Premio Racconti nella Rete 2015 “Il guardiano” di Ciro Vincenzo Crescentini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Avvolto dalla bruma mattutina il porto di Maracaibo pare sospeso nell’aria e fluttuare piano. Là, nel disordine provocato dall’accumulo di vele recise, bottiglie di vetro infrante e funi spesse come tronchi d’acero, Uberto cammina con passo incerto, dondolando adagio la testa. Si guarda intorno spaesato, con occhi miopi attraversati dalla demenza. Tiene le mani dietro la schiena, le dita intrecciate. Il sorriso vago e inebetito che persiste sul suo volto fa pensare alla maschera di un clown triste, mentre un filo di saliva gli pende da un labbro, come un sottile filo di ragnatela. Egli pare cercare la sua nave, seppur non ne rammenti più il nome e le fattezze, nemmeno il punto dove sia attraccata; così, mentre cammina con passo incerto, mormora parole lievi, incomprensibili, che dicono di viaggi e di tesori, di guerre passate, volti e voci perduti tra i flutti della memoria. Uberto, in realtà, è ghermito dalle trame della demenza, cullato da una sorta di roccaforte impenetrabile nella quale sovente fanno breccia raggi di luce intensi, che sembrano farlo gioire e soffrire allo stesso tempo. La sua mente ottenebrata è una sorta di fortino con porte e finestre sbarrate, dove è la malattia a decidere su che cosa deve entrare e cosa deve uscire, che detta i tempi e i modi di ogni possibile accesso.
La demenza è un guardiano spietato.
Di là a poco il suo passo si fa più svelto: egli, addirittura, si mette a correre sulla banchina. All’uomo vestito di nero, che se ne sta seduto su una grossa bitta arrugginita a fumare lunghe sigarette scure, l’improvvisa apparizione di Uberto provoca uno scatto felino, unito a qualcosa che sa di sfida e di paura, così da rimetterlo in piedi in un baleno e farlo sguainare la spada con foga. Sei tu, maledetto Wan Guld! Urla quello con ira e veemenza. Vieni avanti, bastardo! Lurido verme! Sono pronto a vendicare i miei fratelli!
Uberto inizia a tremare. Il tono deciso del pirata lo ha impaurito talmente da farlo desistere di colpo dall’incedere di quella strana marcia. Tiene lo sguardo basso e balbetta parole scollegate tra loro. Poi mette in moto una strana e dolorosa dinamica: digrigna i denti, contrae la bocca, serra i pugni. Lontano. Lontano…guardo…notte…paura…bloccato…paura…
Quell’uomo si rende subito conto di aver sbagliato persona e tenta di scusarsi: si leva il cappello, piega la schiena, s’inchina fino a toccare terra. Dopo si presenta. Sono Emilio di Roccabruna, conte di Valpenta e di Ventimiglia. Molti mi conoscono come Il Corsaro Nero. Signore, le chiedo perdono per averla impaurita. Risalgo alla mia Folgore, salpo nella mattinata. Vuol forse venire con me? Mi farebbe cosa grata, le assicuro. Così dicendo sventola il suo cappello e un attimo dopo, come per incanto, sparisce. Uberto si guarda intorno, vorrebbe dire qualcosa, ma i suoi pensieri si rintanano in una buca profonda. Eppure sul suo volto, adesso, osa soffermarsi uno sguardo stupito.
L’Hispaniola è immersa in un sonno profondo con le vele ammainate, solo il sibilo dell’aria s’ode attraversare il ponte deserto. Un gatto tigrato, magro come un’acciuga e con una macchietta bianca impressa proprio sotto la gola, se ne sta ritto sul timone, miagola e lesina cibo. Il suo è un miagolio insistente. Nessuno pare udirlo a quell’ora presto del mattino, tranne Jim Hawkins, costretto ad alzarsi dalla sua branda e a scacciare il malcapitato gatto tirandogli una scarpa, senza però colpirlo. Gatto della malora, anche stamani mi hai svegliato!
L’animale compie un’agile balzo, con una giravolta nell’aria tanto ampia da finire, sventuratamente, in mezzo al mare. Jim scoppia in una risata fragorosa, facendo caso, solo in quel momento, al velo lattiginoso che lo circonda: c’immerge dentro le mani, cercando di capire dove si trova, dato che non lo ricorda affatto. Ovvia dimenticanza per chi la sera prima si è lasciato sedurre dai bagordi e dai piaceri effimeri provocati dal rhum scadente della zona…
Non può ricordare, Uberto, come sia finito su quella nave; ma la vista del ragazzo lo rallegra. La ragione sta nel fatto che il giovane gli ricorda qualcuno a cui lui è legato. Non sa dire bene, i ricordi gli sfuggono dalle mani… Quel ragazzo in effetti somiglia a suo nipote Francesco…
Chi sei? Chi ti ha mandato qui? Non sarai mica della ciurma di Flint? Che sia dannato se non ti scortico vivo! Tali parole il ragazzo le ha gridate, perché ha avuto paura. Trovarsi davanti questo vecchio stralunato lo ha scosso non poco; ma si ravvede subito, capisce che egli è innocuo, che non può nuocere a nessuno. Uberto, però, lo sorprende quando gli mostra le mani nei cui palmi stanno da sempre tracciate le rotte di una vita. Sembra la mia mappa, sussurra Jim.
Cos’è questo fracasso infernale, maledizione! E’ impossibile sognare su questa maledetta nave!
L’uomo che compare improvvisamente sul ponte è robusto, con una folta barba grigia a incorniciargli il viso. La sua gamba sinistra, tagliata fin sopra al ginocchio, è sostituita da un bastone dalla punta arrotondata. Ha lo sguardo torvo, sembra cattivo. Si regge in piedi a fatica e il suo alito alcolico lo si avverte a distanza. Quando si avvicina a Uberto, gli stringe forte la mano in una morsa d’acciaio. Ci serviva un nostromo, non è vero Jim? Bene, io sono Long John Silver, reputato il più terribile pirata dei mari del sud! Chi abbiamo l’onore di ospitare sull’Hispaniola, stamattina?
Negli occhi di Uberto sembrano accendersi una miriade di luci sfavillanti, come se quell’uomo fosse riuscito a scardinare la serratura della sua prigione; ma è solamente un momento, in quanto egli rimette in moto la solita faticosa dinamica: digrigna forte i denti, contrae la bocca, serra i pugni. Lontano. Lontano…guardo…notte…paura…bloccato…paura…
Mi sa che il nostromo non sia d’accordo, non è vero? Bene. Io me torno di sotto, nella stiva, così riprovo a dormire. Guardate di non fare troppo baccano, mi raccomando… Prima di andar via, però, Long John Silver mette qualcosa nelle mani di Uberto: è una barchetta di carta. Un modo per ricordarti di noi…
La prima luce del mattino coglie Uberto seduto su una bitta arrugginita, con una lunga sigaretta scura tra le labbra. Ai suoi piedi un gatto tigrato, magro come un’acciuga, si stira sbadigliando, miagola appena e, in un baleno, si addormenta.
Due uomini si avvicinano, vestiti di nero. Sulla testa hanno entrambi degli stravaganti berretti, con al centro un fregio che somiglia a un insieme di onde argentate. Il mare è nero d’inchiostro, sussurra loro Uberto. Entrambi lo guardano assai perplessi. Venga con noi. Gli dicono. A casa la cercano da un pezzo. Lo prendono sottobraccio, eseguendo quel gesto con un misto di rispetto e cura, dal quale si percepisce che essi lo conoscono bene.
…e poi Jim e Silver…e il Corsaro Nero…non capisco…se si conoscono… Sono le sole parole che Uberto proferisce, quando i due uomini in divisa lo lasciano in custodia delle figlie, come già altre volte è accaduto. E come già altre volte è accaduto, lui si sente sereno.
E’ domenica. Uberto è seduto a capo tavola, accanto gli sta suo nipote Francesco, che ha dodici anni e a scuola fa la seconda media. Egli appare spaesato, ma il suo volto è disteso. Si lascia servire senza un lamento. Tiene lo sguardo fisso dinanzi a sé, sembra attendere qualcosa, ma non sa bene cosa. Dai, nonno, mangia. Gli dice Francesco. Lo so che il dolce ti piace. Così, Uberto si volta verso il ragazzo e – dopo averla levata dalla tasca della giacca nella quale l’aveva tenuta fino a quel momento – gli deposita nel piatto la barchetta di carta di Silver. Con le dita, poi, la sospinge delicatamente in un mare invisibile, ma intuibile solo ai loro occhi.
L’Hispaniola è partita. Sussurra il vecchio. Lontano…lontano…
A Francesco viene naturale fare una carezza sul viso ispido di suo nonno. Che bella! Gli dice. Dove l’hai trovata? …lontano. Lontano. La voce di Uberto è un sibilo appena udibile. E’ un soffio di vento, o una goccia di pioggia nel Mar dei Sargassi. Il lembo di una vela dell’albero di maestra dell’Hispaniola. E’ un tarlo che rode nella gamba di legno di Silver. La macchia bianca sotto la gola del gatto. La peluria sulla bocca di Jim. E’ la larga falda del cappello del Corsaro Nero. Il fregio sui berretti dei carabinieri. E’ il sorriso che fa brillare gli occhi di suo nipote…
Uberto dondola piano la testa, assorto e distante. Briciole del dolce stanno attaccate sulle sue labbra. Francesco gli si avvicina, sfiora il suo braccio e lo chiama. Nonno! Nonno! Dove sei andato stamattina, nonno?
Uberto per questo lo guarda, sussurrando: Bello…Bello… E piange. E il vento, fugace, torna a gonfiare le vele della sua nave. Alcune lacrime gli solcano il viso, come minuscole onde cercano un mare dentro cui disperdersi. Allora, con una carezza sfiora il volto di quel ragazzino. Come…somigli…a Jim.. Gli sussurra in un orecchio.
E il vento, fugace, lo trascina lontano.
La demenza, talvolta, è un guardiano distratto.
Ciao Ciro, il tuo racconto ispira tristezza, malinconia e urla di rabbia ma poi ci si compone nella rassegnazione e nell’accettazione di una malattia terribile. Uberto è una persona anziana colpita da demenza senile. Nella sua mente si alternano visioni di situazioni delicate, avventurose e di paura, ricordi di vicende piratesche, che lo portano lontano da casa. Queste “fughe” terminano e Uberto viene ritrovato e accompagnato a casa. C’è la sofferenza dei parenti stretti perché questa malattia è subita anche dai famigliari. Non basta l’amore a portare sollievo al malato. Questo racconto dovrebbe ricevere maggior attenzione e meriterebbe di far parte dei racconti vincitori. Scusate questa mia opinione.
Emanuele