Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2010 “L’alternativa” di Elena Sironi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Era una mattina come tante per Simone.

Se ne stava lì con la testa tra le mani sui gomiti, appoggiato sul banco di scuola mentre la maestra parlava di qualcosa che non aveva abbastanza catturato la sua attenzione.

Credo fosse qualcosa sui numeri, i soliti problemi, le solite tabelline.

Simone si era sempre chiesto a cosa gli servissero poi queste tabelline visto che tutti i grandi che conosceva usavano il computer, la calcolatrice o come diceva sua zia, che faceva la commercialista “io faccio i conti a chi non sa farli”. “Che lavoro bislacco. Però di sicuro qualcuno che non sa le tabelline deve pur esserci evidentemente”. Questo pensava Simone, quella solita mattina di scuola, un giorno qualsiasi di marzo.

Il suo banco era vicino alla finestra, ci aveva tanto sperato.

Da lì poteva sbirciare nel nido di una gazza e sperare che in quel buco dell’albero ci potessero vivere degli scoiattoli.

Il fatto che non si fossero mai visti non era un problematica per lui, in quanto era convinto che era ovvio che in ogni caso non si sarebbero mai fatti vedere.

Ma a Simone piaceva pensare che non è che perché non li vedeva che non potevano abitare lì. Semplicemente non si erano ancora mai incontrati.

Quella mattina Simone aveva litigato per una sorta di scambio mal avvenuto di figurine dei Cavalieri del Dragone con un suo compagno di classe; più che scambio potremmo chiamarlo furto (subìto).

Ma visto che i bambini non dovrebbero rubare, diciamo che il compagno di Simone aveva preso in prestito senza permesso un paio di figurine particolarmente rare dal suo album.

Simone si era talmente arrabbiato che aveva cominciato ad urlare e si era dovuto calmare grazie ad una gustosissima nota sul diario. L’album di figurine era il suo pensiero fisso dell’ultimo mese. Era fondamentale poter finire la collezione prima di tutti gli altri.

Finita la scuola sarebbe andato al parco per un’oretta e avrebbe aspettato la  mamma fuori dal lavoro.

Faceva così ogni giorno. Nonostante la passione per le figurine, comune agli altri bambini, Simone era un bambino fatto tutto a modo suo.

Non gli piacevano i giochi convenzionali (anzi, la maggior parte erano di sua invenzione), aveva amici immaginari d’ogni tipo (per i quali era praticamente sempre preso in giro) e si dilettava nel disegnare personaggi quando aspettava la mamma, seduto all’ombra di una grande quercia.

La mamma di Simone lavorava nell’ospedale davanti al parco e finiva il turno ogni giorno alle 4 e mezza.

Avevano pattuito che tutti i minuti di ritardo li avrebbero sommati su una tabella e alla fine della settimana, se diventavano più di 44 (4 era il numero preferito di Simone) avrebbero stabilito una gita da fare solo loro due insieme.

Erano stati, con gran gioia di Simone, al parco acquatico (l’estate prima), al cinema (anche se era sera tardi e Simone si era addormentato), al fiume a pescare (anche se aveva riso per quanto la sua mamma non sapesse mettere un verme all’amo) e in una bottega del cioccolato gestita da una anziana signora che gli aveva permesso di fabbricare una tavoletta extrafondente (ovviamente 4 tassellini per riga e 4 per colonna).

Tutto sommato non poteva lamentarsi.

Quel giorno stava aspettando la sua mamma quando venne preso di soprassalto da un essere strano, rotondo, che sbucava da un cespuglio e cigolava come una vecchia carriola arrugginita.

Pensò di rimanerci secco, ma incuriosito tentò di capire che cosa diavolo era.

Simone, con una smorfia, si affacciò al di là del cespuglio ma non trovò più niente.

Vide in lontananza una specie di alienucolo su una macchinetta elettrica a due ruote che si allontanava. Sbucava solo una manina molliccia da sotto le coperte e non si vedeva altro.

“Questo non è uno dei miei amici. Questo è un alieno. Questo”, si rese conto, “lo vedono proprio tutti”.

Effettivamente più persone si erano girate ad osservare l’esserino che passeggiava per il parco.

In quel momento la mamma arrivò e Simone fu costretto a tornare sull’attenti nel vedere quanti minuti di ritardo si erano accumulati.

Ma quel giorno la sua compagna preferita di gite era in orario preciso.

L’idea dell’alieno cominciò a rubargli tempo e fantasia. Cominciava a credere che se l’avesse catturato avrebbe potuto tenerlo in casa con sé e chiedergli tutti i segreti dei poteri extraterrestri.

Cominciò ad appostarsi ogni giorno al parco con gli occhi che scrutavano ogni cespuglio per ritrovarlo, ma non c’era speranza. L’alieno sembrava quasi essersi volatilizzato.

Un giorno, quasi per caso, Simone si stava concentrando sul percorso che alcune formiche facevano da un cestino al formicaio, quando si trovò improvvisamente all’ombra di qualcosa.

Alzò lo sguardo e in controluce vide la macchinetta cigolante dell’alieno che dava ormai per completamente disperso.

Lo vide.

“Ciao”.

Si sfregò gli occhi. Passato l’effetto della luce, Simone si rese conto che oltre a non essere un alieno, non era nemmeno niente di così esaltante.

Era un bambinetto, seduto su questa sedia a due ruote, pelato, magretto e in pigiama.

Simone si chiese come fosse possibile che la sua mamma lo lasciasse andare in giro vestito così.

Però poi gli venne un pensiero ancora più grandioso e lo disse, spontaneamente, come solo i bambini sanno fare, “Sei un alieno travestito, vero?”.

Con gli occhietti velati di chi si trova in un posto senza rendersi conto di occuparlo fisicamente per davvero, il bimbo dello spazio disse “Questa non me l’aveva mai detta nessuno. E sentiamo un po’, perché ora devo essere un alieno e non posso essere un bambino in pigiama?”.

“Molto semplice. Sei un alieno ma per non farti scoprire fai finta di essere un bambino”.

Un sorriso apparve sulla bocca del bambino pallido, “Perché non posso essere un bambino malato?”.

Con la naturalezza di chi sta dicendo che due più due fa essenzialmente quattro, Simone rispose: “Facile, non puoi ingannarmi. I bambini ammalati stanno a casa, a letto e con la febbre. E non vanno in giro al parco. Tu sei persino pelato che sembri una lampadina, almeno travestiti bene. Ti servirebbe una parrucca. E i bambini non vanno in giro col pigiama. Si vede che non sai come ci si veste sulla Terra. Ma”, continuò allegramente, “non preoccuparti, non lo dirò a nessuno.”

Il bambino pallido disse: “Allora saresti mio amico?”.

Simone sorrise.

Secondo qualche strana codifica del linguaggio non verbale, entrambi sapevano che quel sorriso valeva come un sì.

Simone era contento di aver trovato un nuovo amico. Era tendenzialmente più vero di quelli immaginari e prima o poi avrebbe potuto dirlo alla mamma senza che tirasse quel solito sospiro che lo faceva sentire tanto in colpa.

Il bambino dello spazio raccontava mille cose strane e buffe, alle volte quasi spaventose (tipo una specie di tubo detto sonda naso-qualcosa che ficcato su per il naso ti dava da mangiare o strane luci che non dovevi guardare che, illuminandoti, ti ridavano la potenza), ma in fondo veniva da un mondo dove avvenivano battaglie intergalattiche e quindi non poteva mostrarsi timoroso.

Da quel giorno, per ogni pomeriggio, Simone aspettava, prima dell’arrivo della sua mamma, il passaggio del bambino spaziale, che si faceva falsamente chiamare Massi.

Per Simone non era un nome da viaggiatore interstellare ma, visto che il travestimento faceva desiderare, pensò che forse, per Massi, era più importante avere un nome veramente terreste piuttosto che l’abbigliamento.

In fondo, Simone  sorrideva pensando che il suo nuovo amico non fosse tanto più malandato della sua baby sitter, che aveva mille tatuaggi e buchi strani in tutto il corpo e se ne andava in giro con un fidanzato che aveva le mutande in bella vista e le calze mezze sopra i pantaloni.

Del resto, se nessuno diceva nulla a loro, figurarsi se i grandi avrebbero notato un bambino nel parco in pigiama.

La cosa strana di Massi era che stava sempre su quella carrozzella, tutto bianco, che quasi non si muoveva. Nel viaggio doveva di sicuro aver perso tutti i suoi superpoteri.

Simone non osava chiedere niente, perché aveva visto che Massi si era calato tanto bene nei panni di essere umano che non voleva rovinargli la copertura.

Ascoltava ogni giorno i suoi racconti e imparava ogni volta che si incontravano qualcosa di nuovo.

Quando scoprì che il suo nuovo amico viveva nell’ospedale, si disse che non era poi così furbo: un alieno che si finge un bambino malato era un conto, ma un alieno che sceglie di vivere pure in ospedale era un po’ pazzo visto che se, con quei macchinari che avevano per fare le foto alle ossa (come quando si era rotto il braccio e aveva poi appeso in camera la sua foto dell’osso rotto) lo avrebbero potuto scoprire, del resto un alieno mica aveva le ossa come tutti. Che poi che malattia poteva essere senza febbre proprio non se lo spiegava; sembrava quel suo compagno di classe che diceva che aveva una malattia dei colori e che si confondeva il rosso con il verde. Questa cosa aveva lasciato Simone particolarmente perplesso, perché si era posto più volte la domanda sul perché i genitori del suo compagno avessero dovuto inventarsi che il rosso e il verde si potevano chiamare uguali per confondere il proprio figlio. Perché insomma, era palese che fossero diversi e non riusciva proprio a capire che malattia potesse essere.

Alla fine un giorno si decise e chiese a Massi: “Ma tu come puoi essere malato davvero? Ok che vivi in ospedale ma esci il pomeriggio, in giardino. E va bene che stai sempre su quella carrozzina ma ogni tanto vieni con un girello, ogni tanto con le stampelle. Insomma, non capisco. Non sai camminare nel tuo corpo umano?”.

Il piccolo astronauta rise: “Ma no, cosa pensi. Mica per tutte le malattie stai a letto. Cioè, io all’inizio stavo anche a letto, poi ho imparato che si può essere un bambino malato anche se esci.”

“Ma se esci vai anche a scuola e quindi a cosa ti serve essere malato?”.

La domanda di Simone aveva fatto intristire Massi.

“Guarda che alle volte io non vorrei essere malato”.

Simone pensò che avrebbe voluto rispondergli di prendere qualche medicina, al posto di andare in giro per il parco ma poi si rese conto che Massi era triste per davvero e che in fondo a lui non importava poi più di tanto che il suo amico fosse così strambo (nonostante non conoscesse nemmeno il suo album delle figurine e quindi a Simone toccava spiegargli ogni minima cosa di quei cavalieri disegnati. Prova ulteriore del fatto che non poteva essere un terrestre, poichè tutti conoscevano i Cavalieri del Dragone).

Il pomeriggio seguente Massi sbucò come al solito dal nulla, sul suo fedele destriero.

Mentre Simone tentava di raccontargli come il Cavaliere alato era diventato capo supremo della galassia delle Serpi, gli balzò in testa una domanda per l’amico bianco latte.

“Ma tu che malattia dici di avere?”

“I dottori dicono che ho il cancro”.

“Tipo il segno zodiacale?”

 “E’ quello che effettivamente sto cercando di capire anche io. Prima stavo male, avevo la febbre e vomitavo. Poi mentre mi dicevano che stavo guarendo mi sono caduti i capelli. Fanno cose strane, i dottori. Ma sono dottori, capisci? Alle volte mi viene da dire siete un po’ stupidi se provate a farmi guarire facendomi stare peggio. Poi penso che se sto peggio, quando torno a stare meglio sto come stavo prima del peggioramento ma in realtà sto meglio quindi magari vogliono confondermi e dirmi che sono guarito solo perché sto meglio del peggio e perché magari non sanno nemmeno loro quale medicina cura questo cancro. Sembrano sempre così confusi quando gli chiedo che medicina mi serve.”

Simone non aveva ben capito la storia del meno peggio del peggio ma di sicuro era certo che i medici erano per forza in crisi se pensavano di curare un bambino e invece non lo facevano.

Probabilmente su di lui nessuna medicina faceva effetto ed era una copertura un po’ fallimentare perché se Massi non fosse mai guarito non sarebbe mai potuto uscire dall’ospedale per esplorare il mondo. E che gita fai sulla Terra se non puoi girarla?

Simone decise quindi ogni giorno di portagli una foto di tutti i posti del mondo che si dovrebbero vedere prima o poi e con Massi le attaccarono su di un quaderno, inventandosi mirabolanti viaggi in queste terre lontane.

La loro preferita era la foto della muraglia cinese, così lunga, così grande, teneva dentro tutta la Cina.

Poi fecero finta di essere sulla Tour Eiffel (Simone era salito su una pianta per far vedere che si poteva salire fino in cima a piedi), in Egitto (e Massi disse che lui era anche una mummia), e in Australia (fino a che Simone non cadde sbucciandosi il ginocchio facendo il canguro intorno alla carrozzina di Massi).

Passarono due mesi.

Di sogni, di avventure, di mappe del tesoro mentali e di amicizia.

Quella vera, quella che l’altro ti capita solo da bambini.

Un giorno Massi non si presentò.

Passarono altri tre giorni, senza che nessun buffo finto bambino venisse a raccontagli di quella chemiocosanonsochè che era tipo un prototipo di vitamine spaziali.

Dopo una settimana Simone era ufficialmente triste.

Doveva parlarne alla sua compagna di gite.

Prese coraggio, sapendo che magari sarebbe stato incompreso, come tutte le volte che parlava dei suoi amici immaginari, nonostante Massi fosse esistente in carne ed ossa.

“Mamma?”, disse a cena.

“Si?”

“ho un amico che però non vedo più. Lui sta all’ospedale da te.”

E così Simone raccontò alla mamma tutti i minuti rubati alla sua attesa passati con Massi. Le raccontò di questo cancro, che nessuno riusciva a trovargli una medicina abbastanza forte, che stava sempre in ospedale e che era un peccato che non potesse girare il mondo.

Non se la sentì di dirgli che era un alieno, non poteva proprio dire tutta la verità.

La mamma aveva gli occhi velati dalle lacrime e disse soltanto “Il cancro è una malattia tanto brutta ma i medici cercano sempre di fare tutto il possibile”.

Simone capì che allora Massi non poteva poi essere un alieno. Che alieno può mai scegliere una malattia dalla quale non puoi guarire?

E che medico sei se non puoi guarire tutte le malattie?

Come fai a sceglierti quella malattia? Voglio dire, non è più comodo che tutti prendano il raffreddore?

Pensò al suo amico con la malattia dei colori e si disse che in fondo anche quella non gliel’avevano curata ma mica viveva in ospedale.

Rifletteva tanto su questa cosa dei dottori e pensò anche che dovevano essere proprio tristi quelli che curavano Massi se alla fine gli davano medicine sbagliate per farlo stare peggio per poi toglierle e dirgli che non sarebbe peggiorato.

Secondo lui dovevano per forza sentirsi inutili. E pensare che Massi ne parlava sempre come fossero dei supereroi.

Ma in fondo Massi era un bambino, e non conosceva nemmeno i cavalieri del Dragone, quindi probabilmente aveva un’idea distorta dei supereroi.

Il giorno dopo, appostato al solito cespuglio, si avvicinò a Simone un dottore, in camice bianco, che gli diede un bigliettino sul quale c’era scritto: “Simo, sono Massi. Non sto proprio bene in questi giorni quindi volevo invitarti nella mia camera qui in ospedale che mi piacerebbe vederti per un po’. Il dottore è simpatico, vieni con lui, è tanto gentile, anche se non credo abbia ancora capito la mia medicina. Quindi l’ho lasciato uscire, magari al parco gli viene qualche idea. Ti aspetto, Massi

Simone seguì il dottore fino alla camera del bianco amico e si stupì di quanto ancora più chiaro fosse.

“Sembri trasparente”

“Eh, non sto proprio bene”

“Quindi non possiamo più trovare posti per le nostre gite?”

“Mi sa di no”

“Morirai?”

“Non so, la mia mamma e il mio papà piangevano, hanno detto che sarei andato. Andato dove, ti dirò, non l’ho mica capito. Stai a vedere che avevi ragione tu, con la storia dell’alieno e tutto il resto. Forse devo tornare alla base e avevo perso la memoria per non tradirmi.”

Simone e Massi si guardarono.

Forse ci sarebbero state galassie a separarli, ma loro non ci volevano pensare.

Massi guardò Simone, gli strinse la mano e lo salutò, “Non so dove andrò ma se torno ti chiamo, ok? Ora però vorrei dormire, sono proprio tanto stanco”.

Simone prese dal suo zaino una torcia elettrica, la mise sul comodino di Massi e lo salutò “Te la regalo, che se ti perdi nel buio cosmico almeno trovi la strada.”.

Poi andò fuori dall’ospedale, dalla sua mamma, un pochetto triste, perché non è mai bello quando un amico se ne va.

Massi chiuse gli occhi, per l’ultima volta, con il sorriso, qualche minuto dopo.

Perché non si era sentito poi così solo nell’andare via.

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3 commenti »

  1. pensieri e parole notturni hanno formato questo racconto. pensieri e parole di un’esperienza diretta, di un tirocinio, di tanti bimbi incontrati, di tante persone che hanno condiviso con me attimi e momenti, di un mondo di ospedali, di camici e di occhi che fanno leggere le domande che non trovano risposta.
    pensieri e parole per descrivere un tirocinio e una tesi, pensieri e parole per ringraziare chi mi ha fatto crescere, capire, reinventarmi e sentirmi.
    pensieri e parole dedicate a coloro che la vivono. a coloro che mi hanno reso partecipe, a coloro che mi hanno fatto diventare grande. a Lei che mi ha insegnato tutto, anche a poter rendere i miei pensieri da rielaborare, dopo una lunga giornata in reparto, un racconto inventato con quella malinconia reale con la quale si impara a convivere.

  2. I see you

    Ti vedo in ogni parola di questo racconto…e cio che vedo mi commuove, mi ferma: Sei bellissima Elena!

    Una tua fan 😉

    PS: ho la netta sensazione che questo adorabile alieno l abbia incontrato anche io.

  3. “Forse devo tornare alla base e avevo perso la memoria per non tradirmi.”
    Su questa frase mi sono fermata a lungo: hi scritto un racconto commovente, su un tema delicato e minato come la malattia incurabile di un bambino, senza sfociare mai nell’ovvio.
    Tempo fa lessi un’intervista alla Fallaci dove lei definiva “l’alieno” il cancro contro il quale la scrittrice aveva intrapreso una sfida.
    Non c’è rassegnazione nel piccolo Massi; consapevolezza, triste conapevolezza che non c’è alternativa.
    Grazie per la tua esperienza
    Carmina Trillino

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