Premio Racconti nella Rete 2015 “Il ricordo, la reliquia” di Luciano Urietti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Michele, il fratello di mia nonna, era un uomo grande e grosso, aveva barba e baffi e folte sopracciglia nere.
Amava il vino, i sigari toscani, il gioco delle carte e starsene seduto a raccontare storie. Era un uomo capace di rimanere seduto all’osteria di mio nonno per ore e ore davanti ad un bicchiere ed ad una bottiglia di vino; il bicchiere veniva ripetutamente riempito e poi svuotato, sino a quando non era la bottiglia ad essere completamente vuota. Ma tutto questo “lavorio di gomito” era soltanto l’intercalare della sua vera attività in quei lunghi pomeriggi invernali; nell’osteria di mio nonno vi erano sempre altri avventori che avevano tempo per interminabili partite a carte o per raccontare/ascoltare storie di altri tempi.In quel piccolo paese di montagna ai piedi del monte Quinzeina, Frassinetto Canavese, quando la neve aveva provvidenzialmente bloccato quasi ogni attività, tutti gli abitanti finivano col possedere molto più tempo di quanto servisse loro. Ed era per questo che molti uomini consideravano l’osteria una seconda casa e si decidevano a ritornare alla loro prima casa solo a notte fonda, a volte dopo che erano venute le mogli a recuperarli.Per il fratello di mia nonna il concetto “osteria/seconda casa” era particolarmente valido sia perché essendo vedovo non aveva nessuno che venisse a recuperarlo, sia perché essendo il cognato dell’oste poteva giustamente considerarsi in famiglia anche quando passava lì le sue giornate, alternando ad accese partite alle carte, lunghi racconti di storie della sua gioventù. Questo perché ovviamente, anche per lui vi erano stati altri tempi ed altre occupazioni. Ed una notte, quando ormai tutti gli altri avventori si erano decisi a ritornare alle loro case ed erano usciti nel buio freddo della notte, ancora scambiandosi consigli/insulti sullo svolgimento della partita a tressette, lui, rimasto solo con un mezzo litro di rosso, si sentì veramente in famiglia e decise di raccontare una … storia di famiglia. Forse fu il vino a consigliarlo e a confonderlo, forse fu la notte, di certo la storia che raccontò non aveva niente a che vedere con le sue solite avventure di gioventù, scherzose e spacconesche. Quando lui era ragazzo, fine del milleottocento, i paesini di montagna vivevano ancora molto isolati e l’unica strada che saliva dalla pianura era di norma una mulattiera. Il raggiungere quindi un qualsiasi altro paese era una questione di gambe, e per la maggior parte delle persone si trattava delle proprie, o, per pochi fortunati di quelle di un mulo o di un asino. Non vi erano altre possibilità. Per le persone invalide, malate o semplicemente troppo anziane e stanche l’orizzonte si faceva sempre più stretto. Maria, la vecchia nonna di Michele, era affetta da osteoporosi, una patologia che le impediva ormai di camminare; per lei, già da diversi anni, l’orizzonte era estremamente limitato: la stanza da letto, la cucina, la stalla ed il cortile dove, nella bella stagione, sedeva in compagnia della sua malattia a riscaldarsi al sole. E a pregare. La fede di Maria era grande; una vita di lavoro, sacrifici e dolore non aveva minimamente intaccato il suo rapporto con Dio. Anzi con il passare degli anni, che nelle sue condizioni significava un peggioramento della sua invalidità, pareva che la sua fede si fosse accresciuta; quasi a voler sostenere le sempre maggiori pene. Il suo pregare era quieto e costante, sereno e sicuro. Maria avrebbe voluto andare in chiesa ogni mattina, ma questo non le era possibile a causa della sua malattia. Ormai era pressoché paralizzata, riusciva a malapena trascinarsi dalla stalla alla cucina, dalla cucina al cortile, o alla sua stanza da letto. E così rimaneva seduta ad ascoltare le campane che suonavano per la messa e lì, seduta, in cucina o in cortile, pregava. Per quanto possa apparire incredibile a noi, figli di questa civiltà dei consumi e degli sprechi, Maria non possedeva un rosario e, in sostituzione, usava dieci piccole pietre. Aveva raccolto quei ciottoli in cortile ed ora li aveva sempre con se. Quando iniziava a recitare il Santo Rosario posava quelle piccole pietre sul tavolo in cucina, o su di uno sgabello che teneva davanti a se nella stalla o in cortile. Ed a ogni Ave Maria una pietra veniva spostata, così sino a dieci. Poi ricominciava. I figli ed i nipoti l’assistevano per quanto possibile; però ogni giorno vi erano mucche da portare al pascolo, lavori nei campi ed a volte, la sera, partite alle carte all’osteria. Succedeva così che l’anziana Maria passasse ormai buona parte della sua giornata da sola. Sola con le sue dieci piccole pietre. Ai piedi di un’altra montagna, il monte Colombo, al fondo di un’altra valle del Canavese, la valle di Ribordone, sorgeva il santuario di Nostra Signora di Prascundù. Frassinetto, il paese di nonna Maria, dista da quel Santuario una trentina di chilometri. All’epoca della nostra storia, Prascundù, (prato nascosto ), era accessibile soltanto con una mulattiera; eppure era sempre meta di pellegrinaggi animati da un sincero fervore religioso. Anche da Frassinetto numerose persone si univano ai fedeli che raggiungevano il santuario, specie in occasione della festa che si celebrava ogni anno il ventisette agosto.
«Avevo diciotto anni quando decisi di andare per la prima volta alla festa della Madonna di Prascundù», dopo questa prima breve frase Michele sentì il bisogno di fare una pausa e di bere un sorso dal suo bicchiere di rosso, quasi avesse parlato a lungo. Si capiva che doveva essere una storia di quelle che contano ed ogni parola esce lenta, quasi pesasse. Quell’uomo grande e grosso pareva faticasse a parlare; quando è il cuore che detta le parole sono calde e sanno di amaro. «Quando dissi a casa che avevo intenzione di unirmi a quanti sarebbero andati al santuario, mi padre mi guardò con un mezzo sorriso e sentenziò: “Penso siano altre le cose che andrai a cercare, non certo la Madonna di Prascundù”. Mio padre mi conosceva bene, ed aveva ragione. I veri motivi che spingevano me e gli amici con cui mi ero accordato per il viaggio erano ben altri. Il pellegrinaggio era solo un pretesto, noi desideravamo solo poter vedere altri paesi, incontrare altra gente … magari qualche bella ragazza», e Michele lanciò un sorriso d’intesa a mio nonno che lo stava ad ascoltare. «In famiglia comunque nessuno si oppose, in fondo le gambe erano le mie ed a quei tempi pareva non sentissero il peso della strada per quanto lunga potesse essere. Nelle settimane precedenti ero riuscito a mettere da parte un po’ di soldi; erano molto pochi, sarebbero serviti per poter bere qualcosa in qualche ‘ piola ’, ma di certo non avrei potuto ubriacarmi. Mi consolavo pensando che forse qualche amico avrebbe avuto qualche lira in più ed avremmo potuto fare bisboccia. D’altra parte sapevo bene che i soldi non piovono dal cielo … ed invece proprio mi sbagliavo», altra pausa ed altro piccolo sorso di vino. «La sera prima della partenza mi arrivarono altre cinque lire, ed allora cinque lire erano cinque lire». Disse guardando tutto serio mio nonno. « E sai da chi mi arrivarono quelle cinque lire?», quasi a voler sottolineare ‘l’effetto pausa ’ della domanda, si accese un mezzo toscano. Poi riprese con calma: «Proprio da chi non mi sarei mai immaginato, mi arrivarono da mia nonna Maria. Non so quali sacrifici e rinunce avessero generato quelle cinque lire, so solo che quella vecchia non poteva di certo avere grosse possibilità di risparmio. Eppure quelle cinque lire erano lì, belle e sonanti.La vecchia nonna mi chiamò vicino alla sua sedia, poi, frugando nelle larghe tasche della sua lunga gonna, estrasse quei soldi e disse semplicemente: “ Vorrei che tu accendessi per me un cero alla Madonna di Prascundù. Quello che avanzi è per le tue gambe, io che non posso più usare le mie, so bene quanto valgono. “. Nel vedere quei soldi piovermi addosso in quel modo così inaspettato rimasi interdetto e fissai la nonna quasi senza capire quanto mi stava dicendo. Fu la nonna a scuotermi dicendo: “ Mi raccomando il cero, e poi … poi vorrei un piccolo ricordo per me. Prima di venire via raccogli una pietra davanti al Santuario e portamela. Hai capito ? “, concluse prendendomi per un braccio. “ Certo, una pietra ”, risposi io stupito tanto per aver visto comparire quei soldi dalle tasche di quella povera gonna nera, quanto per quella sua strana richiesta». Una forte boccata e la punta del sigaro di Michele fu rossa. «La mattina seguente scendendo con passo veloce la mulattiera che portava alla valle, mentre stringevo il mio piccolo gruzzolo, non pensavo certo alla strana richiesta della vecchia nonna rimasta a spostare i suoi sassolini sullo sgabello di fronte a lei nel cortile di casa nostra. Con i miei amici stavamo già decidendo come goderci al meglio quella giornata di festa lontano da casa con quelle lire, che a noi parevano tante. Inutile dire che la nostra visita al Santuario si limitò ad una fugace puntatine all’interno della Chiesetta, poi mentre la celebrazione religiosa iniziava, noi tre o quattro giovani pensammo bene di dare subito inizio alla festa in altro modo. Visitammo tutte le ‘piole’ di Ribordone e nel pomeriggio fummo tra i primi ad accorrere ai richiami della musica del ballo pubblico. In serata poi, ritornammo a visitare l’osteria che ci era parsa essere la più ‘ospitale’ , e concludemmo lì il nostro pellegrinaggio. Quando a notte fonda rientrai a casa, il nostro cane mi accolse in cortile con un insolito, lungo abbaiare: non era abituato a vedermi rientrare quasi all’alba, né riuscì a riconoscermi col fiuto visto che il vino era stato abbondante ed era a volte finito anche sui miei vestiti. Ma fu proprio quel suo abbaiare ostinato che per un attimo mi scosse dai nebulosi pensieri figli del troppo bere … ero di nuovo a casa … la festa era finita, ed io ero in quello stato anche grazie alle cinque lire della nonna. Con uno scatto ritornai in strada e, alla prima luce dell’alba, raccolsi una pietra, la pulii contro i pantaloni e me la misi in tasca. Poi tornai dentro e diedi un calcio al cane che ancora non si era chetato. Infine raggiunsi il mio letto e subito mi addormentai. La mattina seguente consegnai con fare circospetto la pietra del Santuario alla nonna. Probabilmente lei pensò che io mi vergognassi per aver esaudito il suo strano desiderio portandomi in tasca per così tanta strada una pietra di nessun valore, ma io avevo ben altre cose di cui vergognarmi. “ Ed il cero l’hai acceso ? “ . “Certo … “, biascicai io senza convinzione e mi allontanai prima che lei potesse chiedermi altro. Per diversi giorni evitai di venire a trovarmi solo con mia nonna, ed evitai che i nostri sguardi si incontrassero; temevo potesse leggermi negli occhi il mio inganno. E per molti mesi sentii il peso del mio imbroglio tutte le volte che mi capitava di vederla pregare spostando i suoi sassolini. Mi era di sollievo il fatto che la nonna avesse nascosto, chissà dove, la pietra del santuario. Da quando gliela avevo consegnata non avevo mai visto quel sasso. Alla fine mi convinsi che lei si fosse in qualche modo accorta di essere stata ingannata ed avesse buttato la pietra nella strada da dove proveniva. D’altra parte lei mai più accennò a quella pietra ed io riuscii a poco a poco a seppellire quel mio rimorso». La storia sembrava finita e mio nonno abbozzo un imbarazzato sorriso non sapendo bene come commentare la vicenda. Congratularsi con la pronta furbizia di quell’allora giovane ragazzo, o compiangere la mite e cieca fede della vecchia nonna? Pensò di prendere tempo con alcuni colpi di tosse. Ma suonava così falsa quella sua tosse che subito smise vergognandosene. Quando ancora stava cercando una frase che potesse por fine a quel teso silenzio, Michele riprese: «Fu sette anni dopo che rividi quella pietra». I suoi occhi ora guardavano fissi e vuoti davanti a se, ma non vedevano niente, erano velati, e non solo dai fumi del toscano o del vino. «Fu una settimana dopo che la nonna era morta e sepolta. Mia madre stava pulendo la stanza dove per tanti anni aveva dormito la nonna. Aveva già lavato e riordinato tutti i suoi poveri vestiti, le sue lunghe gonne nere suoi corpetti lisi e le sue camicie bianche; aveva piegato le coperte, spazzato il pavimento, e quando si trattò di spostare il grande baule/madia che in quella stanza fungeva da armadio mi chiamò perché le dessi una mano. Di mala voglia mi chinai su quel baule che mia madre aveva rinchiuso dopo averlo svuotato; che bisogno c’era di spazzare anche dietro quel pesantissimo mobile?. Già stavo per imprecare contro quella sua pignoleria quando, alzando il baule, sentii provenire dall’interno del mobile un rumore sordo, attutito, qualcosa stava rotolando all’interno della madia. Quando, posata la madia contro l’altra parete della stanza, l’apersi, vidi sul fondo un piccolo involucro di colore nero. Mi chinai e lo raccolsi: un vecchio fazzoletto nero, ma qualcosa di relativamente pesante. Al tatto non riuscivo a capire di che cosa poteva trattarsi. Svolsi il fazzoletto e subito di scatto, lasciai andare ciò che apparve: una piccola pietra. Ed io sapevo bene che pietra era. Per tutti quegli anni quella pietra, frutto del mio imbroglio, era stata gelosamente conservata dalla vecchia nonna in fondo alla madia che conteneva tutti i suoi poveri averi. Evidentemente mia madre nel riordinare quei vestiti non si era accorta di quella reliquia. Veloce raccolsi la pietra ed il fazzoletto, me la nascosi nella tasca dei pantaloni. Poi scesi in cortile camminando come uno sciancato; quella pietra mi pareva bruciasse in tasca, impedendomi di camminare normalmente. Mi allontanai da casa sempre camminando come se trascinassi un peso enorme nella mia tasca; solo quando fui sufficientemente lontano mi fermai ed estrassi la pietra, quasi senza accorgermene la riavvolsi con cura in quel suo fazzoletto. Quella pietra raccolta a pochi metri dal casa mia era veramente diventata una reliquia».Nel silenzio ancora una forte boccata del sigaro, ormai ridotto quasi ad un mozzicone.
«L’anno dopo tornai alla festa della Madonna del Santuario di Prascundù. Ero partito molto presto all’alba, senza avvisare nessuno, volevo viaggiare da solo. Quando giunsi sul sagrato della chiesa la celebrazione religiosa doveva ancora iniziare, ancora poca era la gente che saliva verso il Santuario, il tempo era incerto e questo pareva ritardare l’arrivo del pellegrini. Pochi erano quelli che già si aggiravano davanti alla cappella, fui contento di questo perché potei fare quanto volevo senza che vi fossero occhi curiosi ad osservarmi. Estrassi dalla tasca interna della giacca un fazzoletto nero, lo svolsi ed tirai fuori la reliquia. Fissai per un istante quell’insignificante pietra, sembrava pallida per via di tutti quegli anni passati in fondo ad una madia. Eppure era una comunissima pietra come altre migliaia su quella montagna; come su ogni altra montagna. Mi chinai e la deposi per terra. Ora era finalmente lì. Al suo posto.Un ultimo sguardo al Santuario; poi mi voltai, riposi con cura il fazzoletto nella tasca della giacca e con passo più leggero iniziai la discesa. Non molte ore dopo ero nuovamente a casa, sicuro di aver fatto quanto dovevo. Avevo sciolto un voto, mantenuto una promessa, salvato un ricordo. Mi ero guadagnato le mie cinque lire».