Premio Racconti nella Rete 2015 “Aiutati che Dio ti aiuta” di Arlindo Castanho
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015«Tutte queste cose io ti darò…»
Matteo 4: 9
Erano una coppia proprio bella da vedere, serena, sicura, spigliata. Si erano appena laureati, i soldi c’erano, per il momento, la ricerca di un lavoro poteva aspettare. Soli soletti, un mese intero in montagna: ecco il regalo che si erano fatti, un periodo unico che volevano magico, da incastonare nel cuore per tutta la vita. La casa era tutta di legno, fuori e dentro, una baita da boscaioli o cacciatori, ma con l’elettricità, la caldaia, il telefono fisso e pure l’ADSL. Radio e Tv mai accese e niente da leggere, così avevano deciso: solo manuali su piante e pietre, saltuariamente da consultare.
Il piano messo in atto, con pieno successo, era questo: gironzolare nella foresta, mangiare e bere come orchi, fare l’amore e scrivere.
La mattina presto, quando si svegliavano, non sapevano nemmeno più che giorno fosse; se se ne rendevano conto, lo dovevano all’apertura occasionale della prima pagina del browser predefinito sul computer, o piuttosto al Calendario Rustico di Fra’ Pantaleone che si erano portati appresso dall’ultimo paese arroccato sui pendii del monte, seicento metri più in giù. Il Calendario li incantava, con le sue vecchie foto color seppia, la flora e fauna del luogo, le storie del tempo che fu, le ricette e i rimedi montanari.
Passavano insieme la mattina, su e giù per aspri sentieri, raccogliendo bacche dai lustri colori, probabilmente venefiche, fiori anonimi, pietre curiose, pezzi di legno che erano sculture astratte. Apostrofavano vocianti, come se li potessero sentire, le forme e gli esseri della montagna con i loro nomi più o meno correnti, spesso ricavati dal Calendario Rustico o dai loro manuali tascabili, profusamente illustrati e pignoli all’inverosimile; e con quei nomi intessevano ciò che chiamavano “ghirlande pindariche”: ad esempio, capriolo-veronica (Veronica officinalis)-tordella-dirupo; tritone-corniolo-aquilegia-spelonca; pungitopo-gneiss-rododendro-vipera aspis. Quando non sapevano il nome di qualsiasi cosa avesse catturato la loro attenzione, se lo inventavano sul momento: quel fiore giallo con i petali ovali, oblunghi, disordinati come un bimbo spettinato, era di sicuro un ilarione; quel grosso coleottero di un verde iridato, un osìride (Osiris osiris di Lineo); e così via. A volte zittivano e rimanevano a lungo così, in silenzio, senza il minor imbarazzo; oppure amoreggiavano, secondo l’estro del momento.
Dopo pranzo, però, ognuno per conto suo: lui in cucina, seduto al vecchio tavolo di legno massiccio e rugoso, la lingua facendo capolino dall’angolo delle labbra serrate, riempiva di inchiostro nero decine di cartelle; lei nel soggiorno, sdraiata a pancia in giù sulla pelle di pecora davanti al camino acceso, scriveva al portatile, collegato a una piccola stampante.
Poi, nel tardo pomeriggio, parlavano di quello che avevano appena scritto o di quello che avevano in mente di scrivere, si scambiavano le bozze ancora fresche e le criticavano, senza pietà ma senza acrimonia alcuna, pure. Erano, in effetti, una bella copia di giovani coraggiosi e innamorati, in perfetta sintonia.
Si stava lentamente svegliando in lei, però, come una vocina flebile dal fondo di un pozzo, un leggero fastidio morale, diafano e persistente, tuttavia, come quei dolorini che a volte ci prendono il dito, il gomito, il ginocchio. Era una specie di sordo brontolio, insomma, la manifestazione ancora sommessa di un incipiente disappunto. La causa, se ne rendeva conto, era l’indifferenza che lui palesava, sempre più spesso, nei confronti dell’eventuale successo pubblico del proprio talento letterario. E ne aveva da vendere, lui, senz’altro! Lei trovava sempre meno punti deboli nelle cose che lui andava scrivendo. E lui, invece, le segnalava tante di quelle magagne nelle pagine che lei gli faceva vedere – e aveva ragione da vendere, lei ne era pienamente consapevole – che lei stava iniziando a covare seri dubbi sulla sua personale vocazione letteraria. Ma omnia vincit amor, e ogni volta si ripeteva il miracolo: cena, dopo cena e notte finivano sempre col rivelarsi quasi teofanici, o almeno – per dirla con più lirismo e meno euforia – delle nuove perle da infilare nella collana dei momenti da ricordare con gioia, da benedire fino all’ultimo respiro.
Erano lì dal primo marzo, la svolta arrivò il quindici. La fine del mese era il termine della consegna dei racconti per il concorso letterario indetto dal loro comune di residenza, e lei voleva parteciparvi a tutti i costi. I vincitori avrebbero avuto i loro testi pubblicati da un’importante casa editrice e, in più, un premio pecuniario non indifferente. A lui, invece, quelle prospettive lo lasciavano piuttosto freddino. Tanto, era già ricco di suo; e narcisista, pure; ma – forse proprio perché narcisista – tutto tranne che vanitoso.
Quel giorno, «le idi di marzo» come informava il sollecito Fra’ Pantaleone, il contrasto tra la scrittura di lui e quella di lei divenne ancora più crudo. Per fortuna l’amore era forte ed era pure, per entrambi, la cosa più importante. Ma l’ultimo racconto di lei, il suo quinto racconto in quei quindici giorni à la Thoreau, quello che lei aveva finito proprio in quel dì, era ancora più mediocre dei precedenti. Talmente mediocre che le eventuali correzioni, anche le più accorte, non avrebbero potuto che peggiorarlo: meglio usarlo per accendere il camino la mattina, come aveva già fatto con gli altri quattro. Lui non l’aveva neppure criticato, lo lesse e le disse che poteva far di meglio, che era certo e sicuro che lei poteva fare ancora meglio. Lo disse con una mitezza, un garbo, un’empatia adorabili.
Il racconto che lui le mostrò, invece, era uno dei più belli che lei avesse mai letto: i personaggi vividamente caratterizzati, con due o tre sole pennellate precise; un’ambientazione quasi visibile, cinematografica; un pizzico di sorpresa nell’azione, ma senza giochi di prestigio; un linguaggio semplicissimo seppur studiato, con la purezza petrarchesca delle «chiare, fresche e dolci acque» e con quella passionalità matura e, al contempo, festosamente infantile dei versi di Caproni sull’Annina che esce di casa e va al lavoro.
Il racconto la commosse. Lo ringraziò per averlo scritto, tanto le era piaciuto, e lo baciò sulle palpebre abbassate, sulla bocca. Per commemorare quell’ennesima vittoria condivisa, uscirono di nuovo e andarono a guardare il tramonto dal loro posto di vedetta preferito, trecento metri più in alto. Ed eccoli seduti davanti a quella splendente tavolozza di rossi e gialli, arancioni e viola, come avevano già fatto in altre due occasioni. Ma questa volta lo spettacolo era ancora più «sinfonico», come lo aveva brillantemente definito lei, più maestoso. Fu allora che lui, con gli occhi socchiusi e la voce trascinata, sonnacchiosa, fece un commento calzante, forse, ma demolitore: «Questo tramonto sembra una cartolina illustrata…». Lei pensò: «Ma non è una cartolina», anche se non lo disse. Stese il braccio, invece, e lo spinse.
Rimase lì per un po’, dondolando le gambe sull’abisso, a guardarlo laggiù in fondo, steso bocconi a braccia aperte, la testa dentro il ruscello e una gamba girata in modo innaturale. Un novello Orfeo che placa le impennate dell’ispirazione con le chiare e fresche acque del Lete, pensò. Se ne tornò a casa, copiò il racconto sul computer e gettò i fogli manoscritti in pasto alle fiamme del camino. «Mi dispiace, mi dispiace», mormorava, «ma ora ho già un racconto da inviare al concorso». Mentre faceva il numero del Soccorso Alpino, ebbe un soprassalto: «E se non vinco lo stesso?»
Errata corrige, penultima riga:non “in pasto alle fiamme del cammino”, ma “in pasto alle fiamme del camino”.
Mai essere più bravi della propria donna, in un qualche modo te la farà pagare… Ma poi per cosa? L’ultima domanda è il ripensamento tardivo del competitor/antagonista che ci deve far riflettere sull’utilità delle nostre azioni quotidiane rispetto alle relazioni con gli altri. Ebbravo Arlindo!
Grazie, Roberto, per il tuo molto simpatico e molto arguto commento. E, soprattutto, sono molto contento del fatto che il racconto ti sia piaciuto: i racconti li scriviamo per noi stessi, va bene, ma soprattutto per gli altri…
No, no , no, no, caro Roberto è inutile che fa il candido questo signorino protagonista, stava GONGOLANDO quando diceva “puoi fare di meglio” quindi chi la fa la aspetti 😉
Ma scusa Arlindo ma come ci hai pensato?????? Molto simpatico, mi rha ricordato le scenette degli anni settanta di Vianello e la Mondaini 🙂
Comunque vorrei precisare che non c’è in gioco, nel racconto, una qualsiasi competizione tra i due generi sessuali (basici), e men che meno un ruolo negativo atrtibuito al personaggio femminile, in quanto femminile, appunto: avrei potuto invertire i fatori, il (principale) “cattivone”, tra i due, avrebbe potuto essere benissimo l’uomo, invece che la donna. Interessa il rapporto dinamico tra i personaggi, non gli eventuali – e, in questo caso, non pertinenti – “giochi di ruolo” basati sulla loro identità sessuale…
Sì Arlindo scherzavo, non ho notato alcuna discriminazione nel tuo racconto sei stato chiaro.
Scusa se ho dato adito ad un malinteso 🙂
Errata corrige: « e men che meno un ruolo negativo attribuito al personaggio femminile…»; « avrei potuto invertire i fattori…».
Gentile Liliana, la mia precisazione non riguardava il tuo commento ma sì quello di Roberto: il tuo, figurati, mi è arrivato solo ora… Dunque, nessun malinteso. Grazie, un cordiale saluto, Arlindo.
Ciao Arlindo, la mia voleva solo essere una battuta sul gender… Tant’è che ho focalizzato il mio commento sull’utilità del comportamento competitivo che spesso pervade le nostre relazioni, anche quando non dovrebbe, come nel caso dell’innamoramento (che poi sia uomo-donna, donna-uomo, uomo-uomo, donna-donna, fratello-sorella e via dicendo, non ha rilevanza). Come ha scritto Liliana, non ho nemmeno io percepito una volontà persecutoria verso un sesso piuttosto che l’altro, mi è piaciuta la dinamica della storia e del conflitto che ne è nato. E ribadisco che la storia regge ed è interessante, con il colpo di scena finale e la frase ad effetto di chiusura.
Il tuo racconto mi è sembrato ben sviluppato e simpatico.
Grazie a tutti quanti. D’ora in poi risponderò solo con altri racconti, che ho intitolato complessivamente “racconti millimetrici”. Il primo è per Liliana:
STRA(M)BISMI
– Mi passi il porridge, cara?
– Certo, caro. E tu, mi passi i cavolini?
A merenda? Si vede che si erano fatti una strana idea dell’Inghilterra.
Gentile Arlindo, la tua mi sembra una simpatica iniziativa anche se non ti nego un pizzico di “terrore” nel rispondere poiché dopo questo micro racconto che non credo di aver capito ( scusami ho davvero pochissimo di british ) non OSO pensare come potrai replicare a questo mio commento :-))))
Grazie per la dedica.
Bel racconto sulla scrittura e sulle piccole invidie che col tempo figliano tragedie. Soprattutto se trascurate. Belle le descrizioni della montagna e delle passeggiate mattutine. I due fidanzati sembrano Adamo ed Eva nell’Eden. Tutto è armonia fino a quando..fino a quando non arriva il serpente alias Satana, giusto? L’epigrafe iniziale, il versetto dal vangelo di Matteo, suggerisce questa ulteriore lettura, diciamo diabolica..sono le parole che il diavolo dice a Gesù tentandolo, vero? Complimenti
@ Liliana Sghettini:
L’USATO SICURO
Per il suo romanzo, voleva una fine originale. Ma poi decise di andare sull’usato sicuro e scrisse solo FINE.
@ Matteo Tella:
Gentilissimo Matteo,
il tuo commento mi è talmente gradito che quasi mi dispiace di aver deciso di rispondere agli altri partecipanti, ed eventuali interlocutori, solo con “racconti millimetrici”. Nel ringraziarti di cuore, ti regalo il più leggero (almeno fino ad ora) di quanti di essi sto attualmente sfornando:
ENIGMA
Ha preso nota del codice. Ma non sa più di che cosa.
Sei forte Arlindo, questo microracconto ti giuro che l’ho capito 😉
Grazie a te Arlindo, anche per l’ENIGMA!!