Premio Racconti nella Rete 2015 “Cristalli” di Elisa Bazzani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Dall’alto della sua prigione, Mea spiava la vita dentro le pozze di zanzare. Pochi attimi per sognare di scendere a terra e raggiungere il vento che canta tra i canneti; poi sarebbe arrivato suo padre in divisa rosso blu.
La sera del 21 marzo, intagliati gli occhi nuovi della Madonna, Mea schiacciò la faccia contro la grata per guardare la città ricoperta dalle briciole della sua fatica. Lo zucchero galleggiava sull’acqua come brina e gli abitanti sembravano dentro alle palle che scuoti e scende la neve.
Quando la scala a chiocciola tremò, volse lo sguardo verso la palude per non sapere. Fu allora che notò contro il cielo una figura dalle gambe storte, saltare sulla superficie del lago. Poteva essere una rana gigante che si dava la spinta sulle foglie del fior di loto. Ma più che di libellule, quella strana creatura sembrava affamata di cielo.
Sulla riva destra del lago di mezzo, sotto un cespuglio di rovi, viveva Ivo. Il padre lo aveva venduto come garzone a Sparafucile, il barcaiolo, per un debito di gioco. Usando la bocca a forma di cannone, Sparafucile aveva insegnato al ragazzo l’arte della salatura. E dove non era arrivata la gittata delle parole, ci aveva pensato la baionetta spuntata che gli faceva da gamba destra. Appena il ragazzo fu pronto, lo mandò da solo fino a Goro, a comprare sale e pesce fresco.
Ivo partì all’alba, col remo puntato sui fianchi, gli occhi fissi al canneto. Ma al ritorno si voltò indietro a guardare la scia. Sembrava una coda di rondine. L’acqua lo chiamò con la voce di chi saluta i morti; in quell’attimo l’orizzonte si confuse. Ivo puntò la prua verso i tetti, gli aironi in volo. Tornò che era notte, con la barca di traverso. Si prese trenta bastonate, ma ormai gli occhi erano già pieni di stelle. Quella notte sognò di andarsene legando la lenza alle zampe delle folaghe.
Per la festa di San Paolo, a Mea vennero commissionate dieci ceste ornamentali, ciascuna contenenti dieci pani e dieci pesci di zucchero. Doveva sembrare tutto vero, come l’agnello abbozzato da Giotto sul sasso appena fuori Firenze. E Mea, che fino ad allora si era accontentata di immagini piatte su un mondo tondo, chiese al padre del pesce vero per farne una copia dal vivo.
Quando Ivo si presentò alla torre con i lucci sotto braccio, Mea capì di avere di fronte il raccoglitore di stelle. Andò nel laboratorio e uscì subito dopo rifiutando gli esemplari perché marci.
Al rientro del garzone, Sparafucile picchiò la bitta con tre colpi secchi di baionetta. Poi sparò.
«Lava ancora»
«Rimetti il sale»
«Nascondi gli occhi, domani al mercato.»
Ivo si mise al lavoro. Risciacquò le squame, spazzolò le branchie, infilò due dita nella gola dei lucci e al terzo si fermò: c’era qualcosa di duro all’altezza della lisca dorsale. Smosse il cervello ed estrasse una noce che sembrava di cristallo. La perla riempì la chiatta del silenzio dell’orsa maggiore, del velluto delle foglie dei tigli, di piume e veli di ghiaccio, del profumo che aveva sua madre quando lo attaccava al seno. Brillarono trecento facce, trecento specchi in cui inventarsi.
In uno, l’immagine più bella: una bambina con la treccia pinzata sopra la testa.
Il giorno dopo Ivo si presentò alla torre di Mea con gobbi e pesce gatti.
«Sai leggere?» chiese la bambina.
«No.»
«Non importa.»
Mea spianò lo zucchero e tracciò mappe celesti zeppe di passeri e stelle comete. Ivo le raccontò delle barene e sotto la sua voce i cristalli si fecero giunchi e bieta selvatica.
Sopra la cesta piena di anguille i due ragazzi si salutarono scambiandosi la sapidità di terre lontane.
Quella notte il padre di Mea andò dalla figlia a riscuotere il dovuto. Slacciò la cinghia di cuoio che si arrotolò per terra come un serpente addormentato.
Sotto il compagno, già pronto per il turno, ingannava l’attesa fregandosi le mani.
La terza cesta non era ancora finita.
Il giorno in cui vennero i san pietro, Mea spiegò al ragazzo che cosa avesse nascosto nella bocca dei lucci, al loro primo incontro: la riproduzione perfetta dell’opale che sua madre aveva indossato il giorno delle nozze. Com’era bella, così bianca che sembrava di neve. E rideva, accanto al marito che teneva sotto braccio il cappello colla piuma rossa. Ma poi una notte l’aveva baciata in mezzo agli occhi e se n’era andata, lasciandole in dono il cuscino del letto matrimoniale e la profezia: Nell’amore c’è tanto di salato. E da allora la bimba aveva smesso di sognare, perché l’acqua delle lacrime era evaporata, ma il dolore no.
Mancava una settimana alla festa.
La luna era così vicina all’acqua da prenderla a sposa.
Ivo scaricò davanti alla torre una cesta da cui sbucava un cono di sale grosso.
«Cos’è?» chiese la bimba affondando le dita.
«Il mio tesoro.»
Mea estrasse un cilindro liscio e freddo dai riflessi d’argento.
«Sembra venuto dallo spazio.»
«Invece l’ho trovato nel lago, mentre scandagliavo il fondale. Forse un tempo conteneva degli oggetti preziosi.»
«Non credo; ha un buco proprio qui sul coperchio. Cosa te ne fai?»
«Lo riempio di ghiaia e scuoto. Senti.»
« Bello. Cos’è?»
«La voce del mare.»
«Il mare? Non l’ho mai visto.»
«Domani saremo là insieme.»
«Com’è possibile?»
«Ci sarà bassa marea. Ho pensato a tutto; fidati.»
Ivo la convinse a trovarsi alle quattro nel punto esatto in cui il Rio inverte la corrente.
Mea conosceva la chiusa, la capriola del fiume sopra il masso mezzo metro più sotto. Vista dall’alto, la pietra le ricordava cranio di una morta.
«A domani» le disse Ivo infilandole nell’anulare l’anello a strappo della lattina.
Mea si appoggiò alla grata e lì rimase finché riuscì a riconoscere il ciuffo del ragazzo tra le teste che si agitavano ai piedi della torre.
Entrò in laboratorio con le mani tremanti. Controllò le cesellature dei manici delle ceste, sollevò in aria l’ultima coppia di pane scolpita e la schiantò contro il tavolo di marmo. Prese il mantice, riaccese il fuoco sotto il calderone, ci buttò dentro una manciata di schegge di zucchero e per un’ora lavorò di raschietto e bulino. La chiave nacque come per incanto, come ancora oggi nascono i cavalli di vetro a Murano.
Nascosto dal cespuglio di rovi, Ivo adagiò le foglie di ninfea sul fondo della barca affinché la bimba, sdraiandosi, non si facesse male.
La luna era a specchio dentro la lanterna di Santa Barnaba, quando le scale della torre tremarono. Mea si tolse l’anello senza fare caso alla sbavatura dell’orlo: una minuscola lacrima rossa cadde come fuoco in mezzo al bancone bianco.
Suo padre era nella stanza a riscuotere il dovuto. Per prima cosa controllò il lavoro, poi lasciò cadere a terra l’uniforme rosso blu, si coricò sopra la figlia finché di dolce non rimasero che le scaglie di zucchero sul pavimento. Quando ebbe finito, ritornò al bancone e con una mano gettò a terra due tinche.
«Son mal levigate,» disse scendendo le scale.
Vedere il proprio lavoro distrutto a terra, quello fece male a Mea, non l’amore; perché sapeva che sarebbe stata l’ultima volta.
Rintoccarono le tre e mezza.
Ivo lucidò l’amo da pesca con cui diceva che avrebbe preso a guinzaglio la luna, se lo mise al collo e sciolse le cime.
Mea scese le scale con gli occhi pieni di laguna. Sfilò dal corpetto lo stiletto di zucchero temprato, e il portone si aprì docile. L’odore della notte l’avvolse. Le dita dei piedi si rannicchiarono come a mangiare la terra che gli occhi conoscevano a memoria. Fu un attimo; poi gli alluci ballarono nell’aria fino a ritrovare il duro della pietra che avevano appena lasciato. Mea fu risucchiata verso l’alto, come un’Euridice al contrario, trascinata da un’uniforme rosso blu che, tradimento, non aveva preso turno. Coi polsi legati, conobbe quanto brucia il sale sulle ferite. Suo padre le grattò le guance contro la macchia di sangue secco e la prese sul letto finché non le fece scendere dagli occhi gocce brune come di melassa.
La notte si accese di comandi e torce.
Sparafucile sparò contro la barca che credeva diretta a Goro. La prima gittata fece girare lo scafo su se stesso per tre volte; con la seconda il fasciame sanguinò.
Ivo venne catturato mentre stava spiccando il volo su una foglia di ninfea, alla ricerca del suo amore, vicino alla pozza di San Giorgio.
Per ordine del barcaiolo il ragazzo fu appeso fuori nella gabbia del podestà, senza cibo e acqua. La gente che passò di lì lo vide tendere le braccia al cielo. Tutti lo credettero matto, non capendo che si potesse essere contenti perché vicini alla luna.
Ambientazione bellissima. Sembra quasi una fiaba triste di amore e di sopraffazione.
Molto bella-
racconto originale e suggestivo, magico e cupo. Bello.
Racconto duro, doloroso e triste. La semplicità soggiogata all’ignoranza e alla brutalità. Ma la luna dona ancora una speranza… Bello
Una fiaba noir, una storia cupa che solo la tua grazia nello scrivere non ha reso splatter. E, per questo, più efficace. Brava
Io sono per i finali lieti, ma questo racconto mi ha fatto tremare. Andando avanti vedevi arrivare nuvole sempre più buie e senza pietà. Hai una scrittura poetica e suggestiva. Molto bella. Complimenti.