Premio Racconti nella Rete 2015 “L’angelo” di Francesco Tanzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Le sue mani correvano dal volto alle spalle, dal collo al mento e poi su fino alla bocca; gli piaceva fermarsi sulle labbra, soprattutto adesso che lo stordimento e il torpore la rendevano così docile. Il sonno era profondo e le sue labbra finalmente raggiungibili: lui le baciava, le carezzava.
Il corpo della ragazza, steso e profumato era perfetto, lui poteva restare ore ad osservare l’attaccatura delle gambe al culo, a guardare quell’incavo di pelle e carne, come le gambe partivano forti, decise, coi muscoli tonici e robusti; una linea perfetta fino alle ginocchia. Gambe bellissime dove lui sapeva perdersi tra carezze e baci. Ma la cosa che più lo lasciava senza fiato era il suo seno. L’aveva già notato anche sotto la camicetta la sera prima, davanti al prosecco, seni rotondi, sodi, e adesso li aveva lì davanti a sé, poteva toccarli. Si divertiva a passare il pollice sul capezzolo e ascoltare quei pochi gemiti che lei era ancora capace di emettere. L’aveva girata su un fianco con la gamba sinistra piegata al ginocchio e la destra dritta fino al fondo del letto. Carezzava le mele, stendeva la mano fino alla coscia e poi tornava su, ripetendosi per decine di volte.
Il volto, l’aveva notato anche la sera prima, era di sconvolgente bellezza, luminoso, incorniciato da capelli corvini che le davano l’intensità di una donna in preda al piacere. Sapeva distrarsi lui dal grigiore, sapeva abbandonarsi e godere di ogni attimo accanto a quel corpo e respirare i profumi che produceva. Quello di oggi era limone e lavanda, pura freschezza primaverile, gioia ed eleganza.
Finalmente assaporava la libertà di essere solo accanto ad una donna e di non poterla deludere assolutamente, né di rimanerne deluso. Ancora baci e carezze e l’illusione di guardarla come un oggetto suo. Si alzò e girellò per la stanza come aveva già fatto a più riprese. Erano le tre del mattino e l’alba era ancora lontana. Poteva respirare l’aria densa di limone e ballare su quelle note profumate.
Aprire i cassetti era la sua mania: calze, calzini, mutandine, canottiere, pigiami, un paio di sottovesti, golfini. Con una sottoveste di seta in mano, nera, piena di pizzi e trasparenze capì come chiudere la scena. S’immaginava già l’effetto finale, con i capelli neri appoggiati sulla seta e il pizzo della gonna che, spiegazzato, lasciava uscire le gambe potenti. Con calma le prese il braccio e lo infilò nel passaggio della sottoveste. Poi la testa e l’altro braccio, fece scendere l’abito lungo il corpo e lo appoggiò increspandolo sulla coscia. L’immagine era quella, pura e perfetta che desiderava; un intreccio di bellezza e sensualità. Rimase senza fiato. Si distese accanto a lei e continuò a guardarla. Viso contro viso.
Si risvegliò di soprassalto e guardò subito l’orologio, erano le cinque, doveva affrettarsi e sparire. Aprì lo zaino e prese una fialetta. Lei adesso dormiva profondamente. Aspirò il liquido con l’ago, la siringa si riempì. Pigiò lo stantuffo, due colpettini col medio. Il braccio di lei bianco, liscio, profumato lo meravigliò ancora. Pensò al suo nome, Rachele, lo mormorò tra le labbra. Una litania, un mantra. Si ripiegò su se stesso come un enorme uovo e vide l’ago penetrare nella vena come un pene sottile. Il suo stupro era tutto lì, nella morte che dava.
Fuori s’incamminò a caso per le strade buie e nebbiose. L’insegna di un bar: aveva fame, due carabinieri parlavano. Si appoggiò al bancone di spalle ai due e ordinò: <<Un cappuccino!>> I due chiacchieravano tranquilli, forse alla fine del turno di notte, forse all’inizio della giornata. L’angelo sorseggiava la schiuma e ascoltava; lui, un assassino, era ad un passo da loro, ma loro sembravano non curarsene. Come in un mondo in cui la libertà di tutti era rispettata, piena tolleranza degli istinti degli altri, delle necessità più impellenti e oscure. Un mondo che lo avrebbe acclamato come eroe, come grande artista.
Finì di bere, pagò e uscì. Per le strade che cominciavano a schiarirsi ebbe un sorriso, poi una smorfia, poi un crampo doloroso all’addome; vomitò tutto il cappuccino. I due carabinieri che camminavano dietro di lui parlottando ancora, si avvicinarono a spasso svelto, lo raggiunsero che ancora era in ginocchio con la bava vischiosa di acidi gastrici che gli colava dalla bocca. <<Non è niente, non è niente – disse biascicando le parole nel sapore acido del vomito – è solo un po’ di freddo allo stomaco.>>
<<L’accompagniamo al pronto soccorso, si sente bene?>> L’accento napoletano del carabiniere lo irritò: <<Sto bene – disse quasi urlando – abito qui vicino.>> Si alzò e riprese a camminare. Non sentiva le gambe, ma si sforzò di sembrare perfettamente in forze. La rabbia montò fino al parossismo mentre la tratteneva fra i denti. Si girò, i due lo guardavano esterrefatti. Un commento sarcastico e ripresero la loro strada. Aveva sciupato tutto, macchiato un quadro perfetto. Rovinato per paura o per senso di colpa, ancora non lo sapeva, ma di certo quel rigurgito bieco di coscienza l’aveva innervosito, infastidito. Avrebbe dovuto creare un nuovo quadro. Quello era definitivamente deturpato.
Più che un angelo, un Dalì direi, che dipinge nature morte ma non è soddisfatto del proprio risultato. Bel racconto noir breve ed intenso.
Grazie Roberto, mi piace il tuo accostamento con Dalì, l’angelo infatti oltre che un paradosso voleva essere un richiamo a nomi di pittori vedi michele l’angelo o il beato angelo. Grazie ancora e a presto.