Premio Racconti nella Rete 2015 “L’ ultimo avversario” di Luca Giuliano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Di suo padre conservava una immagine vaga. In definitiva lo aveva incontrato poche volte e insieme non avevano mai trascorso lunghi periodi.
Lo ricordava come un bell’uomo, brizzolato, atletico, sempre sorridente. Arrivava all’improvviso nella loro villa di famiglia vestito da ufficiale di cavalleria con tanto di speroni e stivali tirati a lucido. Faceva il suo ingresso nel salone principale, con gesto elegante si liberava dell’elmo e baciava la guancia di sua madre. La donna, però, girava la testa di lato, come a rifiutare il contatto. Solo a quel punto suo padre pareva accorgersi di lui, spalancando le braccia e chiamandolo a gran voce: “Valerio!” Un attimo dopo lo abbracciava ridendo forte. Lui, immancabilmente, tentava di impadronirsi della sciabola che vedeva pendere dalla cintura del genitore, afferrandone l’impugnatura con entrambe le mani e sforzandosi di estrarla dal fodero. Sua madre allora gli gridava qualcosa contro ma suo padre, continuando a ridere e arruffandogli i capelli, soleva ripetere: ”Una sciabola sarà nel suo destino”.
Quelle visite non duravano mai più di qualche giorno. Era un uomo che scherzava assai più volentieri con la servitù che con gli ospiti, i cui nomi erano tutti preceduti da qualche titolo nobiliare. Anche loro erano nobili o meglio, sua madre lo era. Contessa. Suo padre, invece, un “semplice capitano di Sua Maestà”, come usava definirlo la nonna materna.
Una mattina, con tono serio e guardandolo dritto negli occhi, suo padre gli disse qualcos’altro: “Avrai un solo vero nemico: il tuo carattere”. Lui, che all’epoca aveva dodici anni, fingendo di comprendere annuì in silenzio. Allora l’uomo in divisa, senza aggiungere altro, lo strinse a sé più a lungo e più forte del solito. Ancòra un momento e fu a cavallo. Mentre lo osservava allontanarsi udì sua madre dire sottovoce: ”Vai, vai pure da lei”.
Quella fu l’ultima volta che lo vide.
A distanza di tanti anni non seppe mai che fine avesse fatto davvero suo padre. In famiglia era argomento che non si affrontava volentieri. Qualcuno gli disse che era morto in battaglia. Qualcun altro gli confidò che era fuggito con una donna. Probabilmente c’era qualcosa di vero in entrambe le versioni.
Lui, comunque, decise di seguire le orme paterne e intraprese la carriera militare. Terminata l’Accademia fu assegnato ad una guarnigione di stanza nella capitale. Era il primo novembre del 1800.
“Avrai un solo vero nemico: il tuo carattere”.
Certo la vita della grande città, per i giovani ufficiali, non dava troppe possibilità di meditare sul proprio modo di essere, considerando i ricevimenti che si susseguivano sera dopo sera e le donne che vi si potevano incontrare. Donne di tutte le età, libere e no.
Fu così che Valerio ebbe presto occasione di mettere alla prova le proprie doti di seduttore e schermitore. Già, le due cose erano spesso consequenziali, non essendo affatto inusuale che al successo in amore con una donna fidanzata, o già maritata, seguisse un duello riparatore. Si fece quindi una certa fama sia sul campo di battaglia, nell’unica campagna militare cui partecipò, quando in presenza del nemico dimostrò indubbia temerarietà e sprezzo del pericolo, sia in ambiente mondano, dove non si fece mai scrupolo di insidiare donne già impegnate. Anzi, questo tipo di conquista pareva rappresentasse per lui una sfida irrinunciabile. Nei duelli che seguirono, e non furono pochi, riuscì sempre vittorioso senza peraltro patire conseguenze giudiziarie vuoi perché nessuno, tra i suoi sfidanti, fu così sfortunato da rimetterci la vita, vuoi per le costanti intercessioni di un suo zio Monsignore.
Quella era stata la sua vita degli ultimi tre anni; donne, duelli, una breve guerra, un avanzamento di grado e altre donne, altri duelli.
Da qualche tempo però, e senza apparente motivo, Valerio cominciò a sentirsi insoddisfatto della propria esistenza. Insoddisfazione che, in breve, si trasformò in una sorta di strano malessere. Era come se convivesse con un oscuro rimorso che lo faceva sentire a disagio con se stesso. Eppure mai aveva provato sensi di colpa per la propria condotta, mai aveva avuto il dubbio di sbagliare. Al disagio dell’animo presto si aggiunse quello fisico, con una persistente spossatezza.
“Non mi pare ci sia nulla di anormale” gli disse sorridendo l’anziano ufficiale medico dopo averlo visitato e invitato a rivestirsi “a volte succede che voi giovani ufficiali vi strapazziate un po’ più del dovuto. Pretendete troppo da voi stessi, e non mi riferisco certo alle energie spese sul campo di battaglia…” precisò strizzandogli l’occhio “un buon periodo di riposo sarà sufficiente a rimetterla in sesto!”
In qualche misura le parole del medico lo avevano tranquillizzato. Quando si è giovani non si ha forse il diritto di godersi la vita? Gli eccessi con le donne… in definitiva lui non era mai caduto preda di vizi ben peggiori, quali il gioco e il bere, che invece tante vittime avevano fatto tra i suoi amici e compagni d’arme. Ma no, doveva soltanto riposarsi.
Aveva quindi deciso di trascorrere i giorni di convalescenza nella villa che lo aveva visto bambino, nella convinzione che la quieta atmosfera di quei luoghi lo avrebbe certamente aiutato a ristabilirsi.
Nulla sembrava cambiato rispetto a tanti anni prima eppure Valerio, appena ebbe messo piede nell’antica dimora, ne trasse sùbito un’impressione di profonda estraneità, di ostilità quasi. Sua nonna era morta da tempo e sua madre, invecchiata, trascorreva le giornate seduta su di una poltrona senza quasi mai parlare. Le stanze che un tempo risuonavano delle voci dei loro ospiti adesso gli rimandavano soltanto l’eco dei suoi passi. Gli pareva che ci fosse qualcosa, in quegli ambienti, che rifiutasse la sua presenza.
Un giorno gli fece visita Ezio, un amico di vecchia data, che gli propose di essere tra i suoi ospiti, a cena, per quella stessa sera: “Ci saranno parecchie persone, quasi tutte tue conoscenze. Non farmi fare l’elenco. Vedrai, ti servirà a distrarti”.
In effetti la serata era trascorsa in modo piacevole finché, malauguratamente, una volta alzatisi da tavola, ascoltò casualmente le parole di un tale che conversava con altri invitati: “Del capitano suo padre che dire? Morto in battaglia? A tutt’oggi risulta tra i dispersi, vero, ma lo sanno tutti; una messinscena ben congeniata e ben riuscita.”
“Spiegatevi meglio!” disse allora lui a gran voce, alle spalle di quell’uomo.
“Allora, volete ripetere o vi scusate?” insistette Valerio nell’imbarazzato silenzio che si era creato tra i presenti.
“Ma sì, suo padre ha disertato per fuggire con l’amante! E non è mia intenzione scusarmi.”
“Signori! Signori! Vi prego, si tratta di un malinteso. Credo che scusarsi, per aver riportato quella che è soltanto una diceria, non leda l’onore di nessuno!” intervenne Ezio, quale padrone di casa, nel doveroso tentativo di ricomporre la questione.
“No amico mio, ormai è tardi per le scuse, il tuo ospite mi darà soddisfazione! E tu mi farai da padrino.”
Poco più tardi, dal finestrino della carrozza che lo stava riportando a casa, osservando il paesaggio notturno della campagna illuminata dalla luce argentata della luna piena, Valerio sentì improvvisamente ridestarsi in lui quella sofferenza che le poche ore trascorse in compagnia gli avevano effettivamente fatto dimenticare.
Una volta a casa, raggiunta la propria camera, si era gettato sul letto senza spogliarsi usando il mantello come improvvisata coperta. Si era tolto soltanto gli stivali, buttati a caso da qualche parte sul pavimento.
Aspettava l’alba, immerso nel buio e nel silenzio. Aspettava senza riuscire a prendere sonno, senza riuscire a riposarsi. “Forse” pensò d’un tratto “questa è la morte. Null’altro che buio e silenzio ma con la consapevolezza di sé, e in questa assoluta solitudine rivisitare i fatti della propria esistenza terrena. Sì, forse questa è la morte, forse questa è la condanna che attende ogni uomo che abbia vissuto a sufficienza; diventare il giudice di se stesso. Nessun inferno, nessun paradiso, solo una sorta di purgatorio, una sorta di eterno processo dove si è costretti a giudicarsi da soli.”
Poi, impercettibilmente, dalla stanza cominciarono a emergere i colori. Adesso riusciva anche a distinguere i contorni degli oggetti. La luce del nuovo giorno incominciava ad imporsi sulle tenebre.
Attese qualche istante quindi, rimessi gli stivali e avvolta la sciabola in un drappo, lasciò la stanza. Una volta all’aperto gettò un’occhiata in direzione della finestra chiusa dietro la quale dormiva sua madre, poi prese la via dei campi. Presto raggiunse il vecchio ponte oltre il quale si trovava il cimitero, il luogo convenuto per il duello. Laggiù, a ridosso del muro di cinta, si sarebbe svolto il combattimento.
Proprio a metà del ponte indugiò, scorgendo il sorgere del sole al di là delle colline coperte da sottile bruma. Restò così, a guardare lo spettacolo dell’alba con le mani appoggiate alla fredda pietra del parapetto finché non si accorse del sopraggiungere del suo padrino. I due uomini si guardarono senza salutarsi. Il nuovo arrivato non poté non notare, sul volto dell’amico, il pallore degli insonni.
“Mi guardi come se fossi già morto”
“Ma che dici? Ti guardo come…”
“Sai cosa credo?” lo interruppe lui “Che se veramente, dopo la morte, saremo costretti a rendere conto dei nostri sbagli, allora io pagherò non per il nemico ucciso in battaglia, non per la notte d’amore con la donna sposata, non per i duelli. No, per queste azioni avrò le mie attenuanti. Se non altro per essere stato soltanto un uomo del mio tempo. Io dovrò invece rispondere dell’insetto schiacciato, la cui unica colpa era l’aspetto ripugnante. Dovrò rispondere del gattino seviziato quand’ero bambino, per rompere la noia di un pomeriggio d’estate. Dovrò rispondere del cane scacciato a calci, solo perché chiedeva un po’ di cibo. Dovrò rispondere per aver deriso un anziano, per aver umiliato il compagno di scuola, per la parola di conforto negata a un amico in difficoltà, per aver finto di non vedere il mendicante, ben sapendo di avere la tasca colma di monete. Ecco, se mai pagherò non sarà per la malvagità necessaria ma per quella stupida. Quella apparentemente insignificante ma che non ha giustificazioni e che, proprio per questo, è la più grave e imperdonabile”.
Seguì un lungo momento di silenzio. Ezio si era fatto particolarmente serio: gli era parso di avvertire, in quelle parole, un presagio di sventura. Poi toccò il braccio di Valerio, era il momento di andare.
Una volta arrivati trovarono gli altri convenuti già sul posto. Sùbito i testimoni presero ad accordarsi mentre i due contendenti, messisi in maniche di camicia per la comodità dei movimenti e indossati i guanti per una migliore presa dell’arma, alzarono a mezz’aria le lame. Restarono fermi così qualche istante, l’uno di fronte all’altro, finché uno dei padrini urlò qualcosa autorizzandoli a combattere.
I due cominciarono a muoversi all’intorno e a studiarsi, adesso con un colpo di assaggio adesso con una finta. Fu sùbito evidente, però, la manifesta inferiorità del suo avversario il quale palesava, oltre a una tecnica rudimentale, una imprecisione e una inesperienza preoccupanti. Lui aveva sempre affrontato contendenti di una certa bravura e spesso aveva dovuto fare appello a tutta la propria abilità per risolvere favorevolmente la situazione. Ma stavolta l’esito pareva davvero scontato, a tal punto che uccidere quell’avversario sarebbe sembrata quasi un’esecuzione. Fu allora che decise; fece un finto affondo costringendo l’altro a parare un colpo inesistente, poi sùbito si ritrasse e menò un fendente dall’alto che, sfiorato il viso del rivale, andò a colpirgli la spalla destra. Quello lanciò un urlo breve e acuto e, dopo essersi portato la mano sinistra alla spalla ferita, piegò il corpo in avanti cominciando a barcollare. Immediatamente i suoi secondi gli furono accanto. Fu in quel momento che Valerio udì, alle proprie spalle, un applauso.
Voltatosi, notò la presenza di tre giovani contadine che, sul limitare del prato a ridosso del cimitero, avevano assistito al duello. Le tre smisero di applaudire ma gli sorrisero, come ad omaggiarlo per la vittoria. Lui conficcò la sciabola nel terreno e andò verso di loro, lusingato per quell’inaspettato pubblico femminile. Quando fu davanti alle tre sconosciute ricambiò il sorriso ma, proprio mentre stava per dire qualcosa, vide una delle ragazze spalancare improvvisamente occhi e bocca, portandosi al contempo le mani al viso. Sentì Ezio gridare il suo nome realizzando così, troppo tardi, ciò che stava accadendo dietro di lui. Avvertì un rumore breve e sordo, sùbito seguìto da un dolore acutissimo che, dalla schiena, si irradiò per tutto il suo corpo. Si accorse allora della punta della sciabola avversaria, rossa del proprio sangue, emergergli dal petto. Trafitto alla schiena, cadde in ginocchio davanti a quelle sconosciute che, istintivamente, fecero più di un passo indietro, allontanandosi da lui. Nei loro occhi vide la vita, quella vita che lo stava abbandonando. Il sangue cominciò a scorrergli dalla bocca, poi ebbe come un sussulto e si accasciò in avanti.
Tutti gli furono attorno ma Valerio era immobile, la testa di lato e gli occhi aperti e spenti.
Poco più lontano la sua sciabola, conficcata nel terreno, brillava come fosse una cosa viva ai raggi del sole del nuovo giorno.
La creazione dell’atmosfera è sicuramente potente, ricorda Joseph Roth o Sandor Marai e il racconto si fa leggere fino in fondo con piacere. Non ne capisco però il senso profondo, ci dovrebbe essere una resa dei conti con il padre, che però non avviene. Bello lo stile, anche se necessita di qualche limatura alle sovrabbondanze e occhio ai troppo frequenti refusi (ingeniare, un sfida, etc.)
L’atmosfera del tempo è molto ben resa e il personaggio di Valerio ben caratterizzato… Mi aspettavo un finale diverso da quello che hai proposto… In questo concordo con Sergio. Il racconto, in ogni caso, è molto ben scritto e si lascia leggere… Sarei curioso di conoscere il tuo parete sul mio “La Torretta di Guardia”