Premio Racconti nella Rete 2015 “Storia di Uliano” di Andrea Ercolini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Nascere in una famiglia popolare e socialista nel 1918 poteva anche voler dire ritrovarsi per il resto della vita un nome come Vladimiro oppure Comunardo oppure, come in questo caso, Uliano.
La Rivoluzione d’Ottobre aveva avuto anche influenze e conseguenze di questo tipo, non solo in Italia, ma sicuramente da noi il fenomeno fu più rilevante.
Il padre di Uliano era un socialista della prima ora, un operaio meccanico che partecipava a tutti gli scioperi, odiava i preti ed era considerato un vero sovversivo. Quando arrivò il momento di dare un nome al suo primogenito maschio, nella primavera del ’18, come non pensare ai grandi fatti di Russia e al loro luminoso condottiero, Vladimir Ilic Ulianov Lenin?
Scartato Vladimiro (“troppo italiano”), messe a tacere le proteste della moglie, che avrebbe pescato volentieri nella grande tradizione cattolica o perlomeno nazionale, al nuovo nato fu dato il nome da quello che era in realtà il cognome vero di Lenin, Ulianov, italianizzato in Uliano.
Il piccolo Uliano mostrò subito la propria indole scorbutica e ribelle. A scuola si accapigliava con gli altri bambini e la maestra lo spediva fuori in cortile, dove scontava la punizione scavando buche e catturando lucertole. Un compagno di classe che aveva parlato male di suo padre se ne era ritrovata una viva nella cartella. Uliano voleva bene a suo padre, anche se gli impediva di partecipare alle feste e ai giochi del doposcuola.
Nei duri anni ’43–‘44 fu una decisione scontata salire al bosco e unirsi ai partigiani. Giovane forte e coraggioso, seppe ben presto meritarsi l’amicizia e la stima dei compagni. Uno di loro, partigiano di un villaggio vicino, gli presentò la Gemma, una ragazza alta e mora che andava a imparare cucito e ballava benissimo il liscio. Si fidanzarono nell’estate del ’45.
Lunghi anni di guerra avevano offeso anime e corpi della gente. Paesi interi ridotti a dei mucchi di macerie. Una povertà antica era tornata ad avvolgere tutto, uomini e animali, orti domestici, pietre e mattoni. Quell’estate la vita ricominciò, si tornò a pensare anche all’amore. Nelle piazze martoriate le orchestrine facevano della buona musica. Fra un ballo e l’altro si dimenticavano i problemi e la mattina dopo ci si alzava con una gran voglia di ricostruire.
Uliano era uno di quelli che credevano si potesse veramente mettere mano alle cose e sistemarle per davvero.
Quando alla cellula, fra compagni, discutevano di lavoro, di padroni, di diritti, di case agli operai, ascoltava tutti, si appassionava, interveniva. Ma spesso non capiva. Per lui ci si allontanava sempre troppo dai noccioli dei problemi. Si facevano troppi discorsi, e troppo generici, quando la risposta era semplice e a portata di mano: bastava fare come in Russia!
La rivoluzione non era però l’unico grande sogno che aveva Uliano. Certo, quella avrebbe da sola realizzato i sogni di tutti. Ma in attesa del grande evento, Uliano sperava di avere un anticipo di felicità. In realtà questo era stato, prima del suo, il sogno di suo padre, che una morte prematura gli aveva impedito di concretizzare.
La famiglia Niccolai abitava in una bella casa di proprietà del Commendator Donati, come molte altre cose in paese, a cominciare dalla fabbrica dove Uliano lavorava ormai da quindici anni.
I Niccolai erano entrati in quella casa che la grande guerra era appena iniziata. Stavano in affitto, naturalmente. Ma con la promessa da parte del Commendatore che un giorno sarebbe stata messa in vendita, e il primo ad essere interpellato sarebbe stato, come normale, colui che l’abitava già da tempo. Negli anni il padre di Uliano si era fatto avanti più volte, ma la risposta del Commendatore era stata sempre la stessa: “ancora non ho deciso, caro Niccolai, ma stai tranquillo che quando deciderò di venderla sarai tu a saperlo per primo”. Adesso la casa era abitata da Uliano e la sua famiglia e il padrone di tutto era diventato il figlio del Commendatore, ma ancora niente si era materializzato e le promesse si rinnovavano tali e quali a prima.
In quella casa Uliano era nato e cresciuto; lì aveva fatto le sue prime scoperte, aveva avuto i suoi primi dolori. Lì aveva visto morire suo padre. “Per coltivare i sogni” diceva il babbo “bisogna avere prima di tutto delle certezze, e se hai un tetto sopra la testa, hai già la più grande delle certezze”.
Da allora il pensiero di possedere un giorno quei quattro muri era diventata la sua ossessione. I compagni di partito, per la puntualità con la quale sollevava il “problema casa” ogni volta che la discussione arrivava anche solo a sfiorare l’argomento, lo avevano soprannominato Calcina. Ma lui non se la prendeva, anzi, ne era orgoglioso, come un portabandiera fiero di portare in giro il proprio labaro. “Il compagno Niccolai è un sognatore” sospirava il segretario politico dopo ogni intervento di Uliano nelle riunioni di direzione o di segreteria.
Intanto gli anni passavano, le ferite della guerra venivano lentamente rimarginate, più spesso rimosse, o meglio dimenticate sotto la polvere dei calcinacci e degli intonaci fatti saltare dalle granate. In pochi avevano voglia di toglierla davvero quella polvere: si ricopriva e basta, il nuovo cancellava alla vista il vecchio, semplicemente.
Le vecchie aziende dei Donati, l’officina meccanica la cartiera e la ditta agricola che produceva vino e olio, in quegli anni cinquanta avevano rallentato il passo e non erano più floride come un tempo. Forse una cattiva gestione da parte dei discendenti del Commendatore, forse una concorrenza che si faceva ogni giorno più agguerrita e spregiudicata, fatto sta che la ricca famiglia stava vivendo un momento di crisi.
Uliano era sempre più preoccupato per il proprio lavoro. “Maledetti padroni” pensava “ti sfruttano fin quando gli fai comodo, poi quando non gli servi più un calcio nel didietro e via”.
Quell’estate trascorse fra continue interruzioni della produzione e assemblee infuocate nelle quali i lavoratori ponevano sempre ai vertici aziendali la stessa domanda: che ne sarà di noi?
Poi un giorno, all’inizio di settembre, venne fuori la notizia che la fabbrica sarebbe stata venduta.
“Non proprio venduta” disse il rappresentante sindacale a Uliano che lo aveva avvicinato “entrerà un nuovo socio in azienda che porterà capitali freschi. Certo, questi soldi non basteranno, per cui i proprietari ci dovranno mettere anche del loro…”
“Spiegati meglio” disse Uliano.
“È molto semplice” rispose il sindacalista “i Donati dovranno trovare questi soldi attraverso la cessione di alcune loro proprietà”.
“Del tipo?” chiese Uliano sempre più interessato.
“Per la maggior parte beni immobili, case e terreni, sostanzialmente”.
A Uliano si illuminarono gli occhi: forse il momento tanto atteso era arrivato. Era assai probabile che tra i beni da cedere ci fosse anche la casa dove abitava. Da più di dieci anni metteva soldi da parte, quelli che poteva permettersi, ma comunque adesso aveva accumulato un bel gruzzoletto e si sentiva sicuro.
Trascorsero alcuni mesi, arrivò l’autunno. Dal cielo grigio partivano folate di vento che sollevavano le foglie secche sparse dappertutto per terra. Uliano era appena tornato dal lavoro quando alla porta suonarono due signori mai visti prima. Distinti, ben vestiti, di certo non avevano passato la giornata in fabbrica. Dietro di loro una terza persona, una giovane donna occupata a guardare tutto quel che c’era intorno, il giardinetto, la recinzione, le scale in marmo bianco, il cancello in ferro battuto, e a sorridere soddisfatta.
“Buonasera” disse il primo dei due uomini “lei è il signor Uliano?”
“Si, sono io” rispose Uliano, mentre scrutava i loro volti senza afferrare il senso della situazione.
“Senta” riprese l’uomo “la signora è mia figlia e si sposerà a breve. Siamo venuti a vedere la casa”.
A Uliano gelò il sangue nelle vene.
“La casa?” balbettò “Come la casa? Perchè la casa?”
L’uomo lo guardò sorpreso.
“Scusi, ma il signor Donati non le ha detto niente?”
“Detto cosa?” fece Uliano, la voce tremante.
“Lei ancora non mi conosce, ma mi conoscerà presto, vedrà” disse l’uomo con espressione che a Uliano dovette sembrare assai perfida.
“Chi è lei?” chiese infine alzando la voce.
“Se non le dispiace, caro signore, sono il suo nuovo datore di lavoro, nonché nuovo proprietario di questa casa” rispose l’uomo, con evidente soddisfazione.
“Il nuovo socio di Donati!” realizzò Uliano. Ma la casa cosa c’entrava? Perché non era stata proposta a lui per primo? Uliano era confuso. Ma subito lo smarrimento si tramutò in rabbia. Disse: “Io e la mia famiglia abitiamo in questa casa da quarant’anni. C’era un accordo, col Commendator Donati, in base al quale sarei stato il primo a sapere di una eventuale vendita. E adesso salta fuori lei…”
“È a mia figlia che interessa la casa, non a me” rispose l’uomo “presto si sposerà e questa zona le piace molto”.
Uliano guardò la ragazza: era giovane e vestiva con semplicità; solo le calzature avevano un che di vezzoso, con un nastrino luccicante che partiva dal tallone e rifiniva tutto il bordo della scarpa. Sua moglie- gli venne da pensare- avrebbe indossato qualcosa del genere forse solo nei giorni di festa.
“Ma fra tutte le case che potrebbe avere, proprio questa qui!” sospirò Uliano, deluso.
“Vede, caro Niccolai, mia figlia aveva messo gli occhi su questo posto già da molto tempo. E io cerco sempre di accontentare mia figlia. Lo sa qual’è stato un punto fermo nella trattativa per il mio ingresso nella ditta Donati?”
Un brivido percorse la schiena di Uliano.
“Non lo so, me lo dica lei”.
“Devo dirlo? La vendita di questa casa, ovvio. È stata un affare, sa?” disse l’uomo, col tono più naturale del mondo.
“Già, proprio un grande affare”.
L’uomo si accorse dello scoramento sul volto di Uliano. Allora disse: “ma lo sa che col mio intervento la fabbrica non fallirà e la produzione riprenderà alla grande? Guardi che il fallimento avrebbe significato la perdita del lavoro per tutti voi operai. Dia retta, è stato un colpo di fortuna che mia figlia si sia così fissata su questa casa, una vera fortuna!”
Uliano non rispose. Lasciò entrare l’uomo la figlia e l’altro uomo, forse un tecnico geometra, e si mise a sedere sul divano. Fu la Gemma ad accompagnarli per la casa. Vollero vedere tutte le stanze, anche la soffitta e lo stato in cui versava la cantina, “la stanza più utile” come diceva sempre suo padre.
Quando se ne furono andati, sentì il bisogno di uscire pure lui, voleva che il vento freddo gli piegasse il volto. Si incamminò verso la piazza del paese. Un gruppo di compagni, appena visto, lo raggiunse. “Uliano, hai sentito a Budapest, che razza di casino con i russi”?
“Il compagno Niccolai è un sognatore”, si potrebbe racchiudere tutto in questa frase il senso di questo bellissimo (e amarissimo) racconto. Complimenti!
Racconto ben scritto. Amaramente poetico. Sono d’accordo con Salvatore sulla frase che sintetizza il racconto.
Salvatore e Valerio, grazie per i vostri commenti. Avete colto nel segno, penso che nessun secolo come il novecento sia stato lo scenario di quello che ho cercato di descrivere: grandi sogni, grandi dolori, grandi delusioni in persone semplici, del popolo, piccole anime. Qui, naturalmente, la delusione è doppia: per la casa e per la dura realtà della storia (fatti d’Ungheria, 1956).