Racconti nella Rete 2010 “Tanti, tantissimi, infiniti venerdì” di Aurora di Maggio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Tanti, tantissimi, infiniti venerdì – Confessione d’una bugiarda virtuale in brevi atti.
Ho serrato quella finestra, per l’ultima volta.
Ironia della semantica, pensavo: finestre.
C’era un tempo in cui le bizzarrie della mia famiglia erano il capro espiatorio della mia infelicità, e quelle della tua – ricorderai – un vero e proprio canto di paradiso: “L’erba del vicino è sempre più verde”. (Specie se un prato all’inglese ce l’ha davvero, il vicino; e, in tal caso, poco importa che non sia proprio il tuo dirimpettaio, e che per le incursioni nella sua orbita tu debba percorrere a piedi tutto il quartiere).
Non era certo per trascorrere il mio tempo con te che quei tanti, tantissimi, infiniti venerdì, potevi vedermi dalla tua finestra voltare le spalle al giardino e tornare sulla mia strada, dopo intere giornate in casa tua.
Il mio eterno alter ego, tua sorella, e il mio primo amore… Gli occhi cerulei del tuo papà.
Non mi lascerei dire da nessuno che sono stata una fanciulla pericolosa, visto che con nessuno mi sono mai spinta, per tutti gli anni di quella “fantasiosa acerbità”, oltre l’esercizio criptico, goffo, della mia virtù esteriore; linguaggi che non si abbandonano mai, quando pure si schiudono a scoperte e gioie più vere. Tutta la mia gioventù si è fatta caratterizzare da simboli molto più che da esperienze, e tu sei stato indubbiamente tra questi.
Penserai che ti stia scrivendo per trasformare in fiaba triste il riepilogo di un tempo tanto irreale e lontano, che ben conosci: penserai che voglia volgere in lirica pensieri e ricordi assolutamente inutili, oramai. E qui ti sbagli. In realtà… è della realtà che voglio parlarti, e di storie che ti riguardano in senso molto più diretto.
Caro Filippo, sai come ti avrei descritto, se qualcuno mi avesse chiesto di dipingerti con gli occhi di allora? Avrei detto di te che eri il frutto peggio riuscito dell’albero cui era rivolta ogni mia devozione. Potrei cominciare da come solo i miei occhi commentavano la tua presenza: avevi una statura da trampoliere, la sagoma di un traliccio, una gestualità scoordinata e vagamente “femmina”; il nasone,… e neppure gli occhi azzurri di tutta la famiglia. Qualora non fosse bastato, eri ombroso e umorale, e perciò non c’è mai stato verso di incastrarti nelle mie simpatie: sono stata sadicamente felice che il rapporto tra te e tua sorella fosse un tale conflitto.
Ma sopra d’ogni cosa credo di averti inflitto il castigo per una qualche intuizione “lunare”, animalesca, “satanica” verso di te. L’intuizione che tu nutrissi nei miei confronti il richiamo che il soldatino di stagno ha verso la ballerina di carta: quando la vede e pensa che lei come lui abbia una gamba sola, e indovina in questo malinteso l’acme della sua grazia, perché di più gli è simile. In parole povere, tu trovavi in me le fragilità e le mancanze che di me detestavo, e in gran segreto le adoravi. Come avresti potuto godere di cornice peggiore nel mio immaginario?
Ma ricorderai che, due anni più tardi del tuo diploma, fui costretta a chilometri e chilometri di distanza da quella piccola reggia uterina, circondata dal prato inglese.
Quanto mi sorpresi a cambiare, non potresti capirlo. Lontana dalla quiete di quella primavera, inesaurita, in cui ero certa di avere tutto!
Avevo vent’anni quando il solo posto nel quale mi sentivo altrettanto in patria era un posto senza un filo di vento, e senza l’odore dell’erba; un posto affollato di sagome tutte uguali e tutte talmente diverse, nel quale le storie e le anime sono uno sterminato drappeggio di parole. Farei ben prima a chiamarlo “internet”… E anche questo lo sai bene.
Se ne fanno, lì, di cose balorde.
Avevo saputo da alcune nostre comuni conoscenze che gestivi per tuo conto un circoletto digitale. Un sito-web che mi toccò visitare, quantomeno per sogghignarne. Ma devo dirti che, come lo vidi, mi fu sorprendentemente gradito. Subito ci trovavo espressioni del tuo gusto, un’audacia e una maturità che non ti avevo mai riconosciuto. (Facile asserire che formato ectoplasma eri assai più apprezzabile che nelle mie memorie).
Allora una volta ti scrissi un breve messaggio privato: plauso al discorsetto politico che facevi, super commentato, in un articolo a ridosso delle elezioni. Naturalmente, evitai di concludere: “Comunque ciao! Io sono Sara!”.
Questo, il principio della perdizione.
Puntualissimo: un trabocco di stile senza i prevedibili virtuosismi… Eri pressoché perfetto, ma mantenevi sempre una misura di distanza.
Il che, ad ogni modo, non ti salvò dal cascarci fino alla cima dei capelli.
Scintille distribuite tra le email per me e lo spazio pubblico online. Sai, per quanto sia curioso appurare come tante volte un semplice diario virtuale possa accendere i riflettori su chi lo ricolma – dedito e appassionato –, nel tuo caso c’era qualcosa in più: perché il popolo di internet parlava tanto di te, si riferiva alla tua sagacia, alla tua esperienza. E sembravano frotte. Titolo dell’episodio: “Una stella nel web”. Allora non avevo idea che ce ne fossero tali e tante.
Ma come posso spiegarti, come mi venne la smania di intrufolarmi a forza di espedienti virtuali, nella tua vita? Abbassare al ridicolo (o almeno provarci strenuamente) la tua intelligenza. E così a lungo!
Io credo che “Carolina” ti fosse andata a genio grazie a tre, quattro mosse strategiche. Studiava ingegneria chimica, ma aveva sempre avuto una vera vocazione per la poesia. Poi la tua musica, qualche boccone di cinema d’èlite per arrotondare, e naturalmente Joyce. E… le debite, caute, differenze che ci dessero brodo di cui discutere un po’: che ci dessero verosimiglianza, almeno un po’.
La tentazione di dirti che passavo di provino in provino come speaker radiofonica era forte. Era il mio unico vero interesse di allora. La tentazione di dirti che eravamo orfani entrambi, pure. Invece no: lì diventavo Carolina dai quattro fratelli, e Carolina dalle notti brave.
Mentre tu eri tu: non mi trascrivesti informazione che non fosse… di una sincerità conclamata e nuda; o almeno così avevo ragione di credere. Mi accordavi abbastanza materia grigia da lasciar “sbrilluccicare” senza remore la tua, e, via via, ti lasciavi andare anche a qualche conato fuori controllo. Che bisogno c’è di ricordartelo?
Una corrispondenza piena d’empatia, ma che quasi mai lasciava intuire, e tantomeno sperare, che di “lei” tu avessi bisogno.
Mi scrivevi il mercoledì, qualche volta nei pomeriggi di domenica; qualche volta, nelle notti infrasettimanali. Fin troppo fedeli al cliché i nostri scambi d’opinione sulle cose del mondo, finché non riuscivo a strapparti quell’agognato stralcio di confidenza. Battaglia personale dove non c’è da indovinare nulla di cui non debba vergognarmi molto (molto!) peggio di una ladra.
È troppo chiaro che il gioco mi prese la mano. La solitudine, la curiosità, le sabbie mobili in cui affondano i piedi di persone come quella che ero. Dannato network e dannata stura alla mia follia, o alla mia mediocrità.
Perché, se fosse stata una sceneggiatura, potremmo ben dire che sarebbe stata una pena. Ma cosa c’è di più reale… di un flusso telematico di parole? Te lo dico io cosa: poco o nulla; e se ciò ti desse mai la nausea, sarebbe comprensibile… ma più ci penso più, qualche volta, ne sono convinta.
Ovviamente ti starai chiedendo come risolsi il problema delle fotografie. Presto detto: era la mia amica Shirley, quella ragazza; un’irlandese a spasso con l’Erasmus, al mio Dams. E tu dicesti che assomigliavo a Kate Hudson. Ti confesso che era solo fotogenia. Niente di simile alle tue foto, che erano limpide e palpabili: un riflesso trasparente del tuo essere. E il tuo sorriso, una larga falce di zucchero.
Fino a che non ci raccontammo del passato, alleluia.
E allora non fu importante quel fiume debordante di informazioni note e ignote che mi concedesti, quanto, beh… il ricordo di quella ragazza svitata, di cui non osasti mai dire che era stata il tuo primo amore, e che spariva piccola e nera come una chiocciolina, nel vuoto. Nella tramontana fuori dal giardino, tutti i venerdì.
Quello fu il mio tremore, la conquista cui non sapevo di voler arrivare fino a che non ci fossi arrivata. La sublimità e la conferma storica. Il segreto di un libro prezioso, prima che vi incombessero un presente e un futuro in cui non c’era traccia di me. Già, un presente e un futuro che sembravano – sembravano – assai più popolati e interessanti.
Ah, Amico mio… (quanto mi servirebbe uno smile) Finestre evanescenti da cui si affacciano masse eteree; maschere disincarnate che filtrano la solitudine. Motivi a colori profondamente vuoti, e riquadri scorrevoli che divengono la geometria di un’intimità nuova e irripetibile: almeno fino a che fuori non abbia smesso di piovere… o non sia sopraggiunto il miraggio di un’amicizia a portata di braccia.
Pioggia… Una sinfonia di polpastrelli che ti fa sentire a casa, nella calda gola dell’amore facile. Il network è questo, senz’altro, ma anche un prodigioso cannocchiale nello spazio celeste di gente come te.
È passato molto tempo dai venerdì infiniti. La piccola vezzosa Elettra invaghita di tuo padre mi ha abbandonato: i vedovi dagli occhi cerulei non fanno più al caso mio. E tua sorella non la sento da una vita.
Sono tornata, sono tornata dov’ero. Ti vedo volare sulla metropolitana al mattino quando migri verso il tuo istituto di ricerca. Di tanto in tanto, mi rivolgi un sorriso distratto, e non sento la tua voce dal mattino di quel caffè ultrarapido nel quale, puoi credermi, avrei invece voluto fare tuffi e capriole acquatiche.
Ma coi miei occhi, tizzoni di carboncino, quante volte vorrei scavare i tuoi, pungenti e illuminati, di smeraldo…
E poi c’è lei.
Tutto questo tu non lo sai, e forse non lo saprai mai. Ché, se solo avessi una speranza su centomila, di averti per me, certo non la getterei così nel turbine dei tuoi rancori, più o meno “digitabili”. Io lo conosco, il tuo pudore, e non ho ancora del tutto smarrito il mio.
Ma presto o tardi avrai cenni di me… che mi costringo a perdonarmi per inventarmi una prospettiva: non riesco a non immaginarti addentro al mio futuro, sia pure a titolo di un affetto senza straordinarie licenze o pretese. Mi vergogno – ripeto – ma sono conscia di aver trovato con la strada sbagliata quel che non avrei mai visto a occhio nudo, e che senza il morbo impenitente di una vita così banale non sarebbe mai apparso in tutta la sua immensa, infinita e reale… meraviglia.
Con tutto il cuore grazie, e a molto presto.
Sara.