Premio Racconti nella Rete 2015 “Falsità” di Natalia Lenzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015Mia sorella scoppiava di vita.
Io, ero la sorella maggiore. Io, ero quella tormentata, quella delicata, quella problematica.
Io, ho sempre guardato il mondo con gli occhi velati di una certa rassegnazione, lei, i suoi occhi, li teneva sempre ben aperti, aperti anche per me.
Lei si alzava sempre presto il mattino, anche quando non sapeva che cosa farsene del giorno. Si alzava, si preparava, faceva una bella colazione e diceva che era pronta, pronta per qualsiasi cosa quel giorno le avrebbe potuto offrire. Non si sa mai, ripeteva ridendo, che cosa potrebbe rovinarci addosso: bisogna essere pronti per tutto.
Io ridevo, con quella condiscendenza che si concede ai bambini simpatici che dicono cose assurde. Ridevo e le consigliavo di tornarsene a scuola, che quello era il posto giusto per combinare qualcosa di buono. Ma per lei, persino l’università, era soffocante. Lei si sentiva cittadina dell’universo e la verità era che quattro mura non l’ avrebbero mai potuta costringere.
Era un piccolo sole, con i suoi raggi protesi ovunque.
Mia figlia.
Che cosa può dire una madre di una figlia morta.
Una morte maligna che l’ha cercata in silenzio e poi l’ha scovata.
Era un gioiello, mia figlia. Una pietra grezza.
Mi ha sempre fatto impazzire, fin da piccola.
All’asilo aveva delle crisi di pianto talmente forti che le maestre, disperate e impotenti, mi cercavano dappertutto e lei, quando arrivavo di corsa, con quegli occhioni neri gonfi di lacrime, si apriva in una risata talmente immediata e talmente disarmente, che, insieme ad un sospiro di sollievo, faceva venire a tutti il prurito alle mani. Ed ogni volta, la stessa cosa. Ci prendeva in giro tutti.
La scuola elementare fu anche peggio. Si avviava verso quel cancelletto piena d’entusiasmo, ma, una volta imparato a leggere, a scrivere e a far qualche conto, sentenziò che continuare ad andare a scuola era inutile. E non c’era modo di smuoverla da quel proprosito…se non portandola di peso.
Ma non ci si poteva arrabbiare con lei; era impossibile restare in collera con lei a lungo. Era troppo, troppo, piena di vita. Gli occhi non le brillavano, scoppiavano. La sua risata sbalordiva per quanto era forte, squillante, improvvvisa. Aveva quel modo di fare, di guardarti… di accarezzarti senza motivo.
Volevo molto bene a mia sorella. Non avevo bisogno di perderla per capirlo. Lo sapevo già.
Usciva di casa al mattino e non si sapeva mai quando tornava. Tornava sempre, però. Non ha mai dormito una sola notte fuori di casa.
Aveva ventitré anni e, a volte, la rimproveravo di comportarsi come una tredicenne. Mi ritrovavo a spettinarla come fosse davvero una bambina. Ero io che invece non vedevo che era diventata una donna. Lei lo sapeva già, non aveva bisogno di dimostrarlo.
Io ero quella con la laurea incorniciata in camera. Quella seria che si alzava la mattina con in testa già la giornata programmata, con i vestiti del giorno dopo già pronti in fondo al letto.
Lei ti perdonava tutto e a lei si perdonava tutto.
Quando mi ha detto che l’università non faceva per lei, dopo un anno che ogni mattina, con non troppo entusiasmo, andava a lezione, non mi ha certo sorpreso. Anzi, è stato quasi un sollievo. L’idea di dovermi consumare nell’ansia dell’attesa del giorno di un esame o di quello della laurea, mi terrorizzava. Con lei, era possibile che quel giorno decidesse di andare al mare… era istinto puro. Era divorata da una curiosità insaziabile per il mondo e si abbandonava a quella curiosità in modo totale ed incosciente. Eppure, non ha mai chiesto niente a nessuno, né a me, né a suo padre.
Ha fatto mille lavori, si adattava a tutto, e se ne perdeva uno, ne trovava subito altri due. Conosceva tanta gente e lei era generosa, di tempo e di parole, con tutti. Davvero. Con tutti. A volte, mi diceva, che l’unica cosa che le dispiaceva veramente era di avere a disposizione una vita soltanto, perché con tutto quello che voleva fare, che voleva vedere, era certa che non le sarebbe bastata.
Neanche quell’unica vita, le ha lasciato.
Lui non era bello. Non aveva i tratti della perfezione.
Era affascinante. Ti conquistava con il modo di parlare, di guardare, con il suo modo di fare.
Lui era intelligente, eccezionalmente bravo nel suo lavoro.
Aveva il dono della comunicativa. Un dono non comune.
Rendeva semplice, il più difficile dei concetti.
Piaceva a tutti; cordiale, riservato, gentile. Difficile trovargli un difetto.
Teneva corsi di aggiornamento per i colleghi e, a dispetto della giovane età, era apprezzato e stimato. Il primo ad arrivare, l’ultimo ad andar via. E sempre con un sorriso.
A pensarci adesso, era fin troppo perfetto, eppure, conoscendolo meglio, varcando la soglia del rapporto allievo insegnante, non c’era stata delusione. L’apparenza si era felicemente trasformata in concretezza.
Se non avesse ucciso mia sorella, potrei persino dire che era una persona normale, per bene.
Un mostro. Non so chiamarlo in altro modo.
Ci sono dei giorni durante i quali non riesco a perdonarmi di averlo persino difeso.
Piango e mi dispero, poi capisco che non era la mia cecità, ma la sua facilità all’inganno.
Poi, arriva un altro giorno e uno dopo ancora.
La mia personale tortura.
Mia figlia era felice con lui. Non l’avevo mai vista così serena. Aveva gli occhi limpidi. Per questo, la prima volta che mi parlò dei suoi dubbi, le consigliai di essere comprensiva e di pensare bene alla scelta che intendeva fare.
Il solo risultato che ottenni, fu che lei smise di parlarne.
Era sposato.
Dopo mesi di una relazione appagante, spunta dal nulla una moglie.
Una moglie che, personalmente, ho incontrato una sola volta, settimane dopo la scomparsa di mia sorella. Una donna minuta, straordinariamente bella, triste, e completamente svuotata.
Un bel vaso, senza acqua né fiori.
Quella moglie nascosta così bene per mesi, che era più forte il dolore per l’inganno che per il cuore spezzato. Un dolore da lasciare senza fiato.
Che cosa poteva fare un uomo capace di tanta doppiezza?
La relazione finì. Subito.
Quel giorno maledetto eravamo tutti insieme.
Era la prima sera tranquilla dopo un lungo periodo amaro. Il mostro non aveva accettato il rifiuto.
Non si era certo lasciato andare a scenate, non era il suo stile, e nemmeno aveva minacciato di uccidersi per amore o si era fatto vedere piangere in ginocchio davanti casa. La, mia, casa. No. Lui le telefonava, la seguiva, la cercava. Senza esagerare, però. Cercando di non soffocarla troppo, magari spingendola a denunciarlo. Lui faceva leva sulla sua sensibilità, bontà, e su una sua certa ingenuità. Lui era convinto che lei lo amasse ancora: non aveva capito quanto la sua falsità l’avesse offesa, stordita.
Lui non aveva mai capito niente di mia figlia.
Quel pomeriggio eravamo tutti a casa. Una famiglia felice. Era un giorno caldo, estivo. L’idea, era di una cena in giardino, di una bella grigliata in compagnia. Gli amici di mia sorella iniziarono ad arrivare a piccoli gruppi, non appena l’afa divenne meno soffocante. Due, tre per volta. Allegri e colorati. Come lei.
Lui aveva capito, questa almeno era la nostra convinzione in quel momento, che doveva finalmente rinunciare a quella follia che chiamava la soluzione di tutto: divorziare dalla moglie, cancellarla dalla sua vita, liberarsi da quella catena del matrimonio che, a suo vedere, era l’unica cosa a tenerlo lontano dal suo vero amore.
Una follia.
Una follia che dimostrava quanto non volesse capire che erano state le sue menzogne, pianificate e articolate, a rendere inaccettabile ogni riconciliazione.
Era riuscito a nascondere una moglie.
Era riuscito tranquillamente a vivere una doppia vita.
Una follia.
Non riuscivo a capire come avesse potuto ingannare mia figlia, ingannarla su una cosa tanto importante. Ma così è stato, e non c’è niente di meno utile e di più doloroso, nel continuare a domandarselo.
Quel pomeriggio, mio marito non c’era.
Quel pomeriggio, si presentò a casa.
Ricordo che ero in giardino e che avevo in mano un sacchetto di zucchine.
Le volevo grigliare.
Da quel giorno, non ne ho più mangiate. Ho alzato gli occhi e lui era lì, in piedi, nel mio giardino. Mi sono arrabbiata.
Ho pensato che aveva davvero esagerato, presentarsi a quel modo, davanti a tutti, ovviamente senza invito.
Ho fatto un passo avanti e poi è successo tutto in fretta.
L’ultima cosa che ricordo chiaramente è l’anello che si era portato dietro, mescolato al sangue di mia figlia.
Stavo parlando con qualcuno.
Ancora oggi, non ricordo bene chi fosse, era uno degli amici di mia sorella. Lei portava in casa tanta di quella gente, che a volte era difficile persino ricordarsi tutti i nomi…
Lo vidi in piedi, vicino al cancello, dentro il giardino di casa.
Qualcuno si era girato a guardarlo, incuriosito, un trentenne silenzioso in una riunione chiassosa di ventenni.
Sono subito andata da lui.
Ero arrabbiata, spaventata, pretendevo di sapere che cosa voleva ancora da me; in che cosa non ero stata abbastanza chiara. L’amante, non volevo farla, e non ero nemmeno quella donna pazzamente innamorata da perdonare l’imperdonabile.
Ricordo il tumulto delle emozioni contrastanti che mi ribollivano dentro e il gelo improvviso quando vidi, ad un passo da lui, nelle sue mani, una piccola scatola di velluto blu e un lungo coltello.
Protese il braccio, offrendomi quella che chiaramente era la scatola di un anello.
Mi disse che stava divorziando.
Io non lo vidi, il coltello.
Erano vicini e io ero dietro di loro, piuttosto lontano.
I ragazzi chiacchieravano, ridevano.
Qualcuno mi prese il sacchetto dalle mani, o così almeno credo, perché quando le portai alla faccia dalla disperazione, erano vuote.
Lei, sicuramente vide tutto. Il mio piccolo raggio di sole.
Lei detestava l’ipocrisia, lei che era più trasparente dell’acqua, lei che non sapeva nascondere nè una lacrima nè un sorriso, lei che nemmeno sapeva che cos’ era un segreto. Lei che aveva sofferto quanto, e, forse, anche di più della sorella, per quella relazione fallita miseramente, affogata nelle bugie.
Ricordo di averla vista partire, decisa a frapporsi fra i due, e poi l’ho vista scivolare piano a terra, sull’erba.
Scivolava piano.
Nella mia testa, ogni notte, succede sempre lentamente.
Lei che scivola piano, lei che muore piano.
Non sono riuscita nemmeno a dirgli una parola.
Quell’anello che mi offriva era la promessa di una vita insieme.
E quel coltello? Quel coltello che cos’era?
L’unica alternativa al mio rifiuto.
Mia sorella è comparsa all’improvviso.
Si è messa davanti a me, senza dire o fare niente, perchè non ne ha avuto il tempo.
Lui, non riesco nemmeno a chiamarlo per nome e non riesco a capire come io possa aver condiviso con quell’animale il mio corpo e una parte della mia vita, ha affondato più e più volte il coltello.
Mi hanno raccontato che intorno a noi tutti gridavano, che un paio di amici di mia sorella si sono gettati su di lui.
Io non ricordo niente.
Rivedo solo il suo corpo giovane che preme sul mio ad ogni affondo e che poi scivola piano in basso. Rivedo l’anello di fidanzamento, il mio, anello di fidanzamento, scivolare fuori della scatolina blu e rotolarmi ai piedi, nell’erba già sporca del sangue di mia sorella. Rivedo lui che mi guarda e non capisce come mai io sia ancora viva ma poi mi dice che sarà presto libero da sua moglie e che potremo stare insieme…
Nemmeno sa, quanto quelle parole fossero vere, profetiche, perché, da quel momento, noi due siamo stati sempre inseparabili. Lui è sempre con me, ad ogni respiro, ad ogni battito del cuore, e lo sarà per sempre, chiuso nella parte più angosciata della mia anima. Una lama affilata che tiene aperta la ferita del senso di colpa.
L’uomo che ha ucciso la mia sorellina.
Toccante verità, sentita dalle figure femminili, un bel susseguire di drammaticità e speranze fallite.
Dramma straniante! Tiene col fiato sospeso il lettore fino all’ultimo. Credo che lo straniamento che ho provato sia dovuto all’espediente di far raccontare i fatti a due persone invece che a una sola. Due prospettive che si incontrano nel dolore. Complimenti, bello lo stile e il climax delle emozioni
Un modo assolutamente nuovo di raccontare una realtà oggi diffusa….purtroppo, la violenza sulle donne! Lo stile è coinvolgente e appassionante, complimenti!
Bello bello!
Complimenti perchè hai saputo raccontare uno spaccato terribile della nostra società con uno stile semplice e incisivo! Se vuoi leggere e commentare il mio, poichè si cresce confrontandosi ,clicca qui http://www.raccontinellarete.it/?p=22464
Un racconto magistrale di un folle dramma (non d’amore, perché qui l’amore non c’entra proprio nulla). Decisivo il doppio punto di vista, che aiuta a far crescere la tensione fino all’intrusione dell’irrazionale. “Da quel giorno, non ne ho più mangiate (le zucchine)”, questa frase, potentissima nella sua apparente semplicità, rende appieno l’idea di come, la violenza, possa condizionare la vita di chi la subisce. Brava
Il doppio punto di vista sorella/madre rende perfetta la suspance di quello che sta per accadere. Scrivi molto bene e la resa del racconto è ottima, secondo me dettata dal fatto che il personaggio che muore non è mai narrante. Personalmente avrei intitolato questo bel racconto con una delle frasi finali delle due narratrici (Lei che scivola piano; Lui è sempre con me, ad ogni respiro) per enfatizzare la tragicità della storia. Ma il mio è solo un semplice pensiero in libertà. Brava brava.
Uno spaccato toccante di una realtà che troppo spesso troppe donne si trovano costrette ad affrontare. La tragicità, oltre alla morte assurda dettata dalla follia di un uomo spregevole, deriva dalla sopravvivenza a discapito di una persona innocente. Inizialmente devo ammettere che avevo pensato che la relazione fosse della sorella uccisa, a diretta conseguenza della rivelazione della sua morte. Il tracciarsi della trama ha poi dato un’inquadratura diversa, sofferta e raccapricciante, che nessuno dovrebbe subire o affrontare. Davvero intenso, davvero angosciante. Complimenti.
VORREI RINGRAZIARE SINCERAMENTE TUTTI PER I COMMENTI CHE AVETE LASCIATO.
NON è UN TEMA FACILE DA RACCONTARE. IO SCRIVO SPESSO DI STORIA E
CONSIDERO QUESTO TRAGICA REALTA’ UNA SORTA DI ”STORIA CONTEMPORANEA” :
CHISSA’ FORSE SARA’ UN BRUTTO CAPITOLO NEI FUTURI LIBRI DI TESTO STORICI.
GRAZIE DI INCORAGGIARMI.
E’ FONDAMENTALE.
natalia