Premio Racconti nella Rete 2015 “Lo Statuario” di Massimiliano Bellavista
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Sono una statua vivente e sono di marmo. Sono in grado di restare per ore fermo nella medesima posizione. La mia carne è di marmo la mia anima ne è la linfa incommensurabile.
O meglio, la mia carne è fatta a strati, come si vede nei teatri anatomici. Mi vesto alla mattina presto di ben studiati strati di tessuto, trucco, pazienza, emozioni.
C’è chi pensa che un mimo di strada (ci chiamiamo statuari) sia privo di emozioni: ma è tutto l’opposto.
Il fatto che io sia in grado di restare immobile, sincronizzando il mio sistema nervoso con il selciato della strada o l’asprezza della facciata di un edificio nel centro storico di una città, non vuole affatto dire che io sia privo di emozioni .
Mentre poso quieto per strada, all’ingresso di un locale o di un negozio, o di un centro commerciale, in stasi come un manichino osservo tutto con attenzione. Si potrebbe dire che la mia attenzione è amplificata dalla stasi, dall’inerzia controllata che impongo ai miei muscoli.
Non potendo muovermi, penso; non potendo respirare, osservo; non potendo piangere o ridere, sogno con ostinazione.
Non sento più particolare costrizione nel fare ciò che faccio: la gente talvolta mi compatisce, ma proietta invano la sua pena di me. Io non potrei fare a meno di essere come sono.
Come statua, vivo più che bene.
Infatti, quando poi all’improvviso mi muovo con movimenti sincronizzati e lenti a metà indefinibile tra quelli inesorabili di un orologio meccanico e quelli fintamente incerti di un serpente destato dal suo letargo provo quasi dolore. I segnali elettrici che riprendono a circolare nei miei nervi distesi e vuoti sono una dolorosa e intensa scossa. Non sempre piacevole.
La sostanza di cui è composto lo strato superficiale della pelle di un serpente non è elastica e non si rigenera; quando i serpenti crescono diventa come un vestito stretto. Succede anche con i nostri costumi, perchè questo è un mestiere che si impara da bambini; già rimpiango non avendo purtroppo avuto figli, la probabile triste fine dei miei bei costumi da artista statuario, confezionati con amore da mio padre e mia madre, intrecciando pazientemente stoffe leggere e riflessi luminosi color rosso, oro, blu o argento. La notte, tra una trasferta e l’altra.
I serpenti, li ho sempre amati e considerati miei inconsapevoli maestri d’arte.
Quando compiono una muta completa della pelle perdono l’appetito, diventano irascibili e cercano di fare scorta d’acqua perché cambiando pelle andranno incontro a una notevole disidratazione.
Anche a me succede lo stesso. Non so bene come capita. Ad un certo punto decido di averne abbastanza di una strada, di una piazza, della gente. Tutto comincia a ricordarmi una gabbia, o una teca di cristallo.
Ma prima del mio numero seguente divento nervoso ed irrequieto, mangio molto meno, bevo, mi metto freneticamente a cercare una nuova città, ed in essa una piazza o una via trafficata. Ma non troppo.
Non si deve credere a chi dice che conosce tutti i luoghi migliori, gli angoli giusti, le piazze più redditizie, perché le variabili da considerare nel mio mestiere sono infinite e non possono che sfuggire al loro calcolo. Rifuggo dai quei colleghi che si esibiscono sempre negli stessi posti. Sono una statua, non un monumento. Un mimo deve restare artefice del suo mondo, della sua vita e soprattutto del suo caso. In altre parole, deve rimanere imprevedibile.
Non a caso, ho parlato del mio prossimo numero. Perché ogni numero è diverso. Penso ai bronzi ellenistici. Statue monumentali di divinità, atleti e condottieri capaci per la prima volta di comunicare una bellezza universale attraverso rivoluzionarie tecniche di produzione, fusione e finitura. Mi ispiro a loro costantemente, perché voglio parlare del bello e soprattutto parlarne a tutti. Infinitamente.
Il fatto che sia vissuto praticamente sempre sulla strada non significa che io sia un ignorante. Di libri ne ho letti e molti. E ho fabbricato con sudore il mio metodo di studio, ben sperimentato. E non senza insuccessi. Da certe strade son dovuto fuggire, mi inseguivano le risate di scherno dei passanti o più spesso la mia rabbia con me stesso.
Ho passato anni a perfezionare i miei movimenti, a studiare i miei e quelli altrui. A studiare i movimenti del mondo in rapporto alle mie braccia e alla mie gambe. Non dobbiamo considerarci poca cosa infatti, se ci muoviamo il mondo risponde, si muove con noi e per noi.
Quindi siamo tutti capaci di cambiare il mondo, se non rimaniamo fermi. Questo punto di vista mi ha sempre fatto amare poco gli asceti, almeno quelli che passano la loro vita a svalutare il corpo, a svilirne il valore per me immenso.
Ho studiato non solo il mio corpo, ma anche l’acrobazia, la giocoleria, gli artisti del passato. So fare quasi tutti i miei costumi, dipingere, cantare. Non so fare maschere, ma nemmeno mi serve perché lo spazio del mio viso è sacro e può essere violato solo da colori. Non sono un attore e non frequento teatri.
Amo scegliere il mio posto, mettermi li per ore se posso, dalla parte dello spettatore nella platea del mio teatro che è tutto il mondo, per vedere la gente che passa. A quel punto mi domando se sapranno non solo vedere, ma osservare e se vorranno fermarsi con curiosità davanti a me, con pazienza. Osservazione, curiosità, pazienza. Le spezie della mia vita.
Mi domando anche se i miei spettatori involontari sapranno e vorranno esclamare con vero stupore mentre da sotto la pelle vecchia del mio costume sento come sente un rettile che è il momento. Che è finito il tempo da trascorrere sospeso nella mia crisalide, compiendo solo minimi movimenti degli occhi e del capo e delle mani, riducendo all’impercettibilità il battito delle ciglia.
Sento che si forma uno strato di pelle nuova e, al momento giusto, come un serpente rompo il mio rivestimento esterno fatto di stasi e silenzio e comincio a spingere la mia vita e le mie emozioni all’esterno.
Il mio cumulo di gioia repressa, come amo dire, da condividere con i presenti e con tutte le persone che mi hanno sfiorato benevole. Che mi hanno lasciato una ricompensa.
I miei clienti preferiti sono i bambini, ma anche i più difficili: i bambini non devono raggiungere la dimensione del sogno, la abitano. E io sono parte di essa. Ogni mio errore, ogni mia mossa falsa produce in loro un disappunto, quasi una rabbia doppia rispetto a quello degli adulti. E soprattutto giustamente, non mi perdonerebbero un simile affronto.
Di solito i genitori non distratti sanno capire l’importanza di questo mio ruolo, e compensano di conseguenza la mia arte.
Da questo punto di vista infatti non posso lamentarmi, vivo bene, ho ciò che mi serve.
Non ho mai messo alla mattina delle monete nella mia cassetta, tanto per far vedere che non era vuota. A parer mio questi trucchi non servono.
Ho amato tante donne. Tante ho riflesso nelle mie maschere. Qualcuna ha sorriso. Qualcuna ha atteso a sera che finisse il mio sonno per aiutarmi a pulire la strada e regalarmi una notte. Qualcuna solo per parlare davanti ad un buon piatto. Quasi a nessuna però sono rimasto indifferente.
Madre natura mi ha dotato di un grande corpo, un corpo da statua. Ma questa parola non è sinonimo di bello, né si interpreti la mia come una affermazione di superbia. Voglio solo dire che ho un corpo plastico, che interessa, un corpo che riflette me stesso e gli altri. Un corpo che parla e sa accogliere.
Questo ovviamente è importante solo per chi vuole capire. Osservare e capire. Qualcuno prima di me del resto una volta ha detto che il mimo significa letteralmente incarnare e quindi capire meglio.
Gli antichi capivano la storia e il mito attraverso le statue e le loro pose, oggi io cerco di mimare la vita degli altri, così che loro possano capirla meglio. Avete mai provato a mimare le vostre azioni comuni di ogni giorno, dico sempre a chi si ferma a parlare con me, provate e sarete felici, perché vi capirete con nuova gioia e rinnovata freschezza. Se li mimate, capirete gli oggetti che usate, le persone con cui interagite, saprete soppesarli e capire le leggi e le correnti del loro movimento. Dopo anni e anni, io so sentire, pesare la mia anima, meglio di un asceta.
Mi sono innamorato solo una volta. Quella donna nasceva dalla luce di un mattino senza che avessi avvertito il suo arrivo. Cosa rara per me, che percepisco tutto e tutti, Per una statua di carne, come per un cieco, i sensi rimasti si amplificano.
Ero in una strada centrale, un po’ rumorosa, non mi piaceva ma avevo dovuto ripiegare li, inseguito dal maltempo e da incomprensioni con altri artisti di strada, che si erano presi il posto da me prescelto la sera precedente.
Il suo era un passo frettoloso. La sua mente era probabilmente già su quel treno, mentre il suo corpo ansimava in direzione della vicina stazione. Ne vidi prima l’ombra, poi ne percepii distintamente il suono marziale del passo che fendeva il gruppetto dei miei primi clienti mattutini, in cerca del suo tempo disturbato da quegli ostacoli.
Sono così le donne al mattino, trattengono sul volto una luce assoluta ma incerta, come è ancora incerto il loro umore. Sono come un accordo casuale di uno strumento, lanciato nell’aria tersa e di cui ci si stupisce.
Forse fu quella sensazione di velocità, quella percezione che mi attraeva ma che era decisamente troppo breve per un ricordo che rese ancora più evidente il suo improvviso arresto. Il suo guardarmi. Da oltre il mio sonno, anch’io la guardavo. E la sua anima era pesante.
Lo capisco sempre, quando incontro una persona speciale, dall’anima pesante. Lo intendo dalla pressione che si genera su tutto il mio corpo, dalla frenesia del mio sangue, dalla forza che mi spinge a rompere prima del tempo l’involucro della mia seconda pelle.
Mi è successo raramente. Un vecchio che mi guardava insistente e che ad un tratto mi sembrò sul punto di cadere. Lo tenni in braccio. Una bambina così assolutamente attratta dal sogno da sembrarmi una piccola perla di cui io ero l’ostrica. Mi sembrò di soffocarla, di doverla subito liberare con una carezza. Sbagliai. Ebbe paura e pianse. Mio padre timido e sorridente all’improvviso in città dopo le liti, dopo la morte di mia madre, dopo il nulla del suo lungo viaggio. Piansi abbracciandolo, senza sapere perché.
L’amore crea le statue, ma la sua furia sa anche dissolverle. Non sapevo più chi ero in rapporto al mondo.
Non ero più flessibile, ero liquido ed ero solo per lei. Volevo esserlo. Che mi portasse con se. Per sempre nel suo museo di bellezza che ero certo in qualche luogo possedesse.
Quegli occhi, quelle braccia non potevano che avere collezionato anime, anche ben prima di me
Non fu un caso che rimanessimo quasi da soli. Mi scolpiva col suo sguardo. Dunque l’arte che ne scaturiva, che è prima di ogni cosa un atto intimo e personale, era un canone che escludeva gli altri e risultava comprensibile solo a lei e a me.
Mi innamorai chiedendo al cielo di divenire un oggetto. Di poter attendere in eterno il suo passaggio. Attratto dal suo sguardo, ricordo vagamente un corpo snello, un suo giocare nervosamente con le mani lunghe e sottili. La sua bocca, come contratta da un dolore o ostruita da una parola troppo grande o comunque indicibile.
Mi innamorai e fu come un sonno nel sonno. Non vidi più niente. Non ricordo più niente. Risvegliandomi seduto sul mio cubo di legno nella strada deserta, mi tenevo la testa tra le mani e il mio trucco gocciolava a terra come lacrime colorate.
Controllai la mia attrezzatura. C’era tutto. Ero io a mancare.
Nella mia cassetta le solite monete. E grande e lucido pressappoco come una moneta, un anello. La mia prima e unica moneta cava.
È sempre al mio dito. Non l’ho mai più rivista.
Trovo interessante il soggetto di questo racconto: la statua vivente, forse perchè mi hanno sempre un po’ impressionato questi strani personaggi, ” gli statuari”. Ne deriva perciò
un racconto originale tutto impostato su una metafora. Complimenti ! Anna Maria D’Ambrosio.
Ringrazio del commento. Condivido questo interesse.Ne ho conosciuti alcuni per varie ragioni e mi hanno sempre impressionato fin da bambino, come in genere le storie che artisti come loro sanno raccontare. Massimiliano Bellavista