Premio Racconti nella Rete 2015 “Caliga” di Alessandro Angeli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015“Il destino non si capisce mai
per questo mi son fatto Destino degli altri …”
Albert Camus
Caligola
Roma, 18 marzo 37
Eccola l’ancella, la mia preferita, le membra sottili, la zazzera bionda, di paglia, e il viso piccolo, intagliato nell’oro. Eccola che si avvicina, lei sa di essere la prescelta. Potrei amare ogni donna del pianeta se solo volessi, ma io scelgo te Desirè e in questo silenzio che ci lega è racchiusa la chiave del nostro insondabile mistero. Io sono l’uomo più potente della terra, incorono e uccido re con lo stesso impegno con cui la mattina scelgo i lacci per questi miei calzari, come ho esiliato Mitridate, così ho ucciso Tolomeo, re della Mauritania, distruggendo il suo regno sconfinato e riducendolo a una misera provincia. Io posso l’impossibile a un solo schioccar delle mie dita, eppure mi sciolgo come bava di lumaca di fronte a queste gambe, alla vertigine di questa tua altezza. Io davanti a te Desirè torno a essere il bambino Caliga, perso nella brezza apollinea delle praterie d’oriente. Tu doni le pupille ai miei pensieri di pietra, vuoti come gli occhi di marmo dei miei mezzobusti.
“Desirè?”
“Maestà?”
“Io ti adoro. Vieni qui Desirè, vieni”.
“Eccomi Cesare. Vuole togliermele lei queste vesti, o vuole che lo faccia io?”.
“Aspetta, avvicinati, quanto sei alta … con questi trampoli che porti sarai più di due metri, aspetta che faccio io … ecco … lasciati baciare”.
“Piano Maestà, qualcuno potrebbe vederci …”.
“Che ti salta in mente! Anche se qualcuno ci vedesse non oserebbe mai ammetterlo davanti a me, se gli preme di vivere, e poi non osare contraddirmi, nessuno può farlo, nemmeno tu che sei la mia prediletta, dovresti saperlo”.
“Chiedo perdono Maestà, ma è solo il timore di vostra moglie Milonia che mi fa parlare in modo così impudente … un’ultima cosa Maestà, voi conoscete la mia condizione, vostra moglie mi ha fatto bandire da ogni salotto, ormai i ricchi patrizi che m’invitavano ai loro banchetti mi trattano come un’appestata e io Maestà, non ho più di che vivere …”.
“Finiscila di lamentarti donna, tu hai il corpo di una dea, ma sei astuta come una faina, so bene che non dici il vero e non m’incanti con le tue chiacchiere, ma quando avrò finito ti ricoprirò ugualmente d’oro, come ho sempre fatto con chi mi è stato fedele e ora basta cianciare, inchinati …”.
“Sì Maestà, sì, come desiderate …”.
Che noia mi prende dopo l’amore, che prostrante e intangibile noia e insieme che smania, un senso nauseabondo d’irrisolto, con quella puttana di mia moglie dietro le tende a origliare, a compiacersi anche lei della mia infedeltà. Ma sì, in fondo anche se Desirè prendesse il suo posto soffrirei lo stesso questo tedio, questa spaventosa continuità che ci minaccia, che minaccia la purezza del mio essere. Possibile che il tempo non voglia fermarsi MAI, possibile che io, il più illuminato dei cesari, non ne sia capace?
“Rutilio???”
“Sì Maestà, avete chiamato?”
“Sì Rutilio, brutto mentecatto ti ho chiamato, lo hanno sentito perfino in Tracia che ti ho chiamato, ebbene, portami la testa di quella troia!”
“Come dite Maestà?”
“Hai capito bene Rutilio, voglio la testa di Desirè, la battona che poc’anzi ha giaciuto con me, voglio apporla sullo scranno più alto del mio bordello, voglio farne un blasone, che tutti i sifilitici possano vederlo, voglio far impallidire Eros … e adesso vattene e non farmi più domande, se non vuoi finire a farle compagnia … corri Rutilio, avvisa le guardie”.
Mai volto sradicato dall’incavo del corpo fu più adatto a condurre tutti i lussuriosi di Roma nel viatico del mio postribolo, per aprire il passaggio degli inferi e della redenzione, perché il piacere annega l’anima virtuosa. La virtù è inutile e ottusa per definizione e chi la persegue è un mentitore abietto, un bruto che usa il suo cervello come un’arma. Che belle queste palpebre ripiegata Desirè, com’è sensuale la tua resa, una splendida giraffa cacciata ed estorta alle Afriche, un’animalità doma è ciò che restituisci al tuo padrone, non è vero? Proprio quello che volevo. Adesso la tua testa verrà impagliata e adorata, diverrà celebre al pari di quella di Minerva, Desirè cara … io uccidendoti ti dono l’immortalità … e tu nelle tue condizioni dovresti ringraziarmi, che ne avresti fatto della tua vita meschina altrimenti, ma perché non dici niente. Perché non mi parli?
Com’è bella Roma a quest’ora della notte e come è feroce! La luna oltre le finestre si è tinta di rosso come un’arancia squarciata, apposta per me, mentre io me ne sto qui con le mani in mano. Basta stare in questa reggia, basta morire di noia, devo raggiungerla e suggerne la linfa, la luna di Roma stanotte deve essere il mio copricapo. A quest’ora le sue strade deragliano verso un’orribile insensatezza, perfino questo sciame di lucciole orfane, buttate a casaccio nel buio sembrano una beffa, meglio l’infittire del buio allora. Così pensando, attraverso a passo svelto le luci sornione del lungotevere che guardano ammutolite questo loro imperatore mascherato inoltrarsi nel buio. Ho indossato una maschera da coniglio, le lunghe orecchie drizzate e i denti sporgenti che sogghignano in una smorfia sanguinolenta, alle caviglie ho messo un campanello per ricordarmi a ogni passo di più che sono un assassino e un poeta, un assassino che offre le sue vittime all’incomprensibile poesia dell’universo. Dentro queste bettole dalla luce epatica ancora si attarda qualcuno, non hanno prescia di lavorare questi lestofanti, non gli preme di servire l’impero, aspettano la gallina dalle uova d’oro davanti all’ennesima brocca di vino. Se solo volessi, farei mescere all’oste del sangue di pecora e gli obbligherei a berlo come adesso bevono il vino. Mi avvicino ai vetri polverosi e li spio, li osservo con l’occhio maligno e lungimirante di un Dio, mentre loro si affrettano ad accostare l’un l’altro i calici, ma non possono vedermi e tanto meglio per loro, perché non gli farebbe certo un grande effetto vedersi scrutare da un coniglio. Sono sicuro che se togliessi questa maschera e mi mostrassi per come sono, la sorpresa e il terrore sarebbero cento volte più grandi. Nell’angolo della stamberga, discosta dal resto dei trucidi commensali, c’è una famiglia che si parla a fatica, stanno tutti e tre stretti al tavolino e guardandosi sembrano farsi coraggio. I due genitori osservano il figlio che sembra il più deciso e tiene banco, è una giovane recluta, un legionario in licenza. Che altro lavoro avrebbe potuto trovare un poveretto come lui. Gli occhi cerchiati della donna sono appesantiti dalla miseria e il suo silenzio, lo vedo da qui, è racchiuso in un solo fremito di paura. Che pena provo per loro solo a guardarli, una pena sorda che mi provoca dolore, un dolore irrimediabile, a cui non trovo soluzione, se penso che il loro futuro dipende esclusivamente da me. In che mani si sono trovati, forse sarebbe meglio se li uccidessi tutti e tre adesso, così la smetterebbero di soffrire o peggio ancora di farsi illusioni. L’amore è una grande menzogna, a tutti i livelli lo è. È la vita che ci uccide, ci ucciderà tutti prima o poi, anche me. Perché un Dio deve morire? Un Dio se veramente è tale non può vivere, non può arrestarsi in questa amarezza, galleggiare in questo veleno periglioso misto di astio e livore, un Dio dev’essere altro. Vita e morte sono la stessa cosa, stesse grandezze di un progetto folle, solo i non nati possono vivere nel succo amniotico degli astri, solo i non vissuti possono essere Dio. Mentre sto così ragionando mi allontano dalla bettola pietosa e camminando sulla breccia delle capanne, poco prima della porta gianicolense, una vecchia indovina cieca mi viene incontro. È sdentata come un pesce e ha l’ardire di rivolgermi la parola: “Signor patrizio, permettete che vi legga la mano?” Sbava senza creanza, ma io non le resisto e volto il dorso della mia mano. Lei, attraversando col dito ricurvo i solchi impressi sulla pelle, rabbrividisce, poi mi parla come rivolgendosi alla notte: “Il sangue che hai versato è un torrente che corromperà le tue vene …”. Dice e dopo aver pronunciato le sue ultime parole ha un sussulto così grande che per poco non sviene. Prendendola per un braccio ossuto la spingo lungo la via. “Hai visto troppo vecchia indovina!”, le urlo, lei scivola a terra e tolto lo stiletto dalla cintura, prima che possa rialzarsi, con un balzo le trapasso il cuore. Un attimo prima che se ne andasse, ne sono sicuro, ho visto sul suo viso il lucore timido di un sorriso.
La verità é che con le mie minacce non faccio più paura a nessuno, se non ai becchini, che per colpa mia devono lavorare anche di domenica. Ormai la gente ha più paura della vita che della morte, nella morte trovano ristoro, nella vita invece non sanno più quale tortura aspettarsi. Ho trasformato il più grande impero mai esistito su questo pianeta in un’ecatombe. Il giorno appena trascorso non sembrava un giorno, così come la notte non sembra notte, le nuvole intasano l’occhio nudo del cielo e non c’è nemmeno una stella su Roma. Roma, questa immensa barca ferma. Quando confondi la tua vita con gli uomini il tempo smette di appartenerti, vivere allora diventa il lusso peggiore. I sogni degli uomini son fatti di una materia viscosa che ti si appiccica addosso e per togliertela non basta raschiare, sono più contagiosi e funesti, questi loro gingilli, dei malanni assiri. Il Puer aeternus cos’è infine questa leggenda silenziosa che circola tra gli stolti e i poeti, che sia la via? Elevare l’animo bambino nel buio del mondo, nel suo più completo e terso silenzio, senza sforzare un solo nervo, un solo muscolo … aspettare che il volo ti colga e nel volo tornare finalmente ad amare.
Come è solo il lupo nella notte, quando nei suoi occhi si riattizza la brace delle spelonche, come è ingrato il suo destino, egli su tutto sa di essere lupo e null’altro. Così mi sento io, adesso che senza accorgermene ho strappato dal mio cuore ogni purezza, per ricordarmi la mia appartenenza, per riappropriarmi del mio vessillo, per riaccostarmi al branco che mi ha concepito, al quale appartengo. Questo branco di lupi affamati e mai sazi che fingono di guardare gli Dei e invece non hanno altro interesse che la loro vanagloria. Ebbene io che ignoravo chi fossi, che mi credevo baciato da Apollo, ho scoperto come tutti gli altri di essere lupo e nulla più. Per un po’ ho tentato di ribellarmi a questa evidenza, mi raccontavo che se avevo mandato a morte qualcuno lo avevo fatto solo per il bene di Roma, ma a udire queste parole, il mio stomaco si rivoltava e dalle viscere giungeva un sogghigno. Nella notte il fantasma di Gemello viene a solleticarmi i piedi, lo vedo all’angolo del mio letto, sta lì, immoto, il volto femmineo, negli occhi c’è impressa tutta la caparbia austerità della morte. Egli non era in grado di nuocere affatto, non ebbe nemmeno il tempo di farsi uomo e col suo aspetto di ragazzo tradito mi appare ogni notte. Sta lì al mio capezzale e attraverso quegli occhi sgranati, eppure docili, mi propugna la terribile domanda: Perché? Qual è la risposta? E se anche ce ne fosse una, che grazia potrei ricavarne a parlare con un fantasma? Egli è stato il primo demone a visitarmi, ma non sarà certo l’ultimo, l’Imperatore di Roma è l’Imperatore dell’intera Terra e ha il privilegio di combattere i suoi demoni da sveglio. Ma verrà un giorno che danzerò con la mia schiera di demoni e allora il cielo si scuserà, insieme andremo nelle spirali del tempo e tutto quanto diverrà uno, un unico incandescente flusso, nessuna altra grandezza. Sarà lì che porterò il mio fardello più tetro e dolente, la stessa incosciente e sanguinosa domanda: perché? E quel giorno, insieme a tutti i miei demoni, aspetterò finalmente la risposta.
Avevo commentato questo tuo scritto qualche giorno fa. Stranamente non ce n’è traccia, Forse ho fatto io casino o, forse, l’accostamento che avevo fatto (tesi non mia, tra l’altro) tra la psicopatia e il potere ha generato confusione. Comunque… hai reso benissimo i circuiti deviati della mente allucinata dell’imperatore, la completa assenza di empatia. Ma, sottolineavo, nonostante tutto, anche per lui viene il momento di chiedersi: “perché?”. Qualsiasi percorso facciamo, evidentemente, ci porta sempre alla stessa grossa, e ingombrante, domanda. Bravo!
Carissimo Salvatore, il tuo commento purtroppo era andato perduto perché ho deciso di fornire una seconda versione del racconto pulita da alcuni errori e sviste. Ti ringrazio molto di averne postato un altro, per il gesto oltre che per i contenuti, i quali mi gratificano del tempo che passo a scrivere. Grazie infinite e un abbraccio grande
Mi sorprende molto non leggere altri commenti. Hai un lessico molto ricco e uno stile assolutamente personale. Scelta non facile quella di dar voce a un personaggio controverso come Caligola. Mi hai ricordato molto Poe, anche se qui il contesto è completamente diverso. La follia genera incubi sanguinari… ma anche domande destinate, forse, a rimanere per sempre senza risposta… Complimenti e in bocca al cav… pardon, al lupo per il concorso. Anche se non credo tu ne abbia bisogno. Il tuo racconto è tra le cose migliori che ho letto. Sarei curioso di conoscere la tua opinione sul mio “La Torretta di Guardia” del 27 maggio.
Caro Luigi, ti ringrazio molto per le tue parole e sono contento che il mio testo ti sia piaciuto, appena avrò un po’ di tempo leggerò il tuo e ti farò sapere. Un caro saluto e in bocca al lupo per il concorso.
alessandro