Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Odore di muffa e profumo di gelsomino” di Alessandra Minello

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

Entrò a piccoli passi, trascinando la gamba destra, la mano tremolante aggrappata al suo bastone. Percorse il corridoio senza guardarsi intorno, mirava solo alla pila di uomini arrivati prima di lui. Appoggiandosi alla parete bianca, salì la scala a tre pioli che qualcuno aveva lasciato vicino alla pila. Si sistemò la camicia azzurra a maniche corte, prima di distendersi sopra l’uomo grasso con la pipa. Spostò la pipa, gli dava fastidio sulla schiena. Poi la rimise dov’era, sorridendo. Teneva il bastone stretto in mano, le sue iniziali erano ben in vista, intarsiate nel legno chiaro. Chiuse gli occhi. La morte era arrivata al momento giusto.
Io guardavo la scena, seduto nella sala di attesa. La maglietta mi si appiccicava alla schiena. Ero oppresso e allo stesso tempo drogato dall’odore di naftalina che invadeva la stanza. La segretaria uscì dallo studio del medico, con le tette enormi strette sotto il camice bianco. -Hai bisogno di qualcosa?-, mi chiese, senza nemmeno uno sguardo ai vecchi seduti intorno a me o a quelli ammassati accanto alla porta. – No, no, sto bene. Devo solo aspettare- risposi. Non sembrò per niente interessata a saperne di più. Tornò verso lo studio, sollevò leggermente un piede per non pestare la mano del primo della pila. Sapevo che alle tre qualcuno sarebbe venuto a raccoglierli. L’uomo seduto vicino a me iniziò ad avere delle convulsioni, erano leggere, quasi un singhiozzo. Appoggiò il libro sulla sedia accanto e si sollevò aggrappandosi allo schienale. Riprese il libro con sé e si avvicinò alla pila di uomini. Aveva la pelle più raggrinzita rispetto agli altri e la bocca incurvata all’ingiù. – Può aiutarmi?- biascicò. Lo stavo osservando, ma non mi aspettavo mi rivolgesse la parola. Annuii e saltai in piedi veloce, gli tenni il libro e lo sollevai per un braccio mentre saliva i tre gradini, era leggero, sapeva di muffa. Si sistemò sopra all’uomo con il bastone, rivolle il suo libro, chiuse gli occhi prima ancora che io mi girassi.
Tornai a sedermi, tenevo la testa affondata tra le mani, l’odore di muffa, naftalina e morte mi invadeva le narici. Dovevo uscire da quel posto, ma non sapevo proprio dove andare.
Dalla sala in fondo a destra uscì una donna, sulla sessantina, con i capelli grigi. Trascinava dietro di sé un carrello con un sacco della spazzatura, una scopa, delle spugne. Chiuse il carrello in uno sgabuzzino e si infilò le chiavi nelle tasche del grembiule verde. Aveva lasciato la porta della sala in fondo semi-aperta. Nessuno sembrò accorgersene, tranne me.
Mi infilai nella stanza, che mi sembrò familiare. Era piena di libri di medicina. C’era una scrivania in rovere, sopra la scrivania una cornice, con una foto di un cavallo bianco. La presi in mano e la baciai. Poi mi avvicinai al lettino, feci scorrere il rotolo di carta che pendeva all’estremità, ricoprendolo tutto con un velo bianco. Mi ci sdraiai. Il cuore mi batteva veloce. Sentivo ancora nelle narici l’odore dei morti, ma stare lì da solo mi rilassava. Iniziai a contare i quadrati del controsoffitto bianco, seguivo con gli occhi le linee che li separavano, immaginavo tante foto di cavalli e un filo rosso che potesse passare tra l’una e l’altra. In quel momento suonò il telefono.
– Pronto Dottor Bassi?
Chiese una voce femminile di là del filo.
– Sì, sono io.
Risposi preparato.
– Sono la Signora Brighi, Adele. Senta dottore, la chiamo per la solita cosa. Mio marito ha ancora le fitte allo stomaco, l’ulcera. Oggi respira male e non mangia da due giorni. Sono preoccupata.
– Senta Signora, mi sembra sia una cosa grave, ma così, senza vederlo, non posso dirglielo. Le chiedo di venire al mio studio alle 15.30. L’aspetto qui, con suo marito e porti anche sua figlia.
– Ma, Dottore, io, noi non abbiamo una figlia. C’è Giacomo, ma vive via, ormai, da anni.
– Ecco, brava, l’aspetto con Giacomo.
E riattaccai. Il grosso orologio sulla parete di fronte segnava le 14.23. Pensai che sarebbe stato bello incontrare della gente viva, malata ma viva, invece che i vecchi morti della pila. Aprii l’agenda in pelle marrone appoggiata accanto all’enciclopedia medica. Spostai il blocchetto delle ricette e iniziai a telefonare. Abbagnale Giorgio, Abbagnale Franco, Abbate Maria Pia, Abbiati Andrea, Abbiati Giulia. Per ogni lettera c’erano almeno venti nomi. Mentre componevo i numeri, con la mano sinistra disegnavo una macchinina sul libro delle ricette. Avevano tutti la segreteria, lasciai a tutti lo stesso messaggio:
“Salve, sono il dottor Bassi, la chiamo dal mio studio. Ho riguardato la sua cartella clinica, è importante che lei venga al mio studio alle 15.30. Porti anche suo marito e i suoi figli, è una comunicazione urgente.”
Alla parola “urgente” alzavo la voce. Forse qualcuno si sarebbe spaventato, ma non m’importava, lo facevo per loro. Intanto l’odore di morto non c’era più. Ora sentivo forte l’odore delle medicine. Passai la successiva mezz’ora a telefonare, mentre le linee della macchinina sul foglio rosso diventavano più nette. Alle 15 ero arrivato alla M. Maccioni Pietro fu l’ultimo. Poi mi fermai, ero stanco. Tornai a sdraiarmi sul lettino, strappando dell’altra carta e buttando via quella vecchia, in cui c’era l’impronta delle mie All Stars. Piegai le gambe e ricominciai a contare i quadrati del soffitto, avevo mezzora prima che tutti arrivassero a farmi compagnia. Non volevo uscire dalla stanza, lì fuori c’erano i vecchi morti ammassati, qui c’era il fresco, un lettino, un buon odore. Alla parete vidi il calendario con i cavalli, mi alzai e andai a baciarlo. Svuotai a terra il cestino della spazzatura che stava vicino alla porta, cercavo dell’acqua. Trovai, invece, una ricetta, una di quelle rosse. C’era disegnata una macchinina, era un foglio tutto spiegazzato, era identica a quella che avevo disegnato io mentre facevo le telefonate. Mi prese, improvvisa, la voglia di risistemare tutto. Afferrai quello che c’era a terra e lo rimisi dov’era. Presi dalla scrivania la ricetta rossa dove avevo appena disegnato la macchinina, la strappai e la buttai nel cestino, a fare compagnia all’altra. Strappai la carta del lettino e la misi pulita, senza il segno delle mie All Stars. Mi strofinai anche la suola delle scarpe con la carta strappata. Girai di nuovo la foto col cavallo bianco, le diedi un bacio. Mi misi in piedi vicino alla porta, ormai erano quasi le 15.30 e sarebbero arrivati tutti: la signora Brighi Adele con il marito con l’ulcera e il figlio Giacomo, anche se abitava lontano, i signori Abbate e la famiglia Abbiati. Forse i Maccioni no, li avevo chiamati tardi. Presi il camice appeso dietro la porta. Indossai anche dei guanti monouso. Mi misi lo stetoscopio al collo. Chiusi il camice, per coprire i jeans e la maglietta rossa. Assunsi un’aria seria.
L’orologio alla parete segnava le 15.29, mancava un minuto all’arrivo dei pazienti. Bagnai le dita della mano sinistra con la lingua e me le passai sulle sopracciglia, dovevo essere in ordine. Bussarono.
– Dottor Bassi, posso entrare?
Era un uomo, sulla sessantina, non lo riconoscevo. Pareva molto pensieroso.
– Certo, entri pure. Mi dica.
– La aspettano nella sua stanza, me l’ha detto la Dottoressa Maria Vita, sta arrivando a prenderla. L’accompagnerà nel suo studio fino alle 20. Lì c’è del lavoro per lei. Io passerò a trovarla stasera alla fine del turno.
Tutto quello che diceva mi sembrava ragionevole. Anche il nome della dottoressa mi risultava familiare. Lei infatti arrivò dopo poco, era bella. Mi aiutò a spogliarmi, mi tolse il camice, lo stetoscopio, mi prese sotto il braccio e mi parlò dolcemente.
– Andiamo Andrea, ti riporto nella tua stanza.
Non era aggressiva, non era antipatica, non aveva le tette grosse come quell’infermiera che avevo visto prima.
– Dottor Bassi, dieci minuti e torno da lei. Andrea è tranquillo, guardi com’è bello oggi.
Il vecchio pensieroso fece finta di sorridere.
– Sì, Maria Vita, c’è tempo, il primo paziente arriverà alle 4.
Non capivo perché parlasse così di me, non capivo perché chiamasse quell’uomo Dottor Bassi, ero io il Dottor Bassi! Ma mentre ci pensavo, lei mi aveva già preso sottobraccio e mi aveva dato in mano la foto col cavallo che avevo visto sulla scrivania. Iniziai a baciarla, mentre Maria Vita mi portava via. Sapeva di un buon profumo di pulito. Mentre la porta si chiudeva mi parve di vedere il signore di sessant’anni che metteva nel cassetto l’agenda in pelle e tirava fuori dalla scrivania un’altra foto, c’erano tre persone, uno era lui, una era una signora, uno era un ragazzino con una maglietta rossa. Il signore la guardava con sguardo triste. Maria Vita mi teneva abbracciato per i fianchi, attraversavamo la sala d’attesa, i vecchi morti ammassati sull’angolo non c’erano più. I capelli di Maria Vita profumavano di gelsomino.

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5 commenti »

  1. Il racconto è veloce, schietto e lascia un senso di ambiguità che, man mano che si procede con la lettura, si trasforma in consapevolezza…
    Mi piace e lo trovo efficace. Ad effetto.

    Complimenti!

  2. […] http://www.raccontinellarete.it/?p=23659 […]

  3. Grazie mille Attilio! Mi fa piacere il tuo commento, soprattutto il riferimento all’ambiguità. Era quello che volevo trasmettere, nonostante ben sapessi si dall’inizio le caratteristiche del personaggio principale. Grazie davvero!

  4. Concordo anche io sull’ambiguità. Molto ben scritto e scorrevole. Finale perfetto!

  5. Ambiguità molto forte, non c’è che dire, sorretto da una scorrevolezza assai piacevole!

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