da una forza amica, il corpo gli sembra sorretto dal tenero abbraccio dei Ginni del mare. Ma l’oscurità totale esalta i sensi e quindi il freddo, la salsedine negli occhi e i lamenti attorno a lui lo distraggono dal suo atto d’amore con il mare. Gli giunge distinta la voce della mamma, rotta dall’acqua deglutita e dalla disperazione, che ripete il suo nome ossessivamente come il verso di uno strano uccello.

  • Mamma, sono qui.
  • Gadà, amore mio! Non ti muovere! La mamma ti viene a prendere!

Tranquillizzato, si lascia allora cullare dal mare, che lo accarezza e lo accoglie come quando era nel ventre materno. Immerge anche la testa e i lamenti si trasformano in canti lontani, che lo portano sognante a cercare l’arcobaleno nelle profondità. Tenta per l’ultima volta di attrarre i Ginni schivi, lanciando bacetti in tutte le direzioni.  E’ felice e vuole raccontare tutto alla sua mamma, ma sotto il cielo stellato ogni suo richiamo resta senza risposta.

La paura sopraggiunge allora improvvisa, come quei rari tuoni nel deserto. Il buio inghiotte la sua voce mentre le lacrime si mescolano al mare. Qualcosa gli blocca il respiro. Vede una colonna di luce accarezzare la superficie delle onde, come un lungo tentacolo di una creatura marina, che si sofferma e riprende, sparendo a tratti e ricomparendo in un altro punto, fino a quando lo raggiunge. Accecato da un lampo, lascia sfuggire dalle sue labbra un lieve lamento, prima di sentirsi afferrare da due braccia forti.

Si ritrova in una nuova barca, dove uomini bianchi, armati come quelli delle miniere, urlano parole incomprensibili, ma riconosce molti dei volti presenti sul gommone spuntare da bozzoli di fogli lucenti come l’argento. Tra questi, anche quello della mamma che già si spalanca a lui per accoglierlo tra i suoi seni.

  • Perché piangi mamma? Io non ho avuto paura del mare…

 

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3 commenti »

  1. Considerare l’odissea dei migranti, esplorandola dal punto di vista di un bambino profugo, oltre a generare commozione, contribuisce ad ampliare la prospettiva.

  2. Bello. Confesso che avevo iniziato la lettura un po’ prevenuto, l’argomento si presta a svolgimenti troppo facili. L’hai risolto ocn eleganza.

  3. Un tema attuale, molto toccante e profondo, per un racconto che in poche righe narra la tragedia, la speranza e ci ricorda che i bambini sono uguali in tutto il mondo e dovrebbero avere uguali diritti.

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