Premio Racconti nella Rete 2015 “Illusione” di Marina Luzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Quella donna parlava e parlava. I capelli corti biondo platino-nero, un mix spettinato di meches e ricrescita, caotico come il flusso di parole che mi aveva inebetito.
Ma cosa stavo facendo prima di impiantarmi qui davanti a questo pifferaio magico e variopinto? Passavo, camminavo, forse stavo andando da qualche parte. Buffo, non lo ricordavo più.
Un viso ovale, anonimo nei lineamenti, animato da qualcosa dentro, come un burattino tirato da fili invisibili che fluttua nel palcoscenico, lo sguardo fisso, incantatore, sul corpo in movimento.
Lo sguardo, quello sguardo ora mi scrutava e indagava stupito, stizzito, poi, rapido, mollava la presa, mi evitava, fuggiva. All’improvviso brusca, fulminea, un largo sorriso, un cenno di saluto alla comitiva astante e via, assorbita dal brulichio di una soleggiata mattina metropolitana.
Strano, insolito. Tornai sui miei passi. Del resto, non saprei cosa dire.
Mi ritrovo qui, ora, in questo uovo di plastica arancio mandarino. Non so perché. Ci sono arrivato, punto. Sono rimasto qui un pezzo. Aspettavo, non so cosa. Una strana apatia mi bloccava in quello spazio pervaso da un’innaturale luce verdognola.
D’un tratto la vedo. Devo aver dormito. E’ al mio fianco. Quando è arrivata e come? Una zazzera inconfondibile: lei la donna che questa mattina parlava, mi fissava, fuggiva. Che strano sogno. Era lì tranquilla, non mi guardava in faccia, eppure le ero vicino, molto, troppo per due estranei. E’ che quella specie di uovo era piccolo e vi stavamo dentro appena. Sembrava aspettasse. Cosa? Come se fosse naturale per lei essere lì. Ed io: l’estraneo? Non mi badava, quasi fossi una presenza familiare, un comodino, una sedia, un qualsiasi oggetto di arredamento a cui non si fa più caso.
“Ti ho vista stamattina. E’ che… sembri diversa”
“In che senso?”
“Hai gli occhi più scavati.”
“A furia di guardarti dormire.”
“E la pelle, ha qualcosa…il colore o, non so, sembra strana.”
“Per questa luce verdognola.”
“E il tuo aspetto, tutto, sembra stanco, come se da stamattina fossero passati anni.”
“Per…senti, Cappuccetto Rosso, se non la smetti di fare commenti sul mio aspetto guarda che ti sbrano!”
“Non volevo, è che stamattina ti ho vista, sembravi più giovane e, c’è qualcosa…non so, prima quando ti guardavo in strada ad un certo punto eri come stranita e lo vedo ancora: sembri seccata, ma non ti ho fatto niente, credo. Non ci conosciamo, lo so, ma mi sembri familiare in qualche modo, a pelle, direi.”
“Lo sono sì. Dovrei spiegarti, è che sono stanca. Dormo, se non ti spiace.”
“Speravo che tu, insomma, è tutto così irreale.”
“Sei sotto l’effetto del Forget, non dura molto. Poi ricorderai. Buonanotte.”
“Già, speriamo che lo sia.”
Non dorme lo so, il suo respiro non è quello del sonno. Non vuole parlarmi. Le do fastidio, lo avverto, non mi parlerà. E’ che non so dove andare, non ricordo chi sono, non so cosa ci faccio in quest’uovo. Uscire. Per andare dove? Aspetterò, c’è qualcosa che mi sfugge, ho una strana sensazione: paura, inquietudine, un presagio. Dormirò anch’io, mi sento così vuoto.
“Sara, sei sveglia?”
“Marco. Mi riconosci. L’effetto del Forget è svanito. Ho avuto paura, stavolta.”
“Ti avevo chiesto di non somministrarmelo mai più. Non sono pazzo, so quello che faccio, la cosa che non capisco è perché sono qui. Ricordo benissimo di aver deciso: non sarei tornato nell’uovo e, comunque, non l’avrei ritrovato dopo che mi avevi dato quella roba infernale che cancella i ricordi.
“Sei qui perché ti ho fatto installare un cip, a tua insaputa naturalmente, se non torni per l’ora stabilita lo attivo. E’ come quando imposti il percorso nel navigatore, solo che ad essere programmato sei tu. Sei tu che arrivi a destinazione, in tempo.
Ieri sera ho capito che dicevi sul serio: volevi restare fuori dall’uovo per sempre e questo significa morte. Non potevo accettarlo, così ti ho somministrato il Forget.
Eri agitato, sembrava che non facesse effetto, allora ho aumentato la dose.
Stamattina sono uscita per andare al lavoro che ancora dormivi, ho pensato che saresti andato avanti fino a sera. Poi, mentre parlavo con i colleghi in pausa pranzo ti ho visto, eri lì che mi fissavi. Ancora non capisco come hai fatto ad arrivarci. La faccia perplessa: l’effetto del Forget. Avevo davvero esagerato. Mi sono preoccupata, così ho attivato il cip, volevo essere sicura di ritrovarti nell’uovo al mio ritorno. C’eri sì, ma ancora assente. Sono andata in panico, ho finto di voler dormire per sottrarmi alle tue domande. Sono contenta che tutto sia a posto, ora.”
“Non è a posto. Ho fatto un sogno stanotte. Stavo andando al lavoro, all’improvviso si scatena un acquazzone violento: l’acqua invade la carreggiata, avanzo a piedi, a fatica, raffiche di pioggia mi tolgono visibilità e le caviglie sono avviluppate in rivoli turbinosi che salgono rapidamente. Il freddo mi penetra le giunture, cerco una via d’uscita. M’immergo con gli occhi aperti in quell’insolito torrente. Qualcosa che brilla sul fondo mi distoglie, allungo la mano, afferro e metto in tasca. Riemergo. Lentamente l’acqua inizia a defluire. D’un tratto tutto scompare. Mi sollevo dall’asfalto bagnato, qualcosa mi cade dalla tasca e si frantuma a terra. L’oggetto che avevo raccolto. Tra i frammenti un biglietto di carta bianca piegato in quattro. Apro. Leggo: Illusione.
La scena cambia: sono nel mio ufficio al 31° piano. Il biglietto è nel porta foto sulla scrivania al posto della foto di noi due insieme. Vi passo sopra lo sguardo, vado verso la finestra, la apro: l’aria tiepida di un cielo terso mi sfiora. Mi siedo sul parapetto, appoggio la pianta del piede destro sul muro, mi do una spinta, come in piscina quando imprimo lo slancio per fare una vasca. E volo. Felice, inondato da un azzurro senza limiti. Sotto: il mondo indaffarato, brulicante, inquieto, ma tutto questo non mi riguarda più. Sono altrove e mi sento libero, finalmente.”
“Illusione. E’ questo che pensi?”
“E’questo. Non ho più voglia di giocare a nascondino con la morte. Sono sfuggito al tumore ma mi portavo in tasca la verità: tutto questo è un’illusione.
Ho avuto la fortuna di vedere due secoli, sono ancora qui, ma non sono sazio di vita: sono morto a 50 anni quando ho detto sì alla sperimentazione e ho lasciato tutto per vivere in questa città di persone senza tempo, ferme, immortalate come in un’istantanea nel momento in cui hanno messo piede in questo luogo. Non sopporto più questa fissità. Mi sento fuori dal flusso. Sospeso. Dentro e fuori dall’uovo, 12 ore fuori 12 ore dentro per rigenerare l’organismo alla luce verde. Cristallizzato. Ancora cinquantenne, per sempre. Esco ora. Non impedirmelo. Non sarò il primo. I nostalgici, così ci chiamano. Quelli che non ci stanno, quelli che vogliono ripristinare il ciclo della vita. Tutto di noi scompare, anche le ceneri, non un luogo per piangerci, per ricordare che eravamo. Siamo un cattivo esempio: la denuncia di un fallimento. I porci che hanno vomitato la perla della vita, la possibilità di vivere in vitro fermando la malattia, il disfacimento, alienando la morte.”
“Ti arrendi dunque.”
“Non proprio.”
“I processi degenerativi dei tessuti saranno rapidi.”
“Sono un ultracentenario con l’orologio biologico bloccato a cinquant’anni, rimetterlo in moto sarà devastante, lo so.”
“Pensi di farcela? ”
“E’ strano, ma penso che quando sarà il momento avrò la forza. So come si muore. Quando avevo vent’anni ho visto morire mio padre, lentamente, un giorno dopo l’altro, con dignità. Nove mesi, eterni e, allo stesso tempo, brevi come un soffio. Ricordo ancora quella domenica sera al telefono:
-Ciao Marco, ti chiamo dall’ospedale. Ieri pomeriggio, mentre tornavo a casa dal circolo, ho sentito che non respiravo bene, ero stanco, faticavo a camminare. Così ho deciso di venire qui, mi hanno visitato, poi subito si sono allarmati e mi sono ritrovato con un ricovero d’urgenza. Stamattina mi hanno girato come un calzino, poi il verdetto. Pochi mesi di vita. No, niente chemio. Un consiglio? Si diverta, faccia ciò che vuole, esca, veda gli amici, si svaghi. E dire che non avevo mai avuto niente, nessun segnale. Ma… sai che ti dico? Ho vissuto la mia vita, ora è così, che vuoi che faccia? Però vorrei vederti, stare un po’ con te. E’ brutto morire da soli.-
Mentre si spegneva, in quei giorni interminabili mi ha detto cose che in una vita intera non era riuscito ad esprimere; pensavamo a voce alta, faceva il bilancio della sua vita: rimpianti, ricordi felici. So come muore un uomo. La vita non è forse questo: nascere, crescere, decrescere, morire? Ognuno nella sua unicità, come meteore di luce diversa che comunque, passando, squarciano il buio.”
“Non rimarrà nulla di te, meteora, ti cancelleranno.”
“Non ne sono proprio sicuro. Guarda. Cosa vedi?”
“ Vedo te, mi stai davanti.”
“Ora chiudi gli occhi. Cosa vedi?”
“Vedo te a vent’anni, all’università, tieni banco, infervorato in una discussione. Mi vedo fermarmi ed inserirmi nel discorso. Non te l’aspettavi, una schermaglia senza vincitori né vinti: non mi avevi convinta né io avevo convinto te. -Come ti chiami?- ti ho chiesto. –Destino.- hai risposto. Non ci siamo più lasciati.”
“Continuerai a vedermi con gli occhi della mente, dei ricordi. Ti sono dentro, nella testa, nel cuore. Lì ci sono, ci sarò sempre.”
“Non è la stessa cosa.”
“Lo so. La vita è così. Ma noi ci rimaniamo dentro, le parole risuonano, momenti, sensazioni, attimi eterni. Non scomparirò per te.”
“Forse hai ragione.”
“Cosa farai?”
“Ti seguirò.”
“Non devi, sembri felice, in settant’anni di questa vita mai un ripensamento. Potresti vivere per molto ancora, l’esperimento funziona.”
“E’ vero, ma tutto questo ha un senso perché siamo insieme. Allora ho scelto io per te, prima che il tumore ti vincesse. Ho deciso per entrambi. Ora a sta a te giocare la tua mano, così saremo pari. Prima, però, ho bisogno di sapere. Cos’è questo: un suicidio? ”
“No, non per noi. Non morire: questa era la scelta. Abbiamo cambiato idea. Tutto qui.”
“Ho paura. Pensi che ci ritroveremo, oltre la morte, al di là del tempo?”
“L’uomo in varie forme lo ha sempre pensato, o sperato. L’idea della fine non sembra appartenerci, al di là di ogni evidenza. Ognuno ha la sua risposta di fronte alla morte: la mia non si chiama fuga, né alienazione.”
“Mi piacerebbe avere una speranza, ma non ce l’ho; ti invidio, sai?”
“Sei libera di cercare le tue risposte e libera di non averne alcuna. Sei libera anche ora, libera di tornare indietro, di rientrare nell’uovo e di continuare a non morire. Questo non cambia noi, quello che siamo, quello che ci tiene uniti.
Chiudi la porta dell’uovo o il fluido verde perderà efficacia. Devi lasciarti la possibilità di tornare indietro, se vorrai”.”
“Smetti di parlare, mi serve un abbraccio ora.”
“Hai chiuso la porta? L’hai fatto?”
“Non vuoi saperlo davvero. Andiamo”
Una storia d’amore eterna o forse no… dipende dai personaggi e dalle loro scelte (che poi sono le tue…). Intrigante l’idea di un futuro dove si può vivere con la rigenerazione corporea ma occorre il farmaco “Dimenticare” per non impazzire del tutto. Bello il pezzo dove rendi dignitosa la morte del padre. Ci sono ampi spazi per approfondire questo mondo futuro e verosimile. Brava Marina.
Grazie Roberto,
hai colto dei passaggi chiave del testo, il tuo apprezzamento mi fa davvero piacere!
Anche il mio è un racconto di fantascienza, anche se parla di un mondo completamente diverso dal tuo. Mi piacerebbe sapere che ne pensi, si intitola “Il Feliciante”.
Atmosfera intensa e coinvolgente…bello!
Bene Marina. Hai affrontato un tema molto difficile in modo chiaro e personale. Anna Maria D’Ambrosio
Grazie Anna Maria …l’eterno dilemma tra il desiderio di vita e la finitezza biologica è qualcosa con cui l’uomo dovrà sempre fare i conti !