Premio Racconti nella Rete 2015 “1:00 AM” di Marco Fraolini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015E’ l’unica cosa che – si dice – sappia fare. Il vecchio uomo fissa la strada dalla cima della sua personalissima collina, la salita ripida del garage in cui lavora. Turno di notte, come ormai sempre più spesso gli tocca. D’altro canto se vuole conservare il lavoro deve dire di si e lui, pensione minima, sempre pagato in nero, è abituato a testa china a dire si. Fuma stanco una sigaretta, sempre la stessa Super con filtro, l’odore insopportabile ha intriso la tuta blu macchiata di grasso, e guarda la grande strada su cui il garage si affaccia, l’una di notte del 20 agosto del 1993, strada vuota e gatti che inseguono i topi, l’enorme albergo del palazzo attiguo che illumina tutto a giorno con le luci della hall e l’enorme palo che sorregge la bandiera italiana anch’esso illuminato da piccoli faretti.
Roma è deserta, i rumori arrivano lontani da Trastevere dove i turisti invadono le strade, ma al confine del quartiere prati tutto è silenzioso, zona residenziale di vecchi ricchi che o sono in vacanza o che alle 9.00 di sera si spengono davanti al televisore.
Il vecchio resta lì, a guardia della linea di confine del suo regno notturno, protettore illusorio delle poche macchine ferme dall’inizio di Luglio, quando la grande transumanza ha portato in tanti a spostarsi verso i lidi estivi. Pensa alla sua vita, a quel poco che ha ottenuto, ai rammarichi, inevitabili, di chi si sente di avere poco tra le mani, lui uomo solo, senza famiglia, con una pensione ridicola e un lavoro che gli pesa sempre di più sulle spalle. Dicono che i vecchi dormano poco, eppure a lui quelle nottate sveglio pesano come macigni, le ginocchia faticano a sorreggerlo e gli occhi non ce la fanno a stare aperti.
Il “principale”, come lui lo chiama, è un uomo ignorante e rozzo. Viene dall’Abruzzo dove è riuscito in qualche modo a mettere abbastanza denaro da parte vendendo due case di proprietà della famiglia di agricoltori. Arrivato a Roma aveva le idee chiare e alla prima opportunità ha investito quel denaro che per lui era sacro in questo e in un altro locale. Sono i suoi soldi, la sua vita, e li difende con il pugno duro, con le bestemmie, li gestisce come gestiva gli animali, “le bestie” che aveva quando era ancora un contadino. Minaccia i “negri” che di giorno lavorano per lui e ha poca pazienza anche per il vecchio. “Ti stai rincoglionendo” lo apostrofa spesso, ammiccando a quando sarà troppo senile per continuare a lavorare per lui e dovrà iniziare a vivere con il milione di lire al mese di pensione. Il vecchio suda freddo e cerca di recuperare, di far vedere che ancora c’è, è vivo e vegeto e conscio di quello che gli accade intorno. E accetta il turno di notte e alle volte – se serve – anche il doppio turno, prima il giorno e poi la notte. In quelle occasioni si addormenta più spesso e si sveglia di soprassalto pensando di essere ancora ragazzo e trovarsi nella casa dove era sfollato quando il suo paese era stato distrutto, sotto le bombe degli americani. La confusione in genere dura un attimo, è ragazzo per poco e poi torna ad essere il vecchio, con il sapore in bocca dell’occasione persa, un sapore che non saprebbe descrivere, del pane fatto con chissà quali ingredienti che non sapeva di pane ma si mangiava lo stesso in tempo di guerra anche se aveva un colorito verde, e la carne che anche se cadeva a terra era buona lo stesso. E quando riguadagna lucidità torna ad osservare il mondo di fuori dalla cima della sua collina, gli occhi che si rifiutano di stillare lacrime che invece eccome se ci sono, perché per dio, se non ha lacrime un vecchio che non ha fatto quasi nulla della sua vita, chi ne dovrebbe avere?
Stanotte anche rimugina su quello che è stato, ricorda i brutti tempi andati che inevitabilmente dietro la cortina del tempo sembrano più belli di quello che realmente sono stati. Si accanisce sui passaggi più ostici, quelli in cui avrebbe potuto scegliere qualcosa e invece non l’ha fatto, non ha avuto il coraggio sufficiente oppure semplicemente ha ritenuto più comodo non decidere. Si consola trovando stupide giustificazioni, la malattia della madre, la morte delle sorelle, e alla fine giunge a una sorta di tregua con se stesso, pensando a una birra fredda da prendere al bar di fronte prima che chiuda. Scende a recuperare il borsello ma quando sta per cominciare nuovamente la salita, impegnativa e ripida, un suono, un canto si alza dalle strade vuote.
Li ha già visti in passato, più che altro in inverno. Saranno una decina, in genere vestiti tutti uguali o quasi. Cantano canzoni che sono a lui care e per quello all’inizio ha avuto un moto istantaneo di simpatia per quel gruppo di ragazzi. Era orgoglioso da giovane di essere un “Figlio della Lupa”, di indossare l’uniforme e sentirsi parte di qualcosa di grande e bello. Era orgoglioso del Fez di lana e cantava di buon grado tanto “faccetta nera” quanto “l’inno” e sentirle reinterpretate al giorno d’oggi gli scalda il cuore e riporta alla mente il periodo sicuramente più bello della sua vita. Fosse stato più disinibito le prime volte li avrebbe salutati col braccio alzato. Poi però ha visto anche quello che fanno. Non è questo il suo Fascismo, l’orgoglio profondo che provava per la sua patria. Odia il negro che c’è di giorno e che gli ruba il lavoro, non alzerebbe mai le mani su un altro italiano. E non lo dice, ma probabilmente neanche contro un immigrato. Alla fine è così, il vecchio, codardo e fin troppo italiano, quell’italiano mediocre alla Alberto Sordi.
Li vede camminare e cantare a squarciagola, a petto nudo, al centro della strada. macchine non ne passano e forse è meglio così. Spera finiscano presto e intanto abbassa la saracinesca elettrica. Si chiude nel suo fortino, dove sa neanche loro potranno entrare. Una volta finito potrà tornare a respirare. Quando la lastra di ondulati è quasi del tutto a terra il canto si interrompe. Grida concitate, rumori poi urla, dolore. Le grida si ripetono, il branco ha attaccato e adesso c’è una preda esangue. La voce è giovane, più d’una, piangono. Non si sentono altri rumori. Un urlo basso, il ruggito del capobranco e giù botte. Al vecchio batte il cuore all’impazzata, non riesce a muoversi, paralizzato dalla paura. Spera che tutto finisca presto, che qualcuno chiami la polizia. L’albergo, il grande albergo illuminato, lì sicuramente qualcuno starà chiamando il 113. Ecco, tra poco si sentiranno le sirene ed il pianto smetterà così come le urla.
Ma nulla di tutto ciò accade. Il pianto continua così come le minacce, le risate e le botte. Il vecchio cerca di darsi coraggio, inizia lui stesso a cantare l’inno dei Figli della Lupa, le parole che ricorda.
“La divisa che portiamo
sempre sarà la nostra fede
Mussolini ce la diede
noi le faremo sempre onor”
Stringe i pugni e si convince che la polizia sta arrivando.
E alza la saracinesca.
Un uomo sui cinquanta anni è a terra, sangue sul volto, e un ragazzo, vent’anni e sovrappeso, il volto tumefatto, gli è accanto e piange rumorosamente, sui pantaloni macchie scure di urina. Gli aggressori hanno facce comuni e nessun tratto distintivo. Il capobranco è quello più avanti di tutti, petto nudo e pantaloncini corti, continua a strillare contro l’uomo esanime. Il vecchio trema ma si fa forza, continua a canticchiare l’inno come una preghiera, sbagliando il ritornello e mugolando le strofe che non ricorda. Quasi di rimando il gruppo di facinorosi, datosi un cenno, saluta in gruppo al Duce. Il vecchio risponderebbe, quasi come un riflesso, ma ha troppa paura anche per quello. Si avvicina a passi lenti mentre il boato di “A noi!” si leva da quelli che tutto sono, pensa il vecchio, tranne che Fascisti e Italiani. Quando è più vicino sente il respiro pesante dell’uomo a terra e il piagnucolare in falsetto del ragazzo. Vede figure muoversi all’interno dell’albergo e qualcuno affacciarsi alla finestra. E’ certo che le sirene saranno tra poco qui, che la luce blu e rossa colorerà tutti gli edifici, deve solo guadagnare un po’ di tempo perché quei due non vengano ammazzati. Arriva a distanza di sicurezza e poi, dopo essersi penosamente schiarito la voce, parla nel modo più convincente possibile.
“Così l’ammazzate quel poveraccio, non è mica una cosa che piacerebbe al Duc…” non fa in tempo a finire la frase. Il capobranco scatta in avanti e lo colpisce al viso con un pugno. La mano dura, ossuta gli rompe lo zigomo, il colpo gli riecheggia nella testa mentre quasi senza rendersene conto le gambe pensanti e ingessate cedono e lui si ritrova a terra battendo pesantemente la spalla destra. Una fitta di dolore si irradia per tutto il suo colpo e adesso anche i suoi lamenti si aggiungono a quelli degli altri due.
Risate meno convinte dal resto del branco. Una voce parla, un po’ troppo acuta per non tradire un minimo di paura “Sandro, quello l’ammazzi così, occhio”. Sandro probabilmente ascolta e per tutta risposta aggiunge soltanto un calcetto accennato sulle gambe del vecchio e torna a dedicarsi all’altro uomo e al ragazzo. Mormorii diffusi iniziano a parlare di andarsene, che la polizia tra poco arriverà.
Il vecchio vorrebbe piangere e forse un po’ lo fa, ma le urla del ragazzo si sovrappongono alle sue. Ora hanno deciso che è il suo turno.
“E’ un ragazzino” vorrebbe dire ma la bocca gli fa male tutta, la testa gli esplode, sente il sangue colare dallo zigomo sulla guancia. Cerca di scappare di arrancare verso l’ingresso del suo garage ma le urla del ragazzo gli entrano nella testa, fanno male quasi quanto la botta. Respira forte una, due, tre volte, stringe i muscoli e si rialza.
“Lascialo stare, su dai…” dice con poca convinzione e la testa bassa per paura di incrociare lo sguardo del capobranco. Sente gli sfinteri che stanno cedendo, è sicuro che tra breve si piscerà addosso se non peggio. Pensa che sporcherà l’uniforme di Figlio della Lupa, ma poi si rende conto che è una cosa successa tanto tempo fa. “Lascialo stare,dai!” la voce è più forte adesso. Lo guarda negli occhi e si rende conto che anche il capobranco è soltanto un ragazzo. Avrà anche lui vent’anni o poco più. I capelli ricci con il gel, i pettorali in mostra, alto più di un metro e ottanta ma sottile come uno stecchino. “Dovresti mangiare di più” gli avrebbe detto sua madre. Lui invece è piazzato. Ha le braccia grosse, ricordo di quando è emigrato in Germania a lavorare prima in miniera e poi in una fabbrica di mattoni. Le mani soprattutto sono ruvide e grosse, una piegata in un artiglio da quando il parafango di una macchina gli ha tagliato i tendini di tre dita. Il capobranco invece farà pure palestra ma ha le mani piccole, delicate. I pantaloni da mare e le scarpe da ginnastica nuove e bianche. A vederlo così, senza quella faccia arrabbiata che mette come una maschera, non fa poi paura. Senza il branco ne farebbe ancora meno.
Il vecchio è sempre scappato però. Una volta sola ha dovuto ricorrere alle mani. Era in Germania con un altro italiano. L’uomo non smetteva di insultarlo ed era arrivato a spintonarlo. Lui l’aveva colpito. Un unico colpo e lo aveva steso a terra. Nel momento in cui l’aveva visto crollare al suolo aveva subito pensato di averlo ucciso e il terrore l’aveva paralizzato. Ora, a distanza di 30 anni da quella volta, doveva ripetere quel singolo gesto. Solo un singolo gesto.
Il capobranco si avvicina, deliziato dal poter dare sfogo alle sue frustrazioni su una vittima non passiva. Vede le nocche bianche delle mani del vecchio e sa che vorrebbe attaccare. Sorride, ripensa agli allenamenti in palestra, quasi quasi lo farà provare e poi gli farà male davvero. E’ il branco a dargli forza, non ha paura, neanche della polizia che tra poco sarà qui. Alza le mani nella guardia del Muay Thai, come ha visto in tv e come scimmiotta alle volte sul ring in palestra.
La televisione, che se ne dica, è un veicolatore pericoloso di idee e stili di vita. Nel 1993 ogni giorno milioni di ragazzi si fissano a guardare religiosamente “Non è la Rai” che ha da poco traslocato da Canale 5 a Italia 1. Il capobranco non ha particolare affezione per quel programma anche se ne ha per le ragazzine che vi partecipano. Lui preferisce altro. In quegli anni abbondano i film di arti marziali e si è segnato in una palestra di full contact proprio dopo aver visto le spericolate violente acrobazie di Jean Claude Van Damme e soci. Le palestre ci vivono di questa luce riflessa, e ne aprono di nuove in continuazione per far fronte alla richiesta sempre più grande. Ma la percezione che si ha del combattimento derivata dalla visione di questi film è falsata. Solo anni più tardi si capirà che le tecniche di striking come quelle utilizzate nel full contact non sono il miglior approccio allo scontro da strada. Tecnica a parte, forza bruta, disperazione e cattiveria sono qualità molto più funzionali e pericolose in un combattimento “all’ultimo sangue” come quello in cui il capobranco si trova.
E così sottovalutare il vecchio è l’errore più grande che Sandro fa.
Perche questi il pugno lo scaglia con tutta la sua forza, con tutta la disperazione. Un maglio, tutto il suo braccio, lanciato verso il ragazzo per fare male, uccidere, finire. Il capobranco se ne accorge troppo tardi. Conosce le mosse per parare ma non servono a niente. Le braccia si aprono mentre quella mano rozza, vecchia e nerboruta, abituata per anni a stringere piccozze e maneggiare foratini bollenti, lo colpisce con una violenza che lui non conosce neanche nelle botte del padre, in pieno petto, poco sopra lo sterno, come trent’anni fa in Germania. L’aria viene scagliata fuori dai polmoni del capobranco come un canotto bucato. La faccia sbianca e il ragazzo cado a terra. Si agita un po’ stringendosi il petto, poi smette e resta immobile.
Il resto del branco scompare. Il ragazzo singhiozza e guarda a terra. L’uomo è immobile, il viso in una pozza di sangue. Il vecchio ansima, gli scoppia la testa, davanti agli occhi tornano ricordi lontani, la divisa da bambino che sua madre lavava e ogni volta che la indossava si sentiva orgoglioso, la Germania e i soldi, il lavoro terribile, il disprezzo della gente e le corse in lambretta, suo padre e la vita nel piccolo paese, le giocate a carte, l’arrivo a Roma negli anni sessanta, grande e bella, la compagna morta di un brutto male, il lavoro come autista, il viaggio a Predappio con un suo amico e le botte dai comunisti scampate per un pelo, l’uomo che lo raggirò rubandogli 2 milioni e i pianti per essere stato tanto stupido.
Tutto intorno a loro, lentamente, come ombre in un teatro, la città si rianima.
Il racconto è scritto bene e tu sei bravo.
Difficile provare empatia con questo “vecchio” (mi riesce più semplice con uno come Hannibal Lecter). Un uomo provato dalla vita che, nonostante tutto (o per questo), continua a covare nostalgie (per me) malsane. E che, alla fine, dopo aver sempre evitato lo scontro, si piega all’unica logica possibile che conosce: la violenza.
Disturbante ma, forse per questo, necessario.
Descrizione del contesto e dello stato d’animo veramente catturante.
Scelta del tema “scomodo”, quindi coraggioso.
Il vecchio ha compiuto una “azione sbagliata per un motivo giusto”*. E purtroppo l’esistenza degli esseri umani non credo si affrancherà mai da questa frase. Sentiamoci scomodi magari, ma veri come questo vecchio che non aveva altro modo per fermare il pestaggio.
Avrei letto il seguito
*G.D. Roberts
ho amato questo racconto…ho sperato nella rivalsa del vecchio….ero nella via,ho dato quel pugno con lui,ho seguito tutto con facilità,scorreva la storia,se era scomoda la tematica,l’ho trovata attuale,giusta per farsi le giuste domande con se stessi,io insomma l’ho apprezzato proprio tanto….
Un racconto incentrato su un argomento che di rado mi sento di approcciare, prevalentemente per l’umana incapacità di essere obiettivi.
Lo scritto mi ha conquistata, spingendomi a domandarmi sempre più di frequente con lo scorrere delle righe come sarebbe potuta finire. Però, a dir la verità, più dell’azione è magnetica la motivazione, quello scorrere di pensieri tra presente e passato che mette a confronto il protagonista con la sua vita e il lettore con spaccati di una società comunque attuale che troppo presto si condanna e troppo di rado si prova a comprendere e correggere.
Un racconto coraggioso. Complimenti.
Buonasera, mi complimento per il tuo modo di scrivere, coinvolgente e realistico, ho avuto davvero un senso fisico di “fastidio” nell’ immaginare concretamente le scene.
La serietà degli argomenti che hai scelto di trattare comporterebbe un ambito diverso per commenti approfonditi, mi limito a dirti che la storia è infinitamente triste ed inviterebbe a profonde riflessioni.
grazie davvero per gli apprezzamenti.
Ammazzare una persona con un pugno, anche se per un giusto motivo, è un atto di rivalsa? Il tuo racconto, secondo me, si basa tutto su questa domanda. E, correttamente, lascia al lettore la risposta. Possiamo schierarci, infastidirci, criticare e giudicare, non possiamo però rimanere indifferenti. Questo il senso che do io a questa bella storia, ben descritta e coinvolgente.
Bellissimo racconto! Ombre di cui Roma è irrimediabilmente intrisa, punti verso cui abbiamo gettato o getteremo lo sguardo. Personaggi agilmente profilati in modo tale da suscitare ira, nausea, disgusto, compassione…. ma di certo esenti da indifferenza. Complimenti!