Premio Racconti nella Rete 2015 “Alice” di Francesca Antici
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Alice. La mia bambina. Il suo odore di pelle morbida misto all’olio che uso per idratare il suo corpicino dopo il bagnetto.
La mia bambina ha i miei stessi occhi verdi. A volte mi guarda in maniera tanto seriosa, da far sentire me la bambina. Il papa’ lei non ce l’ha; anzi, ce l’ha un padre biologico, ovviamente. Ma di fatto non c’e’. Ce la siamo cavata da sole, io e lei.
Quando sono rimasta incinta ero talmente felice, innamorata. Persa nel mondo di lui. Quando gli ho dato la notizia, la sua freddezza ha congelato tutti i miei sentimenti. Io non voglio un altro figlio. Non potrei mai essere presente. Mi dispiace. Devi abortire. Paghero’ tutto io. Costo
totale 500 euro.
E cosi’ ho iniziato quel calvario di analisi e certificati che solo chi ha abortito conosce. Il ginecologo, uno privato, con lo studio ai parioli. Il migliore, per risolvere tutto senza traumi, rapidamente. Ero quasi alla fine del terzo mese, bisognava sbrigarsi, altrimenti non sarebbe stato piu’ possibile. Quando sono andata a fare l’ecografia, seduta nella sala d’aspetto, mi sentivo una aliena entrata per sbaglio in un corpo umano.
Una coppia seduta accanto a me. Lei raggiante, lui spaesato. Lei sussulta e si tocca la pancia, a giudicare dalle dimensioni deve essere prossima al parto. Il bambino ha tirato un calcio, lui la guarda teramente e poggia la mano sul pancione, per sentire quell’eslposione di vita. Io cerco di reprimere un sorriso ma non ci riesco. Cosa c’e’ di piu’ bello di un bambino che scalcia dentro la pancia della mamma?
Finalmente tocca a me, entro nella stanzetta, mi stendo docilmente sul lettino e tiro un pochino giu’ i pantaloni. Il gel e’ freddo, ma si scalda subito a contatto con la mia pelle. Improvvisamente un rumore come un cavallo al galoppo: il cuore della mia bimba. La vedo sul monitor, grandezza tre centimetri, un fagiolino. E’ veramente troppo. Piango tutte le lacrime del mondo e gia’ so quanto mi manchera’. Esco dal laboratorio con la mia cartellina in
mano, la prima vera fotografia della mia bambina. Mi bruciano gli occhi, il vento freddo mi colpisce il collo scoperto. Devo riguardarmi. Mi allaccio bene la giacca e annodo la sciarpa.
Entro in un bar, ho bisogno di bere, ho la gola secca. Guardo l’orologio appeso alla parete. Oddio e’ tardissimo. Lui mi aspetta al solito angolo, ha un mazzo di tulipani colorati. Sa che e’ stata dura e spera di tirarmi du’ il morale con i fiori. Mi piacciono i tulipani.
Non gli racconto nulla, ne’ gli mostro la polaroid dell’ecografia. So che non gli interessa. Vuole solo sapere se sto bene e se ho fame. Non ho fame. Non ho sonno. Non sento niente. Solo il battito di quel minuscolo cuore che mi rimbomba nella testa. Quella notte dormiamo insieme senza sfiorarci. Mi sento come se avessi la spina dorsale spezzata e il mio midollo osseo se ne stesse andando a spasso per tutto il corpo, galleggiando insieme agli organi interni. Sento come se mi stessi sciogliendo tutta dentro. Un misto di carne e sangue caldo e appiccicoso
che cola come lava incandescente, inarrestabile, che erutta ad ogni battito del mio cuore.
Ormai ho fatto tutte le analisi, ho tutti i pezzi di carta necessari, ho fissato l’appuntamento in ospedale fra quattro giorni. Non voglio che lui mi accompagni. Andro’ da sola. Mi oppongo con tutta la mia caparbieta’ e lui non osa contraddirmi. A dire il vero, credo che si senta sollevato a non dover venire.
Arriva il giorno dell’operazione. Mi alzo presto e senza dire nulla a nessuno, vado al policlinico. Davanti al reparto IVG incrocio subito lo sguardo disperato di altre donne, la maggior parte straniere, un paio molto giovani, accompagnate dalla mamma.
Guardiamo tutte il pavimento. Non ci si guarda molto in queste circostanze, non ci si parla, ognuna ha le sue ragioni e le ripete a se stessa in modo ossessivo, come un mantra.
Finalmente si entra, ciascuna sceglie il proprio letto e iniziamo a spogliarci e ci cambiamo per l’intervento: una camicia da notte larga e comoda, una vestaglia, ciabatte. L’infermiera e’ dolce e comprensiva, nonostante sia abituata. Ci tratta con energica tenerezza. Dai, non sentirai nulla, l’anestesia e’ forte e veloce, ti addormenti subito e ti risvegli dopo un’ora al massimo, poi ti teniamo un poco in osservazione e quando stai bene, ti dimettiamo, e vai a casa a riposare (e a dimenticare).
E’ il mio turno. Ho paura. Ho freddo. Voglio la mia mamma. Ma non c’e’. Mi accompagnano in sala operatoria e mi fanno sdraiare sul lettino. L’ago entra nel braccio, l’anestesista ha appena studiato le mie analisi, e’ gia’ pronto con la siringa con la dose di anestetico. Chiudo gli occhi. Li riapro di colpo, mi tiro su’ dal tavolo, sembro una invasata. Gli occhi sgranati, l’adrenalina che mi schizza nelle vene. Non urlo, dico semplicemente NO. Non voglio piu’. Scusate il disturbo. Voglio tenerla. Ci ho ripensato. Voglio tornare a casa. Il chirurgo abbassa la ascherina e mi sorride con empatia. Vai a casa e riguardati, non sara’ una passeggiata ma alla fine ne sara’ valsa la pena.
Entro nella camerata, mi rivesto come una furia, prendo tutte le mie cose dall’armadietto ed esco di corsa. Oltre la porta a vetri opachi ci sono le due mamme delle minorenni, mi guardano, capiscono. Non dicono nulla.
Esco dall’ospedale quasi correndo, il cuore mi batte cosi’ forte che sembra voglia uscire dal mio petto. Dentro di me sento anche l’altro cuoricino che mi saluta felice. Piove, non forte, per fortuna. Mi fermo sotto la pioggia e guardo in su’. Mi sento libera, viva. Torno a casa in taxi, un piccolo lusso.
Non e’ stato facile parlare con i miei genitori. Non vivevo piu’ con loro da parecchi anni, praticamente da quando ho iniziato a lavorare ho sempre abitato per conto mio, dividendo l’affitto con altre persone. Ma mia madre e mio padre mi hanno accolta e sono tornata a casa per un po’. La gravidanza e’ andata bene, poche nausee, non sono nemmeno ingrassata
troppo e comunque subito dopo il parto sono tornata in forma velocemente.
Il parto. Che dolore atroce. Nonostante l’anestesia epidurale.
Quando ho visto Alice la prima volta, le ho sorriso e le ho dato il benvenuto. Ora siamo felici. Abitiamo di nuovo da sole, in un monolocale piccolissimo, trovato ad un affitto non troppo indecente.
Lavoro da mattina a sera. Di giorno la bambina sta con i nonni e poi ceniamo sempre insieme e parliamo molto. L’ho sempre fatto con lei, non le ho mai nascosto chi sia suo padre e perche’ non e’ con noi. Mia madre ripete sempre che avrei dovuto dirglielo che non avevo abortito, che magari sarebbe cambiato tutto. Ma ormai che importanza ha?
So che lui ha trovato un’altra compagna, una donna divorziata con due bambini piccoli. Strana la vita. Ipocriti gli uomini.
Alice e’ una bambina severa, ma socievole. Quando incontra altri bambini, non si butta subito nella mischia, li osserva per un po’. Quando poi ha scelto, va dritta verso il suo nuovo compagno di giochi. E non sbaglia mai.
In questo racconto sento tanta delicatezza nel descrivere un evento cosi’ importante e unico nella vita di una donna. E tutto il coraggio che la protagonista ha avuto nel compiere la scelta di proseguire la gravidanza viene fuori con naturalezza….Brava!
Francesca complimenti, una storia vera, purtroppo comune, di sofferenza.
L’aborto una opportunità per alcune donne una tragedia per altre!
Sei stata brava perché con semplicità hai raccontato la devastante esperienza che alcune donne vivono loro malgrado e con semplicità hai raccontato il coraggio di una madre.
Mi piace molto la fine che lascia intravedere il carattere forte e risoluto di Alice.
Visto che hai trattato anche tu una storia al femminile, se ti va leggi i miei due racconti!
Grazie per il tuo semplice ma profondo scritto
Il racconto mi ha attratta subito per il titolo: “Alice” è un nome a me caro.
Mi è piaciuto molto il lato introspettivo di questa donna, questa madre coraggiosa che fino all’ultimo è capace di mettere in gioco sé stessa e le convinzioni che la fanno andare avanti nella vita. Delicato e coraggioso, ma se posso permettermi ho un piccolo appunto: all’inizio il compagno o marito dice ” Io non voglio un altro figlio. Non potrei mai essere presente”. Dato che poi di altri figli non si parla, deduco che sia il frutto di una passata relazione. Questa piccola nota deduttiva, unita a un finale fortemente focalizzato su lei, che taglia completamente qualsiasi confronto con lui e le sue scelte (vivono assieme ma non si parlando per lasciarsi, lui si deduce essere all’oscuro della figlia nata) lasciano il racconto orfano di un pezzo secondo me importante, ossia la scelta di questa donna uscire dal mondo di lui di cui le inizialmente si dichiara persa, per combattere per la vita che cresce in lei e a cui non vuole rinunciare. Ovviamente si tratta solo di una mia impressione personale, in ogni caso complimenti!
Coraggiosa la scelta del tema e sperata fin da subito la svolta di metà racconto. Molto coinvolgente dal punto di vista emotivo, come scrive Francesca sembra abbia una mancanza narrativa sui presupposti dello svolgimento, ma si legge comunque d’un fiato. Mi piacciono le storie di donne e questo è un bell’esempio di una storia quotidiana che troppo spesso non ha voce.
E’ un inno alla vita la bella storia di Alice: una vita che la protagonista non volle cancellare a tutti i costi e decide alla fine di farla crescere accanto a lei, per tutta la vita. Brava Francesca una bella lezione di vita!
Racconto difficile per l’argomento trattato, pieno di tensione e dolcezza che colpiscono il lettore, portandolo fino in fondo senza difficoltà. Non sappiamo molto della vita della protagonista, ma quello che viene raccontato basta per farne una bella storia.