Racconti nella Rete 2010 “La casa dai fiori d’arancio” di Rosanna Scimia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010La casa dai fiori d’arancio stava silenziosa su un poggio, al limitare di una salita ombreggiata da alberi di ficus che, intrecciando i loro rami carichi di foglie e disegnando un tetto verde di fronde, tendevano le braccia ai cugini che crescevano orgogliosi sull’altro lato del viale.
Barocca come una chiesa e piena di crepe, la casa era immersa nella penombra e protetta ai due lati dal sole e Yuma pensava che fosse stata depositata in quel luogo da qualche architetto del cielo. Lontana dalle altre, la casa sedeva come una regina alla corte dei miracoli, fastosa per l’impegno del suo stesso nome, e nient’altro. In epoca coloniale il viale che portava alla casa era stato una lunga gradinata, ma un paio di terremoti avevano cancellato la maggior parte dei gradini, e la pavimentazione dissestata creava problemi per una semplice passeggiata e solo verso sera, sui gradini ancora in vita, ragazzi e ragazze come ce ne sono tanti nel mondo, e quale che sia il colore della pelle, si scambiavano pensieri e baci guardando luna e stelle. Spesso Yuma scivolava via dalla sua casa in lamiera mentre le sorelline dormivano accanto alla madre sfinita e Pancho era fuori a scolarsi l’ultimo goccio, e correva là. Silenziosa e cauta, traversava il paese da parte a parte perché immaginava che la luna impigliata tra i rami andasse a trovare, come un innamorato, una stella che si specchiava nei vetri di una finestra al primo piano. Emozionata e muta, guardava quel mistero per minuti, fino all’arrivo di una nuvola birbante. A Yuma la casa era entrata nel cuore.
Sgattaiolava fuori dal suo materassino e a piedi nudi, i lunghi capelli setosi e neri, raggiungeva la meta. Yuma era diventava grande nell’età in cui si gioca con le bambole. Di giorno non aveva tempo per giocare perché le sei sorelline reclamavano i loro diritti e toccava a lei accudirle nel ruolo di vice mamma, poiché colei che le aveva avute in pancia aveva smesso di starci con la testa da quando aveva partorito l’ultima. E Pancho beveva, per dirla tutta. La maestra Eldemira, però, possedeva la bacchetta magica che le apriva le porte di un mondo sconosciuto. Quando Yuma entrava in classe cominciava a sognare impadronendosi del tesoro di cui Eldemira faceva dono a lei e ai suoi compagni. Yuma raccattava tutto per sé, fantasticando che la maestra Eldemira, con la sua aureola dorata come la Madonna, fosse lì per lei sola. Alta e robusta, i segni dell’età nei capelli, Eldemira era l’unica persona che prendeva Yuma per quello che era, cercando di illuminarle la vita in quella manciata di ore di cui la vita faceva loro dono per sei giorni di fila.
La domenica mattina, però, per finire la settimana, Yuma andava a incontrarla in chiesa la sua maestra, e spesso Eldemira le faceva scivolare una caramella tra le mani mentre usciva a testa alta, sottobraccio al marito, che era un pezzo grosso del Governo. Eldemira non aveva figli e questo era il cruccio che divideva con Don Manolo il quale, però, non per questo l’amava meno. Manolo era così imbrigliato nel suo lavoro di equilibri e diplomazia che ai problemi di casa ci pensava solo all’ora di pranzo, e due sere la settimana quando si abbandonava ai piaceri coniugali e, guardando il viso della moglie tra pizzi e merletti, finiva con l’arrendersi all’evidenza che non avrebbe mai avuto un erede. Di adozione, neanche a parlarne! Era buono, Manolo, ma le sue idee ce le aveva, eccome! Così raccontava Eldemira alla sua amica Giacinta cui, per buon augurio, aveva tenuto a battesimo Milo, il primo dei bambini che Giacinta aveva scodellato come una minestra, uno l’anno. Ma neanche Milo aveva portato fortuna a Eldemira che, a quarantaquattro anni, portava sulle spalle la colpa di non essere riuscita a dare un figlio a Manolo.
Quel peso, poi, diventava ogni giorno più insopportabile perché donna Romilda, sua suocera, glielo faceva lievitare a ogni incontro con l’alchimia dei suoi potenti veleni. Eldemira mandava giù i bocconi amari e in cuor suo sia augurava, benché cattolicissima, che una qualche provvidenziale malattia giungesse a privarla, almeno per qualche tempo, della velenosa Romilda. Poi c’era un’altra cosa. Manolo ne era all’oscuro ma in paese correva voce che lui non fosse il frutto del matrimonio tra Romilda e il defunto Sebastian! E sebbene ci godesse da matti all’idea di renderle pan per focaccia, Eldemira non se la sentiva di scendere così in basso, fino a mettersi allo stesso livello di Romilda. Sospirava, invocava la pazienza, diceva una preghierina … e tirava avanti con tutti gli imperfetti del mondo. E poi chi aveva stabilito che la colpa del bambino che non era arrivato fosse sua? Ma di questo non aveva fatto parola con anima viva. Manolo era ancora un bell’uomo e quando erano in intimità a Eldemira dispiaceva di non essere più la stessa di prima, fisicamente, s’intende.
Manolo si scatenava ancora in nottate di passione caliente … Eldemira si faceva in quattro per sfamare i suoi ardori ed era tanto felice quando, dopo l’amore, lui si addormentava sul suo seno … Come una dea, lei intrecciava le dita nei suoi capelli crespi e, avvolgendosi in un velo di tenerezza e di magia, stringeva a sé in un unico abbraccio Manolo e Morfeo. Poi, quando alla mattina facevano colazione insieme, Eldemira era raggiante anche se tormentata da colei che in chiesa faceva a meno di comunicarsi con padre Cristoforo, che viveva in canonica ma le cose della vita le conosceva, e il perdono nel confessionale non glielo aveva concesso più. Quando lo incontrava di giorno, Romilda digrignava i denti come faceva di notte perché quel poveraccio di Sebastian, a furia di essere contrastato anche lui, aveva finito col rimetterci le penne, così che lei di notte smaniava perché non aveva più neanche uno straccio di marito con cui consolarsi, e mandava a quel paese quel destino beffardo che l’aveva, giustamente, ripagata a modo suo. Donna Romilda era rimasta sola in compagnia del suo odio verso Eldemira, Dio e i Santi che chiamava tutti quanti a raccolta nella solitudine della sua anima, incapace di dare e persino di ricevere. Profittatrice e disonesta, guidata solo dal Dio denaro che non paga mai, trascorreva le sue giornate aspettando il momento propizio per veder trionfare la sua malvagità sovrana.
Contando denaro come una novella Paperona, simile a un manico di scopa con la saggina al posto della gonna, si aggirava come un fantasma nella piantagione scambiando la notte per il giorno, e incrementando con la sua acredine il vuoto di un’anima che avrebbe fatto meglio a consacrare a Dio, almeno per espiare una piccola parte dei danni che aveva seminato con la sua lingua. Ma per donna Romilda l’odio e la cattiveria erano essenziali come l’acqua alle piante, e per sfogarsi se la prendeva con quei poveracci che lavoravano alle sue dipendenze e che la sorte aveva fatto nascere con la pelle di un altro colore. Con l’abito nero del lutto, un merletto crema attorno al collo, un cordonetto con pendaglio annesso raffigurante quel povero Sebastian, cui non aveva mai voluto bene se facciamo eccezione per la notte in cui fu concepito Manolo, il che a sentir la gente pareva fosse tutto da dimostrare, due grandi virgole ai lati della bocca a denotarne l’asprezza del carattere, s’infuriava su quei malcapitati con una lunga frusta che faceva roteare in aria prima di assestare il colpo, senza tuttavia mai ricevere, tapina, un solo lamento di ritorno a conferma della sua crudeltà. Pancho era un disgraziato anche lui ed era stato cacciato da lei una sera in cui la disperazione lo aveva spinto ad imbottirsi di alcool, fino a diventare una spugna, senza più capacità d’intendere e volere.
Quando Yuma s’imbatteva in donna Romilda, la paura la percorreva dai capelli alla punta dei piedi, al ricordo di quello che Pancho, le sere in cui era sobrio, riusciva a narrarle a puntate, come una telenovela … e svaniva prima che quell’arpia dal nome di donna si provasse ad alzare anche un solo dito contro di lei, che le ricordava lui. Quando l’alcool glielo consentiva, Pancho lavorava a giornata, ammazzandosi di fatica ogni giorno sotto un padrone diverso, il quale, si sa com’è che va la vita a certe latitudini, credeva più per comodo che per altro al racconto di donna Romilda, anche perché a Pancho non era permesso proprio di narrare come si fossero svolti i fatti. Yumita, come tutti la chiamavano nel vicolo, allo sfacelo di alcool e menti perse sopravviveva con la sua fantasia e con la bacchetta magica con cui la maestra Eldemirava colorava il mondo. Non si ammalava mai Yumita, e a scuola c’era andata anche quando s’era beccata una bronchite coi fiocchi, anche perché a restare a casa ci sarebbe stato solo da peggiorare … Aveva mandato giù un decotto disgustoso solo a vedersi, e aveva ripetuto l’operazione con una comare che spesso si prendeva cura di loro, e che lei chiamava, con affetto, Papita.
Si era tappata il naso, aveva strizzato gli occhi e ingoiato quella purga terribile. Ed era guarita senza saltare un giorno, felice com’era nel vedere gli occhi della maestra illuminarsi di una luce speciale ogni volta che incontravano i suoi. Dal canto suo, Eldemira cercava di non prendersi una pece per Yuma, cui voleva bene come a una figlia. Profondamente dispiaciuta per la miseria in cui viveva la bimba, e che la bimba cercava dignitosamente di nascondere, restava in ansia fino a quando non la vedeva entrare di corsa per infilarsi nel suo posto, al primo banco. E siccome il filo che le univa era più indistruttibile del nylon, Eldemira riassaporava in sogno le gioie della maternità con un bimbo, maschio o femmina che importanza può avere, che avesse il viso di Yumita e la sua voglia di vivere, più contagiosa degli orecchioni. Perché Yumita il profitto lo ricavava solo dalle ore passate a scuola, beandosi della luce degli occhi di Eldemira che era la sua linfa, e le permetteva di crescere mediante un processo di fotosintesi clorofilliana. Solo la campanella turbava il suo stato di grazia, ma il sorriso di Eldemira le scaldava le guance e la ricompensava per ciò che l’aspettava a casa.
La mamma svanita e le bocche da sfamare, in casa c’era sempre qualcosa da fare, e lei ne era il nostromo, il marinaio, il cambusiere e il mozzo, lei che al mare c’era andata in gran segreto, solo una volta con Eldemira, libera da Manolo che era fuori città al seguito del Ministro. A donna Romilda avevano riferito della gita e aveva fatto un quarantotto ma ormai Yumita il mare ce l’aveva nelle orecchie. Quando le prime gocce cominciavano a battere sulla sua casa di lamiera, Yumita usciva sotto la pioggia e sognava che l’acqua del mare la ricoprisse dal cielo, come quel giorno che aveva fatto il bagno in mare vestita perché il mare non l’aveva mai visto, e non aveva resistito all’impulso di buttarcisi a capofitto, per battere i piedi e coprirsi il viso di schiuma. Seduta sotto una palma, Eldemira sembrava una mamma. La bimba aveva riempito le tasche del vestitino con la sabbia bianca come il borotalco di cui profumavano le braccia della maestra, e a casa aveva svuotato le tasche e riempito di sabbia un vasetto di vetro, mettendoci anche due conchiglie, e nascondendolo al riparo da occhi indiscreti … Ma un giorno il vasetto era andato distrutto, per colpa di chi non era quello il problema, e a Yumita del mare era restato solo il ricordo perché Papita aveva spazzato via sabbia e conchiglie in un comprensibilissimo borbottio … Lontano da scuola, il consorte della maestra non si avvedeva di nulla.
Diviso tra madre e moglie, Manolo riconosceva a Eldemira tutte le sue doti, ma faceva contemporaneamente buon viso a cattivo gioco delle angherie materne, anche se dentro di sé ammetteva che il caratteraccio di lei non gli spianava certo la strada, anzi gli precludeva qualche ambiente che avrebbe potuto favorirlo nell’ascesa politica. Il cielo aveva assunto la colorazione di un dipinto di Magritte. Eldemira si scostò dai vetri, chiuse le tende e spense le luci. Manolo stava pensando a lei, glielo diceva il cuore. Romilda dormiva un’altra notte insonne nel suo palazzo abbandonato dagli umani. All’ombra dei fiori d’arancio, Yuma avrebbe sbirciato per tante notti ancora quella coppia di innamorati mentre anche a quella latitudine, con il suo grande mantello e la sua immensa bontà, vegliava Dio.
Passi da un personaggio all’altro con la delicatezza di una melodia lenta. Descrivi un microcosmo in perfetto stile sudamericano, e lo fai così bene che si direbbe tu l’abbia vissuto (mi chiedo se direttamente o dai libri di Marquez, ad esempio, da cui questo racconto sembra uscito). Non può mancare, in questa visione del mondo, la figura di Dio, sempre contaminato da un pizzico di magia e animismo, che ci accoglie e accompagna fuori da questo pezzo di realtà (quasi surreale), nel volo che ci proponi. Un’unica riserva: avrei preferito vedere applicato questo stile (che apprezzo), ad una realtà differente dal suo luogo di origine (come la nostra)
Tutto accedeva a Macondo”: intenso, scritto con cura e con attenzione, le storie ben legate tra loro. Mi piace pensare a come trasformeresti questo racconto in un romanzo.
Complimenti
Carmina Trillino