Premio Racconti nella Rete 2015 “L’insopportabile zia” di Michele Emidi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015– Ma che cavolo hai fatto Gianni??!!e perchè??!!- gli imprecò lo zio, gli occhi infiammati di sangue e rabbia, la camicia rosa aperta nel torso peloso ed intriso di calce biancastra, mentre lo strattonava violentemente.
– Non la sopportavo più!- rispose lui, asciutto ed aspro, mentre qualche lacrima acre gli scivolava dagli occhiali e gli rigava il pizzetto. La risposta secca del nipote rimase per qualche secondo sospesa in aria e poi piombò sul pavimento del capannone come un enorme macigno provocando un tonfo assordante.
Il padre di Gianni, che stava in angolo del cantiere dietro l’ombra di se stesso, e la madre, che ripensava a quel ragazzino con le lentiggini e il dente mancante come nel ritratto arcaico attaccato all’armadio, facevano ora i conti con l’ineluttabile; gli altri, la maggior parte parenti trattandosi di un cantiere edile a conduzione famigliare, ed un paio di dipendenti e di vicini curiosi, stavano tutt’attorno al corpo esanime della zia, azzimata e riversa nella poltrona, il viso color latte e la cornetta del telefono ancora nella mano, mentre la oramai orfana stampante laser sfornava fogli contabili che, pieno il vassoio, cadevano a terra e cadenzavano meticolosamente i secondi, dando a quella assurda situazione un minimo di tangibilità.
– Non la sopportavi più??? non la sopportava più….!!!oddio oddio mi sento male – esclamò di nuovo lo zio, quasi ironico ma ancora incredulo, con una mano nella fronte e con l’altra a cercare una sedia sulla quale sprofondare.
Mezz’ora prima, proprio all’inizio del turno pomeridiano di quel Lunedì di metà Gennaio, Gianni aveva maturato l’estrema decisione covata da molto tempo, nell’ultimo periodo rafforzata dai suoi recenti stati di stress, primo su tutti il Natale, e poi, tra gli altri, l’incidente con la moto e la lunga relativa convalescenza, la separazione definitiva dalla fidanzata Francesca, l’inevitabile rientro a quel lavoro che lo straziava, e forse anche il troppo alcool degli ultimi decenni, oltre i problemi ordinari che avevano tutti. Quindi, prima di uscire dal suo monolocale distante solo pochi metri dal cantiere dove lavorava, aveva meccanicamente caricato ben due pistole nelle rispettive larghe tasche della silhouette color beige legata a metà; perchè due pistole non era consentito sapere nemmeno a lui, forse per la sua consueta megalomania o forse, spiegazione più plausibile, per essere sicuro di portare a compimento quell’atto: “Chissà se la sola ed unica pistola non avesse funzionato proprio sul più bello come avrebbe sopportato ulteriormente la zia in futuro…!!” aveva pensato sghignazzante.
Quindi, indossatosi anche un improbabile berretto rosso in testa e gli occhiali da vista dalla montatura anch’essa di amaranto, era partito in alta uniforme quasi da personaggio di “A team”, deciso e volitivo forse per la prima volta in vita sua verso quel luogo di lavoro tanto detestato da anni. I soliti saluti convenevoli di circostanza a due cugini incontrati e poi in direzione degli uffici di cantiere, con gesti sistematici e meccanici forse programmati da giorni, nemmeno fosse stato Rick Santoro nel piano sequenza iniziale di “Omicidio in diretta” di Brian de Palma. Poi, aperta la porta a vetro del piccolo ufficio dove lavorava l’insopportabile donna le aveva sparato un colpo secco alla fronte, così, senza nemmeno darle il tempo di guardarlo in faccia, un po’ per pudore ma soprattutto per paura.
Sfiduciato e fifone se ne stava ora come un gatto inchiodato sopra uno sgabello e svogliatamente in attesa, a fissare la punta delle sue Adidas rosse mentre lo zio, sempre più forsennato, ripeteva come un feroce mantra le parole esaurienti “non la sopportava più non la sopportava più!!”.
Nel solito istante entrarono tre carabinieri, trafelati, avvisati poco prima da qualcuno della famiglia, ed il più anziano, con aria altera e leggermente incazzato per l’incombenza insolita, esclamò – Vorrà dire che sopporterà meglio almeno trent’anni di carcere che gli daranno-, – guarda che casino hai combinato- , rivolgendoglisi poi quasi paternamente; gli altri due, più giovani, uno magro ed alto con dei lunghi basettoni e l’altro un po’ più basso e tarchiato, si precipitarono a togliere la pistola ciondolante ancora nella mano sinistra di Gianni. I due carabinieri sbloccarono poi Gianni dallo sgabello e sotto gli ordini del superiore lo accompagnarono alla auto di ordinanza appena fuori dal cancello di ingresso, senza nemmeno ammanettarlo e perseguirlo ulteriormente, “Tanto questo è un coglione” aveva enfatizzato poco prima il milite capo, non rivolgendoglisi più come ad un figlio. E meno male, qualche mese prima, poco prima dell’incidente, si era tagliato i lunghi dread, “gli avrebbero dato sicuramente del tossicodipendente o del comunista”, pensava snobisticamente Gianni.
L’autovettura partì, davanti agli occhi increduli della madre del ragazzino lentigginoso e lo sgomento degli altri, che ormai erano diventati una folla sempre più numerosa, nemmeno fosse stata la presa e l’assedio finale del Palazzo d’Inverno nella Rivoluzione d’ Ottobre del Febbraio 1917 a Pietroburgo; l’auto naturalmente seguì il tragitto più complicato e lungo per dirigersi al carcere cittadino, tracciò le strade interne di quella zona artigianale limitrofa e periferica al paese. Passarono davanti alla casa di Cristian, il migliore amico di infanzia di Gianni, e davanti alla baracca in alluminio dove una decina di anni prima suonavano tutti insieme, lui cantava, o almeno ci provava, quella musica pseudo alternativa, per descriverla con un termine riduttivo che avrebbe forse inalberato gli altri componenti del gruppo, ma soprattutto assordante e insensata che per il frastuono che procurava di sicuro faceva tanto arrabbiare la zia. Lo sbirro basettone stava accanto a lui, nemmeno entrava nel sedile posteriore, l’altro guidava l’autovettura e il capo al posto del passeggero. Intanto nel monolocale il suo telefono cellulare squillava invano, era Francesca, i due non si sarebbero più rivisti e sentiti, lei sarebbe ritornata a Milano al suo destino e lui al suo.
Rifletteva appagato Gianni “troverò sicuramente la pace, in carcere leggerò tutti i giorni, mangerò e berrò, dormirò quanto mi andrà, guarderò la televisione….forse troverò la pace….” e poi rovistando nei ricordi di tutti i libri letti che la vita gli aveva concesso gli venne in mente una frase letta poco tempo prima “Tutti siamo chiusi in una prigione. La mia me la sono costruita da solo, ma non per questo è più facile uscirne.”
Poi il tarchiato svoltò verso l’altra corsia per un sorpasso non azzardato, il grosso camion di fronte era infatti lontano almeno un chilometro, ma la grossa cabina era davanti spezzata da un disegno rappresentativo che Gianni non potè non notare, e con un grande sobbalzo gli tornarono alla mente ricordi, immagini, sensazioni, delusioni, indolenze, in ordine sconclusionato: il drago…il drago…il fucile, la “Pappa”, la “Diavola”, la zia, i cani a Pistoia, “pollo e patate”, Wrat 69, il Marasma, “sciagura”, il drago, “Pistacchietto”, 1888, la vespa viola, l’Alfa 33 grigia, l’Hondina blu, le Timberland, lo scooter, la zia, la Spagna, Marsiglia, Santa Liberata, il drago, Modena 2000, la polizia alla stazione, il cinese in carcere, la zia, i Karasciò, il microfono, il matrimonio, il megafono, Milano, le stampelle, la tromba, i guantoni, la zia…la zia…- Vergogna vergogna !!!- ed in un millesimo di secondo estrasse la pistola ancora nella tasca destra. E sparò! Un colpo, secco, più di quello del primo pomeriggio, alla tempia dello sbirro pilota, dalla quale schizzò sangue che si scaraventò sul finestrino anteriore formando uno schizzo caotico come in un quadro di Williem De Kooning. Gli altri due, prima immersi nei loro telefoni virtuali, non fecero nemmeno in tempo ad accorgersi di quello che era appena accaduto, che il grosso drago se li divorò.
E così la pace, proprio come Jonny Free vittima innocente della guerra, eroe creato da Gianni in uno dei suoi testi deliranti, scritti, cantati ed osannati in quei sabati pomeriggio passati tutti insieme a suonare, fumare, ridere, bere, ma soprattutto divertirsi, giorni che, spazzati via dal vento dell’impermanenza, non sarebbero mai più tornati.