Premio Racconti nella Rete 2015 “Fatemi dormire” di Raimondo Preti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Ehi, tu che mi stai sopra. Tu, proprio tu, con codesto naso adunco e l’alito che puzza d’aglio. Dico a te… Che hai da guardare? ..Lasciami stare … Perché mi vuoi svegliare? Sono stanco. Oggi non ho voglia di fare mezz’ora di macchina… Lasciatemi dormire. Almeno quando dormo tutto passa e quando mi sveglio sembra nuovo. Chiamatemi tra un po’.
Provò a girarsi sul fianco opposto a quello in cui si trovava, senza riuscirvi. Si è intorpidita la schiena. Un braccio, la gamba.. Ma la schiena, è proprio strano… Ancora qualche secondo e poi mi alzo. Richiuse gli occhi per lasciarsi coccolare dal sopore. Tornò a fluttuare nel vuoto opaco del silenzio, nella nenia dei pensieri.
Rieccolo il nasino ed il suo alitino. Toh, guarda c’è anche una sua amica. Che volete da me? Cosa state guardando? Smettete di starmi addosso… Ecco il terzo deficiente.
Era un tipo magrolino e con i ciuffetti lunghi e bianchi. Calzava gli occhialini quadrati sulla punta del naso.
Ma che avete da guardare? Qualunque cosa sia, me la levo da solo. Invece, perché non mi dondolate un pochino, quanto basta affinché il sangue torni in circolo. Non state impalati come cretini!
Il secco si rivolse agli altri confabulando con circospezione. Sollevò una cartella trasparente. Indossavano un camice bianco.
Sembrano medici o qualcosa di simile. Cosa vogliono da me? A parte questa fiacca…
Con uno scatto si guardò intorno. Dal colore delle pareti bianco azzurrino e dall’arredamento inesistente, intuì di trovarsi in una stanza di ospedale.
Toh, la finestrella con le tapparelle polverose. La luce nebulosa. Un divisorio di qua ed un altro di là. I tre Moschettieri vestiti di bianco. Mi sono sentito male? Devo aver battuto la testa. Ma certo. Ho battuto la testa, come quando ero bambino, che ogni tanto svenivo e la mamma mi portava al Pronto Soccorso.
Tacque qualche istante per riordinare le idee.
Ehi voi, ascoltatemi. Facciamo un gioco, perché non mi dite chi siete e cosa ci faccio in questo letto?
Provò a divincolarsi ancora una volta con un moto di rabbiosa ribellione. Si sentiva come chiuso in un acquario.
C’è sempre una spiegazione. Sarà uno scherzo. Sarà stato quell’imbecille di Andrea, lui è fatto così. Gli piace giocare. Ha architettato questa messa in scena per spaventarmi. Ma quando lo becco gli rovino il faccino da angelo. Come se non lo conoscessi!… E’ lui. Chi altro potrebbe fare una cosa del genere? Ecco perché era sparito negli ultimi giorni. Doveva organizzare la manfrina. Ecco perché non rispondeva mai. Accident’ a lui!… Va beh! Tra qualche minuto sicuramente finisce tutto. Io sto qui buono, buono, gli do soddisfazione e lo faccio divertire.
Però gli scherzi sono belli quando durano poco, e questo mi pare sia durato troppo. Andreaaaaa!
I tre medici si allontanarono dal letto, avvicinandosi lentamente alla porta. Confabulavano ancora.
Vanno via. Forse siamo alla fine. Come se non ti vedessi, sganasciato dietro le tapparelle. Dai, vieni, dammi la pozione magica e fammi tornare a casa.
La luce si spense e rimase il riverbero proveniente di là dalla porta. Adesso la camera era vuota.
Ehi voi? Si rivolse a coloro che erano oltre i divisori utilizzati per separare i letti dei malati. C’è nessuno?
Trascorse del tempo prima che qualcuno si affacciasse nuovamente nella stanza. Minuti, ore, chissà. Da quella posizione, in quello stato, tutto pareva indefinibile.
Mi hanno sicuramente drogato. Ma vedranno quando mi alzo. Non riderò con loro. Non gliela darò questa soddisfazione. Me l’hanno fatta troppo grossa. Provò nuovamente a strattonare il corpo.
Una ragazza fece capolino nella camera. Si avvicinò al letto ed allungò le mani verso di lui.
Eccone un’altra. Tu chi saresti? L’infermiera? Che bella infermierina. Cosa mi vuoi fare? Guarda che non riesco a muovermi per cui puoi toccarmi quanto vuoi, rimane sempre così com’è. Dai, perché non ti spogli? Fai divertire anche me. Sto a guardare. Giuro che non ti sfioro. Anche volendo… Spogliati. Balla per me e per questi rincoglioniti dietro il vetro.
L’infermiera si affrettava in azioni assimilate. Corrugò le labbra ed estrasse un tubicino trasparente. Lo posò sul letto e dalla tasca ne prese un altro identico. Agì come per sostituire il precedente.
Brava. Hai recitato bene. Sembravi una vera infermiera. Volevi farmi sentire un moribondo ma io sono ancora qui, rifletto, parlo e ti mando a cagare.
Finita l’applicazione, anche lei si dissolse dietro la porta.
Sotto a chi tocca. Chi è il prossimo? Il barbiere? Il pedicure? Il massaggiatore frocio? Perché non chiamate il prete, per favore. Datemi l’unzione e facciamola finita. Non vi siete ancora divertiti? Voglio uscire. Fatemi andare a casa. Sono stanco.
Quando Ottavio si svegliò, la camera era affollata di persone che facevano nugolo intorno ad una sedia. Impiegò qualche attimo per capire chi fossero. Da una parte c’era Ciro e sua moglie con Dante e consorte e Roberto e Michela. Dall’altra tre o quattro persone che gli davano le spalle. Forse i compagni di calcetto perché gli parve di riconoscere la chioma di Sandro e suo fratello. Due piccole ombre dietro di loro sguisciavano per non farsi vedere. Poi Anna. Piantata sulla sedia di ferro con le mani al volto, a cui tutti sembravano doversi relazionare.
Non ci posso credere. Ti hanno coinvolto in questa burla? Ora basta, portami a casa. Bravi! Davvero bravi. Ma adesso andate via. Voglio stare con la mia piccola stella. Prendimi la camicia ed i pantaloni, per cortesia. Devono essere in quell’armadietto. Me li metto e ce ne andiamo. Ti porto a mangiare fuori e magari facciamo una grassa risata su tutto questo. Lasciamo i bambini dai tuoi e stiamo insieme. Soli. Giochiamo un po’, come ci piaceva tanto. Prometto che ti ascolterò. Mi prenderò cura di te. Ce ne andremo a Londra per un fine settimana. Portami via amore. Portami via per favore, sono esausto. Stasera guardiamo un film sul divano. Ci teniamo la mano e ti addormenti sulle mie gambe mentre ti faccio il pizzicorino alla testa. Eh? Che ne dici? Ti piace l’idea? Ma dai, rispondimi, almeno tu.
Il solito segaligno vestito da dottore si aprì un varco. Le allungò un foglio che ella lesse, forse un po’ troppo teatralmente. Alla sua destra c’era Leo, il figlio maggiore. Lo fissava con il suo tipico sguardo perduto. Come era dolce quando faceva quella faccetta addolorata.
Leonino, bello di babbo, vieni qui. Ci sei anche tu? Certo che i nostri amici sono proprio degli idioti! Guarda che scherzo hanno architettato, piccolo mio. Vieni da me, vieni da babbo. Fatti abbracciare piccolo sputacchino.
Anna firmò il foglio su cui era puntato un dito. Lasciò repentinamente la mano del figlio per schizzare in piedi, slanciata verso il letto, riversa su quel corpo statico, con le braccia intorno al suo collo. Gli occhi gonfi. Gli zigomi rossi. Le lacrime che parevano vere. Gli baciava le mani.
Beh, così è troppo melodrammatico. Fammi un sorriso e andiamo. Stai piangendo davvero? Ho detto qualcosa di sbagliato? Vieni, abbracciami. Così, amore. Com’è bello quando mi stringi. Com’è dolce. Sei il mio amore. Ora basta. Addirittura singhiozzare, mi sembra un po’ troppo. Non sono mica morto!
Hai trasmossono molto bene il senso dell’angoscia e della lenta presa di coscienza.
Bella la battuta finale.