Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Scordarella” di Simone Delos

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

All’inizio pensai che fosse uno scherzo.

Era divertente. Era più facile pensarla così.

Dopo una vita passata a immaginarla tua moglie, seduto a una scrivania a inserire dati, a guardarti ogni giorno le spalle pronto a. Schivare le coltellate alle spalle della gente che negli uffici passa il tempo a cercare il punto dove la carne è più tenera.

E tornare la sera troppo distrutto per viverlo davvero il tuo matrimonio.

Non poteva essere che uno scherzo: un indovinello del destino. Qualcosa del tipo: ti va di giocare un po’ a un gioco nuovo?

Questo pensai, all’inizio.

Il primo mese da pensionato decisi di trascorrerlo in viaggio.

Prenotammo una crociera nel Mediterraneo; qualcosa di rilassante ed emozionante al tempo stesso.

Non avevamo figli, non ne abbiamo mai avuto il tempo.

Da giovane Maria aveva sofferto per questa cosa. Mi diceva che sapeva che sarebbe stata madre di tre bambini: due maschi e una femmina, nel mezzo.

Ne era certa, l’aveva sognato.

Io sapevo già che i sogni a volte sono i film di quello che non avrai mai. Ma lo speravo anch’io. Di averli, intendo.

Non andò così e col tempo anche lei si arrese all’idea che il suo desiderio di maternità sarebbe rimasto nel cesto dei desideri inesauditi. Un cesto pieno, perché quelli che si esaudiscono sono davvero pochi. Nel mondo.

Dicevo della crociera perché fu lì che iniziò.

Cabina spaziosa. Balcone sul mare.

Io rilassato, felice.

Lei che mi abbracciava, la sera, prima di dormire.

Io che non ero stanco. E allora la abbracciavo anch’io.

Ho sempre pensato che per sposare una persona devi amare i suoi abbracci. Prima del resto devi amare i suoi abbracci.

E ci abbracciavamo, su quella nave, come non l’avevamo forse mai fatto.

Visitammo Corfù, con i suoi castelli di pietra a picco sul mare. Poi Mykonos e Maria accarezzò Petros, il pellicano che gira per le vie come una star.

Vedemmo tanti porti e poi tornavamo in nave e ballavamo spesso fino a notte inoltrata.

Ridevamo spesso. Come da ragazzi.

Una mattina mi svegliai che Maria era già in bagno.

Quel giorno la nave attraccava a Spalato. Era l’ultimo giorno di crociera, poi saremmo tornati a Venezia.

Accesi una sigaretta in balcone. Mi piaceva farlo li, affacciato davanti al mare.

Posso venire in bagno amore?

Sì, tesoro, vieni. Mi sto preparando.

Maria aveva ancora capelli bellissimi e lunghi fino alla schiena. Spesso si svegliava presto per il piacevole rito di lavarli e poi spazzolarli con cura.

Quando entrai, era seduta sullo sgabello, davanti allo specchio.

Non me ne accorsi subito.

Vedere quei movimenti lenti ed esatti delle braccia. Il collo che era ancora giovane, inclinarsi appena per assecondare la direzione delle ciocche. Mi incantava.

Giulio, ho quasi finito. La nave sta per arrivare al porto vero?

Non riuscii a risponderle. Come se avessi la gola chiusa da un cappio.

Si stava pettinando, ma senza avere la spazzola in mano.

 

Credo sia questo che ci rende diversi, dagli altri esseri del pianeta.

La capacità della nostra mente di interpretare. O meglio, di trovare i significati che preferisce, rispetto alle cose che vediamo, che sentiamo.

Un modo per proteggerci, credo. Per camuffare il dolore.

Questo tradusse la mia mente, un istante dopo la paura (che viene sempre per prima).

Amore, dissi sorridendo, stanotte forse la nave ha ondeggiato troppo?

Maria si girò con espressione interrogativa.

Da quando ti spazzoli i capelli senza la spazzola?

Lei si guardò le mani. Un attimo. Forse la stessa paura, o una paura ancora più grande. Poi sorrise anche lei.

Ahahaha si! Devo essere un po’ rimbambita stamattina.

Poi prese la spazzola e iniziò a pettinarsi davvero.

Ci metto pochissimo, prometto.

Io uscii dal bagno. Accesi un’altra sigaretta e andai sul balcone.

Il mare sembrava aver cambiato colore. Era diventato nero.

 

Scendemmo a Spalato. Souvenir, bancarelle.

Pranzammo in un ristorante italiano da dove si vedeva la nave attraccata poco al largo.

Quella sera Maria disse che era un po’ stanca e andammo a dormire presto.

Quando mi svegliai, eravamo già a Venezia.

Lei era già in piedi. Le valigie piene. Rovistava tra i fogli.

Buongiorno tesoro, mi disse. Era agitata.

Non riesco a trovare i documenti, li tenevi tu?

Mi presi un minuto per registrare la cosa e decidere la risposta.

Eravamo sposati da vent’anni. Più altri sei di convivenza prima del matrimonio, e mai, mai aveva lasciato che mi occupassi dei documenti o cose del genere. Sbadato com’ero. Lei sempre precisa, ordinata, scrupolosa.

Poi scelsi, e quella scelta fu la scelta più importante della mia vita. Quella che rispettai con la maggiore coerenza.

Sì, Maria. Dissi. Li ho io, tranquilla, vai a cambiarti che tra poco scendiamo.

Lei sembrò sollevata.

Quando rimasi solo nella cabina presi a rovistare ovunque cercando quei documenti.

Mia moglie nasconde le cose in modo praticamente perfetto. Lo raccontavo spesso in ufficio, e tutti ridevano.

Alla fine li trovai in fondo al suo trolley, in un sacchetto di stoffa chiuso con un nastro viola.

A Venezia prendemmo il treno che ci riporto a Roma, poi il taxi, fino a casa.

Il telefono squillò quasi subito, Maria aveva già iniziato a disfare le valigie.

Rispondo io amore! Le dissi.

Maria aveva due sorelle, più grandi. Una, Elvira, era già nonna.

Avevamo quindi tre nipoti e un pronipote di quasi un anno.

Zio ciao! Siete tornati? (Era Gaia, la figlia di Paola, la sorella maggiore)

Sì, Paola, guarda giusto una mezzora fa.

E zia?

Secondo te?

Sta svuotando le valigie!

Ahahah vedi che la conosci bene? Ora te la passo.

Ok Zione! Ciao!

Maria!!!

Si??

Vieni! C’e’ Paola al telefono!

Arrivo!

 

C’era un tacito accordo tra di loro, Maria e le sorelle, quasi una promessa fatta senza parlare.

Maria era l’unica a non aver avuto figli. Per questo i figli delle altre l’avrebbero dovuta considerare qualcosa di più che una zia.

Un’altra madre, quando sarebbe stato possibile. E per Paola lo era, Maria, una seconda madre.

Mentre erano al telefono, andai in camera. Eravamo stanchi entrambi, del viaggio in treno, volevo dare una mano a sistemare.

Le valigie erano vuote, sul letto. Aveva già fatto tutto, Maria. Le mie camicie appese, poi i pantaloni e il resto. In un ordine perfetto e immacolato. Per lei teneva una parte piccola della cabina armadio.

Aprii le ante.

Ormai avevo scelto di sorridere e avrei sorriso sempre. Qualunque cosa fosse accaduta.

La mia parte dell’armadio era ordinata. Perfetta.

Ma non c’erano le mie di cose. C’erano i suoi vestiti.

 

I giorni passarono svelti, come se il tempo avesse deciso di ingranare la quinta, dopo sessantatré anni in quarta.

 

Una mattina decisi di andare dal medico.

Mi parlò di Ippocampo, acetilcolina e farmaci anti-amiloide.

Non capii quasi nulla tranne che dovevo far fare a mia moglie una risonanza magnetica ad alta definizione al più presto.

Mi feci fare la prescrizione.

Dottore?

Si?

Potrebbe farmi un favore?

Certo, mi dica

Forse le sembrerà una cosa stupida.

Non lo sarà, mi dica.

Le va di sorridere?

Adesso?

Sì, per cortesia.

(Sorrise)

 

A Maria dissi che ogni tanto era bene fare dei controlli. Mica eravamo più ragazzini, le dissi.

La risonanza confermò la malattia.

Adesso si trattava solo di aspettare.

Dall’Alzheimer non si guarisce mai. Si attende, come alla fermata di un autobus. Sperando che passi il più tardi possibile.

Allora pensai che avevo fatto la scelta giusta, quel giorno, sulla nave.

E che sarebbe stato un gioco. Tutto soltanto un gioco.

Con le sue sorelle e i nipoti parlai al telefono. Si presero un po’ di tempo, perché le lacrime devono scorrere, non le puoi ricacciare dentro gli occhi.

Poi giorni dopo mi vollero vedere, da solo, e mi dissero che sì, sarebbe stato un gioco.

Credo che Maria avesse già capito ma, per paura o perché la malattia stava già degenerando, si comportava come se nulla fosse.

Iniziammo a chiamarci Scordarello e Scordarella.

Così quando lei cercava disperatamente l’orologio che aveva al polso, io fingevo di dimenticarmi il nome di mia madre.

Scordarella?

Scordarello?

E giù a ridere.

Un Sabato la vidi annodarsi al collo una delle mie cravatte.

Le andai dietro con le braccia incrociate e l’aria perplessa. Lei mi vide dallo specchio.

Cosa c’e’?

Nulla signor Mario, le feci. Che bella cravatta!

Lei si guardò.

Io scoppiai a ridere subito. A lei ci volle un po’ di più.

Ci fu una mattina in cui non ci riuscii neanche io, a ridere.

Ero uscito a prendere il giornale; colazione al bar e due chiacchiere con i vicini di quartiere.

Davanti al portone mi accorsi di non aver preso le chiavi di casa e citofonai.

Chi è

Amore sono io, ho dimenticato le chiavi.

Scusi chi è lei?

Amore sono Giulio…

 

Giulio chi?

Rimasi qualche minuto davanti al portone.

Poi andai al parco vicino casa, su una panchina. Aprii il giornale e ci piansi dentro. Forte. Fortissimo. Fino a urlare.

Paola

Dimmi Zio

Puoi venire a casa nostra con le chiavi?

Che è successo?

Maria non mi riconosce più…

 

Arrivò il momento degli infermieri e delle cure a casa.

Arrivò il momento dell’imboccare per farla mangiare e del lavarla.

Arrivò il momento delle urla, della rabbia improvvisa e delle risate isteriche.

 

Ridevo. Ridevo e cercavo di farla ridere mentre le portavo il cucchiaio alla bocca. Mentre le lavavo la schiena. Ridevo, anche se lei non rideva più e mi diceva che avrebbe chiamato la polizia se non me ne fossi andato immediatamente.

Allora uscivo un attimo. Suonavo il campanello e dicevo che ero della polizia, che poteva stare tranquilla, e lei mi diceva:

Posso offrirle un caffè agente?

Perché no signora, lei è molto gentile.

Allora riuscivamo a stare insieme per qualche ora fino a quando non riconosceva più neppure il poliziotto.

Diventavo ogni giorno idraulico, pittore, elettricista, falegname ecc.

Le sue sorelle erano talvolta suore o un comitato di quartiere o altre cose che s’inventavano al momento. I bambini non potevano portarli più.

 

D’un tratto non riuscii più ad imboccarla. I dottori mi dissero che stava peggiorando rapidamente e non riusciva più a deglutire.

Dissero che era meglio ricoverarla. Dissero così.

Io le presi un letto attrezzato da ospedale e un’infermiera 24 ore su 24.

Dormivo sul divano. Ma tanto ormai non dormivo più.

Paola mi chiamò al telefono un giorno.

Le dissi che lei stava sempre peggio ma lei voleva sapere come stavo io.

Ed io non seppi rispondere. Non seppi rispondere.

Una notte la sentii urlare. L’infermiera si svegliò subito.

Poi venne da me e mi disse di portarla all’ospedale.

Correvo dietro l’ambulanza come se fossi io a guidarla. E la strada e tutto il resto non esistevano più.

La misero dentro a una stanza e chiusero la porta. Presi un caffè alla macchinetta e chiamai tutti quelli che mi vennero in mente.

Arrivarono in molti.

Poi uscì un dottore.

Chi è il marito? Mi alzai.

 

Il sistema nervoso di sua moglie non risponde agli stimoli. Inoltre soffre di polmonite. Stiamo somministrando una cura farmacologica composta da bla bla bla. Crediamo che bla bla bla. Se posso essere sincero non bla bla bla.

Poi scosse la testa.

Che cazzo scuote la testa?

Come scusi?

Le ho chiesto, se non sono troppo indiscreto, cosa cazzo scuote la testa!!!!!

Arrivò mio fratello che mi prese sottobraccio.

Andiamo a fumare una sigaretta Giulio.

Mi disse delle cose sul destino, poi gli scherzi che mi faceva quando eravamo bambini. Una roba del genere.

Fumai tre sigarette poi dissi che ero calmo ma volevo rientrare.

Piangevano.

Elvira, Paola, Patrizia.

Piangevano.

E tutti gli altri ad abbracciarle e i medici fuori dalla stanza a dare pacche sulle spalle.

Sentii le braccia di mio fratello attorno al collo. Disse che dovevo essere forte adesso.

Poi mi videro e iniziarono a camminare verso di me. E allora io no, non potevo riuscirci. No. E indietreggiai, ma loro avanzavano e dicevano Giulio! Giulio! Ed io ancora no. Dissi: No! Urlai: No!

Poi corsi via.

Fuori dall’ospedale e continuai a correre.

E gli abbracci sulla nave e continuai a correre.

E l’anello e le cene a lume di candela e Fritz il cagnolino che ci morì da cucciolo e i baci da fidanzati e le sue gambe tra le mie mentre dormivamo e continuai a correre.

Scordarella era morta ed io volevo solo correre.

 

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10 commenti »

  1. Mi è piaciuta davvero molto! La storia è bella, i dettagli mai banali. Alcune frasi davvero riuscite (ad esempio: Ho sempre pensato che per sposare una persona devi amare i suoi abbracci. Prima del resto devi amare i suoi abbracci.). Il titolo mi ha tolto un po’ di suspance sul tema, ma ad un certo punto me ne sono dimenticata (!) presa dalla lettura.

  2. Buongiorno Simone, il tuo racconto parte come una “semplice” cronaca, pochi fatti raccontati con lo scorrere del tempo e poi incalza, incalza e comincia a fare male a causare brividi, sofferenza, angoscia, fino alla fine.
    E’ stupendo!
    Complimenti

  3. Grazie Liliana e Alessandra.

  4. Bello, e forte. Io, che raramente mi lascio prendere, ho un groppo alla gola.

  5. Quanto amore in questa storia, talmente tanto che esce dallo schermo e ti colpisce forte, fino a farti male, fino a farti piangere. E’ così viva e reale da sembrare il racconto di un figlio distrutto o di uno di quei nipoti che non potevano più andare a trovare Scordarella… Bravo.

  6. Un personaggio forte, capace, vivo, tanto da fare male e bene allo stesso tempo. Posso dire la stessa cosa del racconto? La dico. Un racconto forte, capace, vivo, tanto da fare male e bene allo stesso tempo.

  7. Barbara ti ringrazio. Se sono riuscito a rendere vivo il personaggio e di conseguenza il racconto, ho raggiunto il mio scopo.

  8. Roberto grazie. È una storia triste.
    Spero di essere riuscito a trasmettere il filo di speranza che permette al marito di affrontare la cosa con tutta la leggerezza possibile. Per lei.

  9. Grazie Sergio.

  10. Difficile raccontare queste cose. ma necessario, soprattutto per liberare se stessi. Ci vuole coraggio soprattutto nel momento peggiore, quello in cui la persona non riconosce più gli altri. E poi la corsa finale, non una fuga ma il tentativo di riprendere quello che si è perduto.
    Ciao Duccio Magnelli

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