Premio Racconti nella Rete 2015 “Narciso” di Donatella Tognaccini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Un giovane di nome Narciso si trovò un giorno a spiegare a un extraterrestre cosa fosse Facebook.
Naturalmente erano entrambi in incognito, il primo perché personaggio del mito, il secondo perché proveniente dal lontano mondo di Kepler 438b a 475 anni luce di distanza dalla Terra. In altri termini potremmo dire che quello cui diamo generalmente credito, ma che si ritiene non sia mai esistito, si incontrò con quello che potrebbe esistere, ma a cui non diamo generalmente credito.
Fu una conversazione interessante che, per un caso fortunato, ebbi modo di ascoltare non molto tempo fa.
Va detto subito che solitamente dopo cena, per incontrare gli amici o bere una birra in santa pace, ho l’abitudine di trascorrere qualche ora in un pub vicino casa mia. È anche l’occasione per me di fare quattro passi, sgranchire le gambe dopo una giornata di lavoro, guardarmi intorno liberamente e in modo svagato, senza il pensiero di correre per prendere in tempo la metropolitana, il tram o altri mezzi di trasporto.
Così facendo, la città mi viene restituita come una somma e non una sottrazione di sguardi, il passo è tranquillo, l’immaginazione trova terreno fertile e in fondo, anche se è buio e non accade niente di speciale, provo una sensazione di contentezza, di libertà, di andare da qualche parte senza essere strattonato, spinto, derubato, costretto.
Neanche a farlo apposta quella sera sono tra i primi clienti. Fuori fa freddo ed è piacevole l’ambiente che mi accoglie, con le pareti rivestite in legno. Sembra di addentrarsi nella penombra di un sottobosco. Cosa c’è, mi dico spesso, di più simile a un albero di un uomo? Chi ha copiato per primo fra i due? Il corpo di un uomo ha il tronco, le mani hanno dita che si aprono a ombrello come certe chiome, gli occhi a seconda dei popoli sono più stretti o più larghi ma in tutto e per tutto simili alle foglie. Non so se per questo motivo, comunque gli occhi letteralmente mi cadono su due clienti appartati in un angolo. Certamente se fossi arrivato anche mezz’ora dopo non li avrei notati nel viavai di gente e invece proprio mi incuriosiscono come per un’attrazione gravitazionale. Decido di sedermi a un tavolo vicino, mi tolgo la giacca a vento, il cappello di lana, i guanti e mi pare, guardandomi le mani bianche, di essere rimasto con la nuda corteccia. Le poltroncine verdi sono davvero comode, la seduta e lo schienale imbottiti e ricoperti di velluto. Il tavolino è basso, di vetro opaco, con alcune guide turistiche un po’ vecchiotte, per la verità, e dei romanzi. Qualcuno li ha sfogliati e poi ha dimenticato di riporli nelle scaffalature che stanno agli angoli del locale. Un cameriere si avvicina. Strano, penso, non fa parte del solito staff, deve essere nuovo. È gentile, anche se il sorriso di maniera certamente gli risulta utile per rendersi gradevole ai clienti e intascare qualche mancia. Ordino una birra alla spina, che subito mi serve con vari salatini in contenitori di resina. Ne pizzico alcuni e li gusto lentamente. Intanto cerco di ascoltare cosa si dicono i due che mi siedono accanto, avvicinandomi un po’ con un movimento impercettibile della poltroncina, che invece mi tradisce emettendo lo stridulo lamento del legno sfregato sul pavimento.
L’uomo è vestito in modo trascurato, ha una giacca di almeno una taglia più piccola, lo si vede bene dalla manica troppo corta sopra il polsino della camicia. Ha un cappello nero in testa, voluminoso. L’altro, che gli sta di fronte, è giovane, biondo, bellissimo. Lo intravedo ogni tanto quando piega la testa per appoggiarla alla mano, come se stesse ascoltando il rumore di una conchiglia. Guardo e non guardo. Vorrei vedere che faccia ha l’uomo, ma non mi riesce. Lascio la birra e vado alla toilette, c’è un sacco di gente e passo vicino al tavolo dei due. Purtroppo, al ritorno, l’uomo abbassa la testa per raccogliere non so che e non posso trattenermi neanche un attimo davanti a lui senza darlo a vedere. Torno a sedermi, guardo il colore ambrato della mia birra, aspiro l’intenso odore di orzo arrostito. Devo trovare una scusa per ascoltarli senza essere osservato. Così, visto che ho finito i salatini ed è troppo presto per ordinare un’altra birra, ripiego sui libri dimenticati da un cliente distratto. Ne prendo uno a caso, tanto non lo posso leggere e nemmeno mi interessa farlo. Lo faccio per darmi un tono. Cosa può fare di diverso un uomo solo che non sta aspettando nessuno? I miei amici vengono il sabato o il venerdì, so per certo che negli altri giorni vengono trattenuti in famiglia; il giovedì questo luogo è un’oasi di pace, di relax, non devo sforzarmi di formulare nessun pensiero complesso, di approfondire un concetto. Il giovedì faccio prevalere la mia natura animale e, ad eccezione del nome della birra, infilo un’esclamazione dietro l’altra perché richiedono il minimo sforzo. Poi mi guardo intorno, ascolto della buona musica di sottofondo, qualche volta un concerto, controllo la fauna, preparo strategie future e prossimi passi.
Torno a prestare orecchio alla conversazione tra i due sconosciuti. So per certo che non potrò capire tutto, per questo dovrò fare delle integrazioni, una ricostruzione del testo. Se almeno potessi guardare il giovane, seguire il movimento delle labbra del colore rosso sbiancato delle fragoline di bosco… Mi sistemo il libro sulle ginocchia, lo apro a caso, mi do dello scemo perché non si può aprire un libro a caso se non si ha intenzione di leggerlo, si deve aprire al centro, altrimenti non sta in equilibrio. Capisco chiaramente che l’uomo ha appena aperto un profilo su Facebook.
Il giovane invece è un nativo digitale. Avrà diciotto anni non di più, una bellezza che toglie il fiato. Ogni tanto sbircio nella sua direzione. Ha la pelle bianchissima, forse troppo pallida se non fosse che sulle guance appare accaldato. Non è un incontro occasionale, non sono amici, nemmeno conoscenti mi pare. Non riconosco nessuna parola confidente, nessun interesse fisico tra i due. L’uomo ascolta, più che parlare, è del tutto ignorante. Il giovane appare come un maestro. Offre spiegazioni. È estremamente competente, sa tutto o almeno dà questa impressione. Tiene in mano un Iphone e lo mostra all’uomo girando lo schermo nella sua direzione.
– La f di Facebook è la consonante da venerare – dice il ragazzo – una divinità con tanto di simboli e un’ara dove sacrificare tag, post, mi piace. Per spiegare la consonante si tocca la faccia e poi si alza, scostando la poltroncina, e viene verso di me.
– Scusa – mi dice con leggero accento greco – mi puoi prestare il libro che stai leggendo? Solo un attimo.
Resto paralizzato. È di una bellezza sconvolgente, fragile, incerta. Ha gli occhi così chiari che paiono fatti d’acqua e dissetano, una malinconia che sembra antica e quindi impossibile perché dovrebbe affondare le sue radici nell’infanzia.
– Prendi! – gli dico porgendogli il libro.
– Efharistò! Posso tenerlo cinque minuti? Devo mostrarlo al mio amico.
– Okay – dico e mi pento. C’è qualcosa di peggio che rispondere va bene? Va bene cosa? Che non ho sentito un accidente della vostra conversazione, che per contrasto non mi vado bene per niente, che la fisicità ha l’affondo di un coltello, che avrei potuto anche leggere il titolo di quel romanzo che ora aggiungerà materiale alla conversazione e di cui non so niente.
L’uomo tocca il libro, lo apre, sfoglia le pagine bianche, lo richiude, indica il titolo scritto con lettere dorate. Il ragazzo allunga il collo e, anche se al rovescio, glielo legge, poi torna a disegnare il profilo del suo volto e ad indicare il libro. – Facebook- dice chiaramente.
– Facebook – ripete l’uomo con un accento che non so riferire a nessuna lingua che conosco. Il continuo della storia o meglio della preistoria di Facebook, di Mark Zuckerberg e tutto il resto, riesco a seguirlo tappa dopo tappa, ho visto il film “The Social Network” di David Fincher, cinque anni fa. Bello, mi è piaciuto, e ora mi risulta utile per seguire con discreta precisione il senso del discorso. Il giovane parla per informare, chiarisce ogni aspetto, rende trasparente il significato. L’uomo guarda ancora l’Iphone con il profilo del ragazzo.
– Devi sapere – dice – che noi facciamo un po’ quello che facevate voi anticamente … un viaggio, un Grand Tour, cerchiamo mondi liquidi e persone fatte d’acqua come voi umani, ci interessa conoscere la realtà liquida dei social network.
Ascolto con maggiore interesse la conversazione, ma non capisco cosa voglia dire, resto come sbalordito, inquietato. Anch’io sono fatto d’acqua. Chi è il personaggio di spalle e chi è il giovane o sarebbe meglio dire la bellezza fatta persona?
Credo che farò in tempo a ubriacarmi perché continuerò a bere finché il libro non mi verrà restituito. Intanto, mentre aspetto che il cameriere attraversi il mio angolo di visuale, bevo, è proprio il caso di dire, tutte le parole che si dicono, qualcuna la sorseggio per capire che significato ha, come quando l’uomo dice che viene da un altro pianeta, Kepler 438b. Il sapore di questa affermazione è uno di quelli che mette ancora più sete, sete di sapere.
Keplero (io l’ho chiamato così) racconta una storia incredibile al ragazzo incantato. Dice che il suo pianeta è distante centinaia di anni luce dalla Terra, che ha un cielo rosso e un sole rosso. Penso al nostro tramonto e alle labbra del ragazzo.
– È in gran parte coperto dall’acqua, per questo noi adoriamo le rocce affioranti e intorno a queste abbiamo costruito delle piattaforme. La nostra vita in fondo è semplice, viaggiamo in moltissimi mondi e ognuno di noi riporta indietro qualcosa.
– Qualcosa? – dice il giovane – Cosa?
– Per esempio dalla Terra su Kepler sono stati portati via i poeti che non vi servono più e le loro poesie che non leggete mai.
– Avete preso qualcos’altro?
-Sì, la pace che in tanti millenni non siete riusciti a raggiungere, ce l’abbiamo noi. Noi proteggiamo la pace e la poesia del vostro mondo e studiamo queste parole negli ingranaggi che non hanno funzionato.
– E ci riuscite?- dice il giovane.
– Non saprei dire, sono lavori in corso.
– E per quale motivo hai voluto incontrarmi?- gli chiede.
– Perché il tuo mito non dice la verità, non completamente e io voglio capirne il motivo. Sono venuto sulla Terra per incontrarti e chiedertelo di persona.
Non so se alzarmi, confessare di essere stato in ascolto tutto questo tempo e pregarli in ginocchio di potermi unire alla loro conversazione. Però ho paura di spaventarli. Chissà perché quando si chiede l’amicizia su Facebook solitamente si accetta perché è una possibilità di incontro, invece quando ci si presenta in carne e ossa, se sconosciuti, siamo una possibile minaccia e la richiesta è un’intrusione alla privacy. Non devo farlo. Voglio sapere ancora e ancora notizie dei due e il perché di questo incontro.
Il giovane resta muto, sembra tornare indietro nel tempo, la sua espressione è assorta.
– Mi chiedi ragione di un mito che per tutti ha già un significato.
– Ma non è quello giusto!
– Dimmi come hai fatto a scoprirlo e ti dirò la verità!
– Non l’ho scoperto io, me lo hanno suggerito i poeti.
– Vuoi dire le loro poesie?
– È lo stesso, non trovi?
– Va bene, se proprio me lo chiedi ti racconterò la mia storia, però a patto che la porti con te, sul tuo lontano pianeta.
– Te lo prometto, sulla Terra non sapranno nulla di questo nostro colloquio privato.
– Il mito mi colloca in un bosco. Io ero ancora un bambino quando mia madre mi rivelò la verità. Non avrei mai dovuto conoscermi per vivere e invecchiare. Avrei dovuto conoscermi per morire e restare giovane. Erano due scelte ugualmente inaccettabili, non trovi? Così vivevo nel bosco o meglio vagavo nel bosco, senza una meta che potesse condurmi a me stesso o una casa in cui tornare per divenire vecchio. Parlavo con mio padre, il fiume, che non mi voleva ascoltare e scorreva con terribile violenza nel suo corso impetuoso e poi cercavo conforto in mia madre che non avrebbe mai smesso di ascoltarmi, ricordandomi con i suoi occhi innamorati la mia smisurata bellezza. Per questo ero scontroso e solitario, vagabondavo e non volevo imparare niente. Ma la natura ti istruisce da sola, anche l’ignoranza che non coltiva nulla alla fine produce qualche frutto. Infatti, per sopravvivere, cacciavo bestie selvatiche e imparavo a farlo divenendo ogni giorno più esperto nell’uso delle frecce e della spada.
– Finché non arrivasti alla famosa fonte …
– Finché non accadde quello che hai appena detto. Quel giorno, quando raggiunsi la fonte, ero triste per la ninfa Eco, che avevo respinto, ma che più di tutti mi aveva amato. La spada mi serviva per allontanare gli sguardi, sfoltirli. Il suo però era sopravvissuto nella mente e mi faceva male pensarci. Quando arrivai alla fonte ero in questo stato d’animo e non mi accorsi del pericolo, della trasparenza dell’acqua di una limpidezza cristallina. Avevo sete. Per bere dovevo inginocchiarmi, prendere l’acqua con i palmi delle mani unite e così feci. La fonte mi concesse la sua acqua, ma mi restituì il mio sguardo. Fu allora che scoprii la solitudine, che prima non mi aveva mai pesato, fu così che cercai di accarezzare la mia immagine e parlarci. Nessuna foglia poteva cadere sull’acqua, né un frammento di corteccia, né i rami guasti degli alberi, il fondo era senza fango. Potevo cancellare con un movimento della mano la mia immagine e poi aspettare che si ricomponesse da sola. La raccoglievo frammentaria e la ricomponevo, poi la disfacevo e tornavo a ricomporla. Fu così che la mia ignoranza si attenuò da sola e iniziai a osservare il contenuto e i margini del foglio d’acqua. L’immagine mi spingeva a fantasticare come credo facciate voi con il vostro piccolo sole rosso che non è come il nostro che non può essere guardato. Cominciai a creare storie sul mio volto fingendo che fosse quello di un altro e non morire. Conobbi ogni particolare che era sempre diverso e mutava nel tempo. Scrissi sull’acqua la mia prima e unica poesia che parlava del sole che è concesso agli uomini ed è racchiuso nel loro sguardo. Poi, però, commisi l’errore di pensare che quel sole potesse scaldare il mio mondo e non che fosse un semplice riflesso nell’acqua. Caddi nella fonte per il bisogno di scaldarmi e il fiore sulla sponda c’era anche prima e c’è ancora.
– Grazie Narciso – dice l’extraterrestre – questo era il pezzo mancante, la prima poesia della vostra triste umanità. Puoi scriverla sul libro? La porterò con me.
Non posso vedere nulla del libro poggiato sul tavolo né so leggere il greco. Col cuore in gola osservo Narciso che scrive con la mano bianca e poi chiude il libro che non è mio, ma che vorrei gridare che mi appartiene.