Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2015 “L’esercizio di Fisica” di Paola Ciregia

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

Gli occhi a mezz’asta non mentivano.

Erano le sei e cinquanta di mattina e da pochi minuti avevamo preso posto (il solito) sul solito autobus che ogni giorno ci portava a scuola.

Dicembre non faceva niente per nascondere o camuffare la propria identità: il freddo si insinuava tra la lana della sciarpa e la ciniglia dei guanti e raggelava i pochissimi centimetri di pelle rimasti scoperti sul viso.

Seduta accanto a me se ne stava Martina, con il cappello con le battole appoggiato fin quasi sulle palpebre e il libro di fisica stretto tra le mani. Da ormai quattro anni, Martina era la mia compagna di viaggio sull’autobus proveniente da Monteggiori, un viaggio assonnato e spesso carico di ansia che ci conduceva verso una mattinata densa di compiti, interrogazioni e tentativi inutili di strappare alla prof. una seconda giustificazione oltre a quella che ci aveva compassionevolmente già concesso.

Era come se quel tragitto in autobus ci traghettasse verso le sponde dell’inferno: l’autista era il nostro Caronte e il capolinea di Piazza D’Azeglio la riva dell’Acheronte.

Durante quei venticinque minuti, Martina quasi sempre ripassava la materia della prima ora, logorata dall’incessante angoscia di essere l’ultima della classe.

Io, invece, della classe ero sempre stata la più brava, perlomeno fino a tre mesi prima.

Perché poi la vita, con i suoi colpi bassi e i suoi fuori programma, si era messa di mezzo e adesso la scuola, i voti, le pagelle e gli elogi dei professori erano scivolati all’ultimo posto nella scala gerarchica dei miei pensieri. Da quando era successo, nello stomaco sentivo solo un grande senso di vuoto che mi impediva di concentrarmi e che mi faceva avere soltanto voglia di piangere, piangere e basta.

Martina sfogliò una pagina e il fruscio dei fogli scarabocchiati di formule mi fece ricordare dell’imminente compito di fisica. Appoggiai la fronte al finestrino e pensai all’esercizio che il giorno prima avevo provato a risolvere e che avevo lasciato incompiuto, distratta dai mille ricordi di cui ogni angolo di casa era impregnato.

C’era un ometto in moto che si imbatteva in un precipizio largo due metri e mezzo e profondo quattro e noi, come impietosi burattinai, dovevamo stabilire se, alla velocità di sessanta km/h, il nostro eroe fosse riuscito a sorvolarlo o se vi fosse caduto dentro e, presumibilmente, morto. Mi immaginai questo omino che si dirigeva inconsapevole verso una voragine che lo avrebbe inghiottito e mi sembrò di osservarlo dall’alto.

Lo facevo spesso di uscire dal metro quadrato a mia disposizione e di guardare le cose dall’esterno.

Era un modo per spremere l’immaginazione, per disegnare una visuale che i miei occhi non potevano abbracciare ma che la mia mente era libera di delineare a suo piacimento.

La prima volta era successo circa tre anni prima, proprio in autobus, mentre andavo a scuola. Guardando fuori dal finestrino avevo avvertito l’impulso di estraniarmi dalla mia persona, uscire da quell’autobus, da quella strada, e così facendo, mi era sembrato di vedere dall’alto tutte le auto e tutte le case del mondo, e pure tutti gli spazzini del mondo, intenti a pulire lì dove era passato l’incivile di turno. Addirittura ero riuscita a vedere il mio pullman, minuscolo, simile ad una macchinina della Lego, andare come una scheggia in una strada semideserta.

“Io del moto parabolico non c’ho capito niente”, sbuffò ad un certo punto Martina.

“Neanche io. E non ho preso nemmeno appunti”.

“Lo so che non hai preso appunti”.

La guardai con aria interrogativa.

“Neanche io ho preso appunti. E io di solito prendo appunti quando vedo che anche te stai scrivendo. Perché se te non prendi appunti, allora vuol dire che quella cosa non è importante. Altrimenti, almeno un appunto lo prenderesti…”

Avrete capito che Martina non era di certo un asso in fisica (e nemmeno in italiano, visto il numero spropositato di volte in cui aveva ripetuto la parole appunti), però in materia di amicizia si meritava senza dubbio il massimo dei voti.

Le sorrisi, dandole un colpetto affettuoso con il gomito.

“Dai, appena arriviamo in classe, ripassiamo insieme le formule più importanti. Vedrai che qualcosa nel compito ci scriviamo…”

Poi tornai a guardare il mondo che scorreva veloce fuori dal finestrino e per un attimo mi sembrò che il cielo, quella mattina di metà dicembre, fosse più azzurro di come lo avevo visto appena uscita di casa.

E l’ometto dell’esercizio?

Ho fatto e rifatto i calcoli e, per fortuna, si è salvato.

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4 commenti »

  1. È un racconto delizioso. Si legge con faciltà, è scorrevole. Immaginiamo quell’autobus, il suo percorso sempre uguale e la storia della protagonista, mutata per “i colpi bassi della vita”. Restiamo curiosi per ciò che ha capovolto la scala gerarchica dei suoi valori, forse un lutto. Ci estraniamo con lei, guardando fuori dall’autobus e ci dispiaciamo per Martina, che è l’ultima della classe. La conclusione ci strappa un sorriso: siamo felici per l’omino dell’esercizio di fisica che, dopo ripetuti calcoli, si salva. È come se l’autrice ci stesse dicendo che, anche quando i fuori programma della vita ci svuotano al punto da lasciarci soltanto il desiderio di piangere, piangere e piangere, possiamo tornare a vedere il cielo azzurro, grazie all’amicizia di chi ci sta vicino. Brava.

  2. Un racconto che si legge con molta facilità, che ti lascia la certezza delle vere amicizie che ti scaldano la vita….tuttavia al lettore sfugge il motivo del cambiamento di rotta della protagonista…..costui può solo fantasticare . Clicca qui se ti va di leggere e commentare il mio per crescere insieme confrontandoci http://www.raccontinellarete.it/?p=22464

  3. Quella capacità di astrarsi dal reale, quasi una fuga per inseguire altri pensieri, mi ricorda periodi dell’adolescenza in cui era molto frequente e consolatorio questo atteggiamento.
    E’ reso molto bene.

  4. Ci lasci un po’ l’amaro in bocca con quel “Da quando era successo” ma, in fondo, si capisce che volevi parlarci d’altro. Beata adolescenza… Brava

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