Racconti nella Rete 2010 “E se Godot arrivasse?” di Sara Berchiolli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Sporse i piedi fuori dal marciapiede, guardò prima a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra, non si sa mai e attraversò con una corsa appena accennata. Entrò nel bar, con gran scampanio di carillon.
-Buongiorno- salutò cortese
-Buongiorno- rispose cortese il barista, maneggiando una tazzina con destrezza da giocoliere.
-Bè?-
-Cosa bè?-
-Non mi riconosce?-
-Pacifico che lavoro in questo bar da parecchio tempo, ma purtroppo no, non la riconosco. Dovrei?
L’uomo cortese sollevò il cappello, si lisciò i radi capelli e, meditabondo, si arricciò le punte dei baffi, fissando il proprio riflesso tra il Vov e la Grappa Nardini.
-Quindi lei, seriamente, non ha la minima idea di chi io sia?- chiese appoggiando a terra la cartella di pelle lisa.
-No, davvero, sono mortificato- il barista cercò lo sguardo della cassiera, intenta, purtroppo, a posizionare su una mensola un agghiacciante cane depresso ripieno di cioccolatini, a loro volta ripieni di rum.
Era un bell’imbarazzo, per il barista. Trovarsi di fronte gli occhi sgranati di questo signore cortese e dovergli dare un così grande dispiacere.
-Eppure ero certo che mi avrebbe riconosciuto. Ma non si ricorda l’estate del 1963? Aveva appena compiuto…-
-Avevo appena compiuto tredici anni. Quindi?- il barista era di indole cortese e ben disposta verso il prossimo. Ma le cose inspiegabili lo infastidivano, nel profondo. Ad esempio: com’era possibile perdere un libro quando era rimasto sul comodino fino all’altro giorno? Dove era andata a finire la fotografia della squadra di pallacanestro del ’71? Dove aveva seminato la bicicletta? E via di questo passo. E il fatto che questo strano signore facesse intendere di conoscere la sua tarda infanzia, lo infastidiva. Nel profondo.
-Sì, aveva appena compiuto tredici anni e per caso trovò la piccola Alice che piangeva seduta sul ciglio della strada, se lo ricorda?-
La piccola Alice. Aveva i capelli color del miele. E le lentiggini sulla punta del naso. E il corpo in sboccio, come solo le ragazzine a quell’età possono avere. Quella volta, quella delle lacrime sul ciglio della strada, per intendersi, era inciampata e si era ferita il ginocchio.
-E lei, si ricorda? Le pulì la ferita con devozione e con la punta del dito fermò la goccia di sangue che scendeva giù per il polpaccio, si ricorda?-
Se lo ricordava. Si succhiò il dito, poi, con gran stupore della ragazzina, che rise e si fece offrire un gelato. Un ghiacciolo al tamarindo. Raccapricciante, con il senno di poi. Il sangue di Alice aveva il sapore pungente del ferro, ma si distingueva nitida la traccia dell’erba e della terra che si erano mescolate al liquido rossastro, quasi nero. Carlo, come chiameremo per semplicità il nostro barista, si sentì pervaso da tutta la forza dell’erba, della terra e del ferro, di sempre, dall’inizio dei tempi fino ad allora. Solo perché aveva Alice dentro di sé, e con un gesto così piccolo, in cuor suo, aveva suggellato un amore eterno.
-Bè, chi pensa che abbia fatto saltar fuori dal nulla una radice per consentire alla piccola Alice di planare a terra in attesa del qui presente eroe?- ammiccò, il signore cortese, toccandosi la punta del naso con il polpastrello.
-Non diciamo fesserie, forza- si riscosse il nostro barista Carlo, fattosi trascinare dai ricordi di quell’estate. –Ora se non le dispiace, può andarsene? Abbiamo da lavorare, noi.-
Però, intanto, aveva sbattuto il caricatore della macchina del caffè, lo aveva riempito di polvere e lo aveva innescato con sotto due tazzine. La cassiera si stava limando un’unghia rosata, canticchiando e mangiando chewing gum.
Il signore cortese trascinò uno sgabello e ci si appollaiò sopra, scuotendo distrattamente una bustina di zucchero di canna. –Quindi ancora lei non ha capito chi sono io- iniziava a perdere le speranze. Si affliggeva ogni minuto di più.
Carlo gli lanciò un’occhiataccia, scaraventandogli davanti con malagrazia la tazzina fumante.
-Riproviamo. Vediamo un po’- girava piano il cucchiaino. Appoggiò il mento sulla mano sinistra e si mise a pensare.
-Ci siamo. Natale ’80. Era solo, si ricorda? Non parlava da mesi con sua madre. Il perché lo aveva dimenticato già dopo la seconda settimana di silenzio. Ricorda…?-
Ricordava. E infatti s’incupì, il buon Carlo. Corrugò la fronte spaziosa e i due cespugli di sopracciglia si unirono. Era un Natale gelido, dentro e fuori. Voleva telefonare alla madre, chiederle scusa per tutto, per le idiozie, per le parole, per le accuse. Voleva parlarle, anche solo per sentire la sua voce: così calda e roca, che faceva diventare casa anche il peggior tugurio. Carlo camminava con i pugni in tasca, testa bassa. Sperava in un meteorite catastrofico che lo cancellasse dalla faccia della terra. Faceva attenzione a non calpestare le righe della pavimentazione pubblica.
-E andò a sbattere contro sua madre, se lo ricorda? Vi guardaste negli occhi, così uguali. Farfugliò un “mamma”, davvero ridicolo se lo lasci dire. Sua madre, gran donna, le mollò un ceffone e l’abbracciò stretto. Se lo ricorda?- trangugiò rapido il caffè.
Profumava di sapone di Marsiglia, sua madre. Di quello e di fumo. E c’era pure un buon odore di crema idratante, la Nivea, nella scatolina rotonda, bianca e blu.
-Sa chi fece venire in mente a sua madre l’ impellente bisogno del salame che vendono solo nella strada dove vi siete incontrati?-
-Lei?-
-Esatto. Impara in fretta però…-
-Ma è impossibile. Chi è lei? Dio? Il destino? Guardi, mi faccia il piacere…- Carlo era costernato. Ormai aveva smesso di affaccendarsi in cose inutili, dopo aver lasciato le due tazzine vuote nel lavandino, rimase a fissare il bancone. Guardava quel bar, sempre uguale a se stesso, pilastro e bastione della tradizione cittadina che non aveva subito gli stravolgimenti degli spritz, degli happy hour, dei salatini. Lo guardava eppure non lo riconosceva, non riconosceva se stesso, non riconosceva quest’uomo cortese che tanto crudelmente lo stava trascinando negli angoli più reconditi del suo passato.
-Vorrei che mi credesse, signor Carlo. Io conosco queste cose e molte altre. So la canzone che cantava nell’orecchio a sua moglie, quando vi conosceste, quella sera sulla spiaggia. So il nome che voleva dare a suo figlio, so che il suo sogno più grande è vedere il tramonto in ogni posto del mondo. E, si lasci dire, farò in modo che tutto questo accada, sa? Ma lei deve aiutarmi. Deve credere in me, in quello che sono qui a rappresentare. Non si lasci trascinare dalla corrente della mediocrità, della vita fotocopia- il signore cortese parlava, affabulatore niente male eh? E intanto si era servito un generoso bicchiere di spuma bionda.
Carlo lo guardava, frastornato e confuso.
-Cambi strada la mattina. Non percorra sempre le solite sette vie per arrivare fin qui. Prenda sua moglie per mano e la porti a vedere il cielo, una sere di queste. Dia retta, è preferibile che vada domani sera, perché è prevista una notevole pioggia di stelle. Farò in modo che non ci sia nessuno, eccetto voi-.
Carlo fu tentato dall’alzare il telefono e comporre il numero della polizia. O del manicomio. O di tutte e due, meglio non farsi cogliere alla sprovvista.
-Aiuti la sua vita. Non lasci che sia il destino, come ha detto lei, a definire tutto quanto. E’ previsto il libero arbitrio, sa? Che si crede? Che sia tutto già scritto e programmato? E allora le giornate storte che senso avrebbero? Se fosse tutto già scritto, non crede che tutto andrebbe come deve andare? Quando perde il treno, ad esempio, è perché quella mattina era stato calcolato che facesse colazione al bar, invece ha preferito restare a casa, per fare le cose con calma. Ecco che il treno parte senza di lei. Ma intanto, ha l’occasione, propizia, di avere un’inaspettata giornata libera da dedicare a se stesso.-
Il signore cortese si era alzato, lentamente. Aveva, lentamente, infilato e abbottonato il cappotto e, sempre lentamente, aveva calcato il cappello.
-Mi creda, signor Carlo. Può essere e fare quello che vuole. Deve crederci però, deve reimparare a sognare a occhi aperti, come faceva da bambino. Non si faccia offuscare da questa trivialità parossistica e tachicardica. Sia lento, sia consapevole. Si goda ogni goccia della sua esistenza, come si fa con un rum pregiato. Mi dispiace, ma il mio tempo è finito. Spero che prima o poi possa riuscire a ricordarsi di me, farebbe felice un povero vecchio- sorrise il signore cortese, avviandosi verso la porta. Sollevò appena la tesa del cappello in direzione della cassiera e scomparve nella notte.
Carlo, sballottato, stanco e sconvolto si era appoggiato alla vetrinetta dei super alcolici di importazione, le braccia conserte e lo sguardo nel vuoto. Con difficoltà aveva colto il senso di quello sproloquio, e stava cercando di fare mente locale su chi, dove, cosa e perché fosse.
-Carlo? – cinguettò la cassiera che con un salto sgraziato era scesa dal trespolo su cui era rimasta, ignara, tutto questo tempo.
-Mh?- mugugnò Carlo il barista, stropicciandosi gli occhi.
-Quel suo amico ha lasciato qui la borsa. Gliela vuole ridare? C’è il nome sopra.-
-Il nome?- si agitò incredibilmente il barista Carlo. Strappò la cartella di pelle lisa dalle mani della cassiera che, offesa, caracollò nuovamente al suo posto. Carlo si girò tra le mani la borsa, cercando una targhetta, un adesivo, un segno di riconoscimento. Trovò un cartellino, legato al manico da uno spago rovinato e sporco.
Il nome era quasi scomparso dal cartellino, ma era ancora facilmente decifrabile una G, una D e una T.
-Godot- sussurrò piano Carlo, il barista – Ma certo. Godot.-
Nella notte, un signore cortese rabbrividiva appena, stringendosi nelle spalle e sbuffando sotto i baffi. Si avviò lentamente verso la stazione, traballando lungo la strada ghiacciata. Passò il foyer, attraversò i binari e sparì.