Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “Ciao maestra” di Mara Grytter

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

“Ma perché lo fai?”. Mi tornava in mente la domanda di mia sorella e forse era  per quel giudizio negativo   sottinteso o forse per il freddo di quella sera di gennaio, che  non riuscivo a motivarmi, ad andare.

” Ma ti pagano almeno?” aveva continuato lei.

Figurarsi, pensai, quella era l’ultima cosa. Fin  da bambina il no-profit era già in me, l’avevo capito ormai tanto tempo prima, da quando vendevo i   giornaletti e  i miei libri  per comprare con il ricavato, latte e carne per  i  gatti di strada.

Le risposte che mi venivano in mente, non mi consolavano. Lo facevo, adesso senza più impegni di lavoro,   per  colmare quel vuoto lasciato dai figli ormai grandi, andati per la loro strada: la “sindrome del nido  vuoto”?  O perché quella di insegnare era una vecchia passione mai potuta praticare?

Mentre riflettevo,  ero già in auto, carica di libri, fogli colorati e  cartine geografiche, , destinazione la scuola di italiano per stranieri.  Quella sera avevo portato anche  il thermos grande pieno di thè caldo. Mi piaceva prepararlo  in inverno e offrirlo prima dell’inizio delle lezioni: quel profumo di thè verde al gelsomino speravo evocasse,  un pò in tutti gli studenti, il  ricordo del loro paese, di casa. Un po’ come succedeva a me quando, all’estero, sentivo l’aroma del caffè espresso arrivare all’improvviso a riempirmi le narici: in un attimo mi ritrovavo nella cucina di casa mia a Roma.

“Ciao Maestra” , Popsi, la giovane bengalese mi salutava sempre per prima, aveva in braccio la sua bambina di quattro mesi, bellissima, tutta occhi. Si chiamava “Luce della rosa,”   tradotto in italiano.  La portava in passeggino con l’autobus, aiutata dalle altre amiche. Quando arrivavano tutte nel cortile della scuola, formavano una piccola folla colorata, con i loro abiti di seta cruda di un bel  rosa fucsia, turchese e persino giallo  indossati sotto ai più occidentali cappotti. Erano arrivate in Italia quasi tutte per raggiungere i  mariti che lavoravano qui già da anni,  venivano a scuola per imparare  a comunicare nella lingua del  paese in cui erano capitate.  Molte aspettavano un bambino o ne avevano già;  li portavano per mano a scuola, insieme a loro.

Al mio arrivo si  avvicinavano  al tavolino arrangiato, con i bicchieri di carta, lo zucchero di canna e sorridevano  scaldando le mani intorno al bicchiere, inspirando il profumo del thè bancha. Qualcuno ringraziava con le mani giunte e un piccolo inchino del capo, mormorando un” grazie” ancora incerto nella pronuncia.

Finalmente aveva inizio la lezione.

In classe quell’anno avevo donne  e ragazzi provenienti dalla Nigeria, dal Bangladesh, dall’ Afghanistan, dal Sudan. Nel corso dei mesi,  a causa  di trasferimenti o delle assenze prolungate, succedeva spesso che gli studenti di una classe cambiassero   e così bisognava ricominciare da capo, dall’alfabeto.

La prima volta che  mi avevano chiamata  ”maestra”, mi ero emozionata. Non avevo mai fatto l’insegnante prima e quel titolo mi sembrava troppo onorifico, mi sentivo in dovere di meritarlo.  Le prime volte  quindi avevo cercato di schernirmi, di  rifiutare con delicatezza quell’appellativo, ma poi l’ affetto semplice e la fiducia espressi con quella parola, mi avevano conquistata.

Avevo scelto di insegnare al livello base, quello in  cui arrivano le persone che non sanno nulla di italiano, che ti guardano sorridenti e fiduciosi senza capire nemmeno il saluto  di benvenuto.

Si iniziava con l’alfabeto e le sillabe,  con i suoni, quindi, della nostra lingua così diversi dai  loro. Meno male che  conoscevano tutti  un po’ di inglese o francese, altrimenti sarebbe stato difficile comunicare e andare avanti.

La soddisfazione poi era enorme quando, alla fine dell’anno, ognuno di loro riusciva a presentarsi, a parlare del suo paese e della sua famiglia, a raccontare la sua storia: a comunicare  in italiano le sue emozioni, ecco.

I bambini, di  età varie, erano già intorno al tavolo impegnati a colorare oceani azzurri, soli gialli e a giocare con le letterine colorate  dell’alfabeto.

Avevo già notato quel ragazzo che restava sempre  in silenzio e  in disparte, Khalid, sudanese di 26 anni . L’avevo notato  da quando  aveva iniziato il corso un mese dopo gli altri, schivo, timido. Non parlava mai della sua storia, di come fosse arrivato in Italia. Aveva uno sguardo sempre nostalgico e solo quando avevamo  trovato sulla cartina geografica il suo Paese in Africa, si era illuminato in un grande sorriso.

Alla fine della lezione, alle nove di sera, iniziavano i saluti e man mano uscivano tutti tranne la mamma di “ Luce della rosa”: Popsi si girava di spalle verso il muro e allattava la sua bambina. Solo così riusciva poi a riportarla a casa in autobus senza che urlasse dalla fame.

Poi  una sera accadde.

All’arrivo a scuola c’era una strana concitazione, anche tra gli insegnanti: c’erano stati degli scontri in periferia e alcuni migranti erano stati coinvolti. Khalid era stato picchiato dentro ad un supermercato, mentre cercava di acquistare cibo con il buono pasto. Lo  avevano raccontato,  con gesti molto concitati i suoi amici ;  ora lui si trovava in ospedale con due costole rotte.

Quella realtà, fino ad allora  così lontana, estranea dall’atmosfera della  scuola, mi era piombata addosso all’improvviso. All’inizio ero rimasta  incredula, quasi sotto schock, non riuscivo ad  iniziare la lezione.   Decisi  che sarei  andata a trovarlo, era un mio studente dopo tutto.

La mattina seguente   in ospedale, lo trovai  ancora sulla lettiga del pronto soccorso, aveva la testa fasciata e la faccia pesta, oltre alle costole rotte. Si era salvato chiedendo aiuto alla polizia, dopo essere stato attaccato senza un motivo, solo perché si era trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato,  in quella sera di follia.

Era stordito e ancora impaurito, sorpreso di vedermi.

Cercava  il mio sguardo, vincendo la timidezza di sempre, come volesse dirmi qualcosa.

L’ ultima lezione avevamo ripetuto il verbo essere.

E lentamente cominciò a parlare,  scandendo le frasi  come  a   scuola:

“Lei non è …..   la mia… maestra,

“Tu sei….  mia… sorella,

“ Voi  siete…..  la mia … famiglia.”

Non ricordo più cosa gli risposi.

Ero uscita  dalla stanza vedendo poco davanti a me,   lacrime di commozione trattenute a stento, mi offuscavano la vista.

Sentivo  i brividi sulla pelle, ero tornata in macchina ancora stordita e solo dopo un pò di  inspirazioni ,  cercai di fare ordine tra le   mie emozioni.

Dovevo ricordarmi  di raccontarlo a mia  sorella, pensai.

Avevo le risposte alle sue domande, forse adesso avrebbe capito anche lei.

 

 

 

 

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4 commenti »

  1. Ciao Mara, storia semplice, delicata, vera
    🙂

  2. bella l’immagine delle donne che stringono tra le mani il bicchiere di carta caldo, la scuola improvvisata che vive di fogli colorati, libri ed entusiasmo.
    un racconto dolce, che lascia la voglia di fare qualcosa. brava Mara!

  3. Il racconto è intenso … e può capirlo a fondo solo chi sa cosa significa insegnare

  4. Grazie per i commenti. Ho cercato di esprimere le emozioni di quell’esperienza, libere da ogni retorica.

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